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La mente può trovarsi in stati diversi , il sonno ,il sogno, la trance,l'ipnosi,l'attenzione fluttuante,
l'estasi,la preghiera,la meditazione,la creatività artistica e scientifica,
l'esplorazione dello spazio e degli abissi marini,l'agonismo sportivo.

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Il cervello virtuale , Come il cervello s'inganna, come ingannare il cervello di Pierangelo Garzia

 Ingannare il nostro cervello non sempre, e non necessariamente, rappresenta qualcosa di negativo. Anzi, l'arte dell'illusione e dell'inganno sono alla base di molteplici forme di piacere e intrattenimento della nostra vita: cinema, fotografia, stampa, televisione, videogiochi, internet. E prima di essi teatro, letteratura, musica, illusionismo, narrazione, arte, rappresentano altrettanti surrogati della realtà graditi, ricercati e prodotti continuamente dal nostro cervello in ogni epoca e luogo della cultura umana. Da un certo punto di vista, la necessità di ingannare se stessi è scritta nelle nostre cellule. Il cervello lo fa regolarmente, ogni giorno e, soprattutto, ogni notte. Lo facciamo quando vogliamo convincerci che quella persona, e soltanto lei, è la più adatta per starci accanto e costruire la più bella e intensa storia della nostra vita. Per poi scoprire, magari dopo non molto tempo, che non era esattamente così. Lo fa costantemente, in modo naturale, il nostro cervello ogni volta che sogniamo. Anche durante il giorno. Dai tracciati cerebrali "dinamici" (l'equivalente della registrazione holter dell'attività cardiovascolare) risultano dei periodi "onirosimili": l'assunto "sognare ad occhi aperti" ha dunque una sua oggettività e un riscontro di tipo strumentale.


Su queste basi neuropsicologiche si sono costituite, prima e dopo Freud, una serie di indirizzi psicoterapici che hanno sviluppato tecniche volte a modificare lo stato di coscienza: suggestione, ipnosi, induzione e sollecitazione di immagini mentali e oggi, l'impiego di tecnologie informatiche per la realizzazione e l'utilizzo di quella che genericamente è stata definita "realtà virtuale" (in sigla Rv). Programmi per computer, sensori, caschi, occhiali, joystick, periferiche sempre più sofisticate, costituiscono l'armamentario per consentire al nostro corpo e, soprattutto, al nostro cervello di sperimentare una realtà creata artificialmente, come se fosse reale. Nei secoli passati ciò era già ricercato in varie culture, con tecniche sia corporali che indotte da sostanze: meditazione, trance, uso di sostanze allucinogene, rappresentavano l'ingresso - consentito dai mezzi dell'epoca – in realtà alternative. Lo sviluppo culturale della mitologia, della passione per l'occulto ed il mistero, rappresentano altrettante facce di questa innata tendenza della nostra psiche a voler sperimentare l'ingresso in mondi alternativi. Se non altro, creati dalla nostra o altrui mente.

Perché ricerchiamo realtà alternative

Reale o virtuale, per il cervello sono la stessa cosa. Evidentemente, la sperimentazione della sola realtà quotidiana, al nostro cervello non risulta sufficiente e sempre gratificante. Fare esperienza di un ambiente materiale, oggettivo, reale appunto, oppure di un ambiente creato attraverso il programma di un computer, in cui ci troviamo immersi grazie a tecnologie informatiche, è a livello percettivo una esperienza carica di sensazioni, emozioni, attivazione di aree cerebrali specifiche. Del resto, la ricerca con le tecniche di visualizzazione dell'attività cerebrale, ha dimostrato già da tempo che spesso è sufficiente solo immaginare di compiere una determinata azione per attivare l'area cerebrale preposta. Chi ha fatto esperienza con il cinema 3D, magari in una sala Imax, sa quanto possa essere coinvolgente questo tipo di intrattenimento. L'uso dei videogiochi, dei mondi alternativi su internet, sono altrettante premesse di quanto la tecnologia ci sta preparando per il futuro: esperienze totalizzanti in mondi alternativi, artificiali, oppure viaggi in luoghi esistenti, ma senza spostarsi di un millimetro da casa propria. Le nuove tecnologie produttrici di realtà virtuale saranno l'equivalente legale ed autorizzato delle sostanze psicotrope, degli allucinogeni? Da una certa prospettiva, sì. Già oggi, ci confrontiamo con la dipendenza dall'immaginario su internet.





Il cervello raffigura il mondo

Ciò che è nella nostra mente, nei nostri neuroni, non è il mondo, ma bensì una sua raffigurazione. Se alla percezione e trasformazione in segnali neuronali del mondo reale, sostituiamo un mondo immaginario o, meglio, virtuale, esso entra in modo altrettanto efficace a far parte dei contenuti del nostro cervello. La tecnologia virtuale si sta sempre più sviluppando in tal senso: sia per ingannare il cervello (distogliendolo o desensibilizzandolo rispetto ad ansie e paure alla base di fobie o stati di stress post-traumatico), sia per ampliare le conoscenze limitate dalle dimensioni del reale (con opportune tecnologie immersive della Rv è ad esempio possibile "entrare" in una molecola virtuale e "manipolarla", nel vero senso della parola). I mondi virtuali possono quindi essere utilizzati a scopo di piacere, ludico, come altrettante fughe dalla realtà. Oppure per ampliare e arricchire le nostre conoscenze del mondo reale, attraverso simulazioni che ci consentano di prendere contatto con livelli dimensionali altrimenti inaccessibili. Per fare un altro esempio, gli archeologi e gli storici hanno oggi modo di ricostruire virtualmente un ambiente del passato, potendocisi poi muovere ed esplorarlo dall'interno. Altrettanto efficace risulta oggi l'Rv a scopo didattico: pensiamo soltanto alla possibilità offerta al chirurgo principiante di potersi esercitare su un corpo virtuale, anziché reale.





L'Rv prima dell'Rv

La RV, concettualmente, non nasce con la realizzazione tecnologica delle strumentazioni informatiche, ma esisteva prima che prendesse questo nome. Fantasticare, produrre immagini mentali, sognare, sono forme "spontanee" di Rv del nostro cervello. In quanto necessità naturale del nostro cervello, è imprescindibile dal suo buon funzionamento. Inoltre, come specie, abbiamo creato fin dalle origini tutta una serie di "realtà virtuali" (in sintonia con conoscenze e possibilità contingenti) che ci dessero piacere, ma anche sollievo e terapia: pantheon religiosi, mitologie, giochi di simulazione, fiabe, arte, musica, letteratura, cinema, media, videogiochi. Persino l'uso millenario delle droghe psicoattive può essere considerato una tendenza del nostro cervello a creare e sperimentare realtà alternative a quella consensuale.



C'è quindi da chiedersi: perché il cervello ricerca momenti di evasione dalla realtà? Il sogno è l'Rv di cui ci ha dotato la natura. Il cervello è strutturato per vivere ogni notte il 25 per cento di sonno REM (e nel neonato addirittura il 50 per cento): dal punto di vista evolutivo il cervello vive e ha necessità di generare le proprie forme di Rv. Ma anche la didattica vive di immagini mentali e di Rv. Tutti i grandi mnemonosti del passato, e pure quelli attuali, per potenziare la memoria indicano la via del teatro della memoria. Sottolineano l'importanza di creare luoghi immaginari nella nostra mente per fissare ricordi, informazioni, nozioni. E così la psicoterapia. Molti approcci psicoterapeutici, se non tutti, utilizzano il ricordo, l'"immagini che". Oggi, e sempre più in futuro, l'"immagini che" potrà essere efficacemente sostituito dalla Rv. Il terapeuta del futuro disporrà di programmi e tecnologie che gli consentiranno di creare ad hoc situazioni e ambienti Rv personalizzati sulle esigenze e problematiche del paziente che si troverà davanti. Il "si immagini che" sarà sostituito dall'annotazione delle problematiche, (fobiche, da dipendenze o altre) del proprio paziente, e dalla conseguente traduzione delle stesse in programma da sviluppare in ambiente Rv.





Le tecnologie e i costi dell'Rv

Ma vediamo, a livello pratico, quali sono le tecnologie impiegate e i costi per utilizzare al meglio la Rv nelle applicazioni fino ad oggi sviluppate. Per farlo, abbiamo chiesto aiuto a Giuseppe Riva, psicologo-ricercatore e docente di nuovi media all'Università Cattolica di Milano, tra i maggiori esperti mondiali di Rv (non a caso è stato co-chairman e organizzatore del Convegno internazionale sulla ciberpsicologia e ciberterapia svoltosi di recente, per la prima volta, nel nostro paese).



La realtà virtuale è un ambiente tridimensionale generato dal computer in cui il soggetto o i soggetti interagiscono tra loro e con l'ambiente come se fossero realmente al suo interno. Dal punto di vista tecnologico è possibile distinguere tra due tipi di realtà virtuale: quella immersiva e quella non immersiva. La realtà virtuale è immersiva quando è in grado di creare un senso di assorbimento e «immersione» sensoriale utilizzando:



1) un dispositivo di visualizzazione, normalmente un casco (head mounted display), capace sia di visualizzare in due o tre dimensioni gli ambienti generati dal computer, sia di isolare l'utente dall'ambiente esterno;

2) uno o più sensori di posizione (tracker) che rilevano i movimenti dell'utente e li trasmettono al computer, in modo che questo possa modificare l'immagine tridimensionale in base al punto di vista dell'utente.



Alternativamente l'utente può essere immerso in un "cave" (caverna), una camera di proiezione costituita da tre, quattro o sei schermi posti in posizione reciproca su cui vengono retroproiettati gli ambienti generati dal computer. In questo caso l'impiego di sensori di posizione ottici consente di rilevare e di trasmettere al computer la posizione e il movimento dell'utente.



La realtà virtuale non immersiva sostituisce il casco con un normale monitor. In questo caso l'impressione dell'utente è quella di vedere il mondo tridimensionale creato dal computer attraverso una sorta di «finestra». Inoltre, nei sistemi di realtà virtuale non immersiva, il soggetto interagisce con l'ambiente tridimensionale attraverso un joystick. La realtà virtuale può essere utilizzata anche in maniera «condivisa» come strumento avanzato di comunicazione, come avviene all'interno del mondo simulato di Second Life (www.secondlife.com). Da un punto di vista comunicativo questa forma di realtà virtuale può essere considerata come una estensione tridimensionale e interattiva delle tradizionali chat grafiche. La realtà virtuale condivide con queste l'uso di avatar personalizzati e di ambienti navigabili. Si differenzia però per le possibilità di interazione all'interno dell'ambiente. Da una parte sono utilizzabili dall'utente interfacce avanzate come sensori di posizione e caschi immersivi. Dall'altra l'esperienza dell'utente è di solito inserita all'interno di un contesto narrativo che conferisce un senso alle interazioni.



I principali centri di ricerca nel settore sono americani, grazie all'interesse del ministero della difesa USA per questo tipo di applicazioni. L'US Army finanzia con circa 100 milioni di dollari l'anno l'Institute for Creative Technologies (ICT - http://ict.usc.edu/), una spin-off dell'Università della Southern California creata nel 1999 per realizzare applicazioni cliniche basate sulla realtà virtuale per l'utilizzo in ambito militare. Per esempio, DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) gli ha commissionato lo sviluppo di un sistema di Rv per addestrare i propri operatori sanitari utilizzati per il primo intervento sul campo di battaglia.



Rispetto ad una tradizionale lezione in aula i vantaggi offerti da queste tecnologie sono due. In primo luogo si permette all'operatore di interagire con i pazienti e con i diversi strumenti richiesti come se questi fossero davvero insieme all'utente. Ciò consente di imparare attraverso l'esperienza diretta e in tempo reale dai risultati delle proprie azioni: se l'intervento è sbagliato il paziente virtuale simula il dolore o il pianto. In secondo luogo è possibile riprodurre le caratteristiche ambientali della situazione che producono nell'operatore una risposta emotiva simile a quella che proverebbe in battaglia. Questo permette non solo di imparare una tecnica ma anche di sperimentare emozioni (panico e tensione) e di imparare a controllarle grazie alla supervisione di uno psicologo.



Questa componente esperienziale viene utilizzata anche nel trattamento di diversi disturbi psicologici. In particolare è stata utilizzata all'interno del progetto americano "Virtual Iraq" per aiutare i veterani a superare i traumi della guerra. I costi possono variare molto e dipendono dal tipo di tecnologia utilizzata. La tecnologia più costosa, attualmente utilizzata dal governo americano e da alcune università, è il CAVE – Cave Audio Visual Environment. Il CAVE, è una stanza in cui le pareti, il soffitto e il pavimento vengono sostituiti da schermi retroproiettati in grado di visualizzare immagini 3D. Nella stanza i movimenti dell'utente vengono rilevati da appositi sensori consentendo di aggiornare l'ambiente tridimensionale visualizzato sulle pareti. Un sistema di questo tipo ha un costo a partire dai 200 mila euro per arrivare a superare il milione per le installazioni più grandi.



Un sistema virtuale basato su un PC tradizionale potenziato da una scheda grafica di ultima generazione (Nvidia GeForce GTX 295 o ATI Radeon HD 4870) e su un casco immersivo tridimensionale pensato per il mondo dei videogiochi (Vuzix Iwear VR920 o Emagin Z800 3D) può costare invece tra i 4.000 e i 5.000 euro. Un sistema di questo tipo può diventare un efficace strumento per la ciberterapia se utilizzato insieme a NeuroVR (www.neurovr.org), un software gratuito creato dall'Istituto Auxologico Italiano in collaborazione con il Virtual Reality & Multi Media Park di Torino.





Per concludere

Il mondo della ricerca per le applicazioni della Rv è in costante fermento. L'unico limite è oggi dato dagli alti costi delle tecnologie da impiegare e da sviluppare. L'Rv funziona perché è la riproduzione-estensione di ciò che fa sempre il cervello: costruirsi la "propria" realtà. C'è una realtà consensuale, condivisa da tutti (quella materiale, oggettiva), ma le sensazioni, emozioni, vissuti rispetto alla realtà esterna, sono strettamente personali. L' Rv funziona tanto più e tanto meglio quanto riesca a "sintonizzarsi" con la RV interna, di ognuno di noi. I programmi per il trattamento di disturbi, fobie (o riabilitativi) funzionano tanto più sono personalizzati sul vissuto del soggetto. Quanto più riescano a "innestarsi" sulla produzione naturale di Rv del nostro cervello (in termini percettivo-emozionali).



Le acquisizioni in neuroscienze e neuroimaging ci mostrano come si sviluppa il cervello-mente dai primi anni di vita, fino all'età adulta. Come conoscenze, credenze, esperienze possano poi influire sul sistema mente-cervello, sulla plasticità neurale. Il cervello, più che una sorta di computer biologico che immagazzina e rilascia dati, è piuttosto una struttura che ingloba-processa-rilascia informazioni, ma soprattutto "traduce" la realtà esterna in una interna, e viceversa. L'Rv è perciò, in un certo senso, "connaturata" con il nostro cervello, nel senso che ognuno di noi produce da sé la propria realtà virtuale interna (fatta di immagini, ricordi, dialoghi interiori). E ciò su base evolutiva.



Il cervello dei nostri progenitori, secondo le ricerche etno-antropologiche, "ragionava" per immagini. Le pitture rupestri del Paleolitico (Altamira, Lescaux e altre) sono state interpretate come "arte", ma cos'erano all'origine, se non la necessità di fissare in linee astratte delle realtà emotivamente cariche per l'uomo delle cavarne (caccia, sopravvivenza, morte, credenze)? Un romanzo del premio Nobel William Golding (The Inheritors) è costruito utilizzando tali conoscenze: i protagonisti, uomini di Neanderthal, intessono tutti i loro dialoghi per immagini.



Il cervello "costruisce" il proprio mondo: ciò è evidente da molteplici punti di vista, compresi quelli esplorati e discussi da questa rivista, a più riprese. Come si diceva all'inizio, ciò non è di per sé negativo o deleterio. Sta sempre all'utilizzo che ne facciamo. La Rv è una ulteriore dimostrazione e applicazione di quanto il nostro cervello e la nostra inventiva, se ben impiegate, possano ampliare le nostre conoscenze ed esperienze.

Nel film Matrix si immagina che tutta la realtà sia un programma di computer creato per dominare gli umani del XXI secolo. Non c'è bisogno di aderire alle mille teorie del complotto, come abbiamo visto, per sostenere che la realtà esterna ha una diversa risonanza nel nostro sistema mente-cervello: ci uniformiamo e alla fine comportiamo in funzione di come tale realtà è strutturata e stratificata dentro ognuno di noi.

Levi Montalcini, possibile il cervello artificiale

Il cervello artificiale "non è fantascienza". Ne è convinta il premio Nobel per la medicina Rita Levi Montalcini che, durante un'intervista rilasciata a Skytg24, e andata in onda ieri sera, commenta l'annuncio di Ibm e di un gruppo di scienziati di Stanford che hanno simulato un cervello attraverso un super computer e assicurano che il 2019 sarà l'anno del cervello artificiale. Montalcini conferma: "E' quanto ci arriva dagli ultimi risultati della System Biology. Non me lo sarei mai aspettato - ha spiegato la scienziata ieri a Milano, in occasione del 'Sysbiohealth symposium 2009' all'università Bicocca - ancora 10 anni fa sembrava assurdo. Invece potrà capitare".

BION, FOULKES, E L'EMPATIA di Malcom Pines

traduzione a cura di Francesca Vasta

TRATTO DA : FUNZIONE GAMMA (http://www.funzionegamma.edu/articolo.asp?id=31&id_numero=5)
                                                                                        


Ecco cosa dice Foulkes nel suo articolo "La mia Filosofia nella Psicoterapia" (1974), scritta non molto tempo prima che morisse nel 1976 (io fui presente alla sua morte che avvenne mentre stava facendo un gruppo durante un'estate caldissima quando evidentemente avrebbe dovuto riposare, morì al servizio della sua arte e scienza)," Indubbiamente abbiamo bisogno di avere la capacità (empatia) d'identificarci con i nostri simili. Veniamo coinvolti molto di più di quanto di solito sappiamo, troppo, forse".
L'idea di quest’empatia proviene da un certo atteggiamento filosofico, dal vedere le cose, in proporzione, come parte del problema umano nel quale tutti siamo continuamente coinvolti.
Con questa capacità e con maturità riusciamo a mantenere un certo necessario distacco, malgrado qualsiasi empatia; distacco ed empatia non hanno bisogno di opporsi fra loro.
Il buon terapeuta dovrebbe allo stesso tempo, essere nella, ed al di sopra della situazione.
Tale atteggiamento renderà più facile vedere sia la tragedia che la commedia, dell'esistenza umana, vedere l'assurdità di certi aspetti.
Esso consente una sensibilità per l’umorismo, se lo abbiamo non stiamo soltanto migliorando noi stessi ma anche la nostra funzione come terapeuti. In questo modo il nostro lavoro diventa più interessante più soddisfacente e più efficace per i nostri pazienti.
In un brano precedente in quello stesso articolo egli scrive "Il vero terapeuta ha, credo una funzione creativa, è sotto un certo aspetto come un'artista, come uno scienziato come un pedagogista.
Qualche volta ho paragonato questa funzione con quella del poeta, soprattutto nel condurre un gruppo.
Con questo voglio indicare la ricettività del terapeuta a vedere un po' meglio, un po' più profondamente, un po' prima degli altri, quello che i suoi pazienti stanno dicendo veramente, o vogliono o temono; per aiutarli ad esprimerlo e qualche volta, anche se raramente, ad esprimerlo per loro."
C'é molto altro nell’articolo in cui riassume i suoi quaranta anni d’esperienza come psicanalista e analista di gruppo.
Secondo me, alcuni altri brani convergono negli aspetti fondamentali con le concezioni di Bion: "penso che la natura vera della mente stia nel bisogno di ciascun individuo di comunicare e di ricevere, in ogni senso", scrive sul linguaggio, che é in ciascun individuo ciò che nella sua "stessa" mente si sviluppa, ma allo stesso tempo é una proprietà condivisa dal gruppo; L' individuo é costretto, sin dall'inizio ad esprimersi dalla cultura circostante.
Ma anche nell'uso del linguaggio, gli individui comunicano senza saperlo, per mezzo di processi incosci che sono interconnessi e che pervadono ciascun individuo, "processi transpersonali".
"Proprio come la mente viene divisa, così viene condiviso ciò che é sociale, non solo esteriormente ma anche interiormente, nella profondità della persona".
Chiaramente abbiamo bisogno di uno studio approfondito dei concetti fondamentali di Foulkes e di Bion.
Se tutto va bene alcuni di questi potranno essere approfonditi nel libro che sto per pubblicare con Robert Lipgar di Chicago, intitolato " Building on Bion (Costruire su Bion)".
Uno dei contributi su Foulkes e Bion sarà del mio amico e collega Dennis Brown, che ha contribuito, con un suo interessante articolo su questo argomento, ad un mio precedente volume.
Per quanto riguarda Bion non ci sono voci nell'indice per l'empatia (identificazione), così ho esteso la mia ricerca, ed ho incluso comprensione e compassione, che sono concetti diversi.
Parlerò di questo argomento in seguito, ora ho trovato due contributi molto interessanti, entrambi inclusi in "Cogitations" (Karnac 1992).
L' 11 Febbraio 1960 scrive sulla Compassione e la Verità.
1. La Compassione e la Verità sono entrambi sentimenti dell'uomo.
2. La Compassione é un sentimento che l'uomo ha bisogno di esprimere. E' un impulso che sperimenterà nei suoi sentimenti per gli altri .
3. La Compassione é similmente qualcosa che ha bisogno di sentire negli atteggiamenti degli altri verso di lui.
4. La Verità é qualcosa che l'uomo ha bisogno di esprimere; é qualcosa che ha bisogno di cercare e di trovare; é essenziale per la realizzazione della sua curiosità.
5. La Verità é qualcosa che ha bisogno di sentire negli atteggiamenti degli altri verso di lui.
6. La verità e la compassione sono anche qualità che appartengono alla relazione che l'uomo stabilisce con le persone e le cose.
7. Un uomo può sentire che gli manca la capacità d’amare.
8. Un uomo può mancare della capacità d'amare.
9. Similmente, può sentire che gli manca la capacità della verità, sia di sentirla, sia di cercarla, sia di trovarla, sia di comunicarla, sia di desiderarla.
10. Infatti gli può mancare tale capacità.
11. La mancanza può essere primaria o secondaria, e può diminuire la verità o l’amore, o entrambi.
12. La mancanza primaria è innata e non si può rimediare, tuttavia alcune delle conseguenze possono essere modificate analiticamente.
13. La mancanza secondaria può essere dovuta alla paura o all’odio o all’invidia o all’amore. Perfino l’amore può inibire l’amore.
14. Applicando la 8 e la 10 al mito di Edipo si può vedere che: la morte della Sfinge, è una conseguenza di tale mancanza, poiché la domanda posta non intendeva cavar fuori la verità e la considerazione per la stessa (auto-empatia) non poteva esistere ed erigere una barriera contro l’autodistruzione. Si può dire che Tiresia mancasse di compassione meno di quanto mancasse di rispetto per la verità. Edipo mancava di compassione per se stesso più di quanto mancasse di rispetto per la verità.
Mi commuovo quando leggo questo brano per la contrapposizione fra verità e compassione. Sebbene sembri che né Foulkes né Bion abbiano letto molto degli scritti di ciascuno, credo che Foulkes non avrebbe avuto alcun problema nell’accettare questa tesi. Tra l'altro
sebbene sappiamo che Foulkes aveva letto "Esperienze nei gruppi ", Sutherland, al quale mi riferirò tra breve, scrive nel capitolo del mio libro precedente, che non sentì mai Bion parlare di Foulkes in sua presenza,
In un altro brano di "Cogitations" vi è un paragrafo intitolato "Interesse per la verità e la vita" (p. 247): "Con interesse intendo qualcuno che ha sentimenti innati di riguardo per l’ oggetto, di comprensione verso di esso, di apprezzamento per esso.
La persona, che ha interesse per la verità, o per la vita è costretta a un rapporto positivo non soltanto passivo con entrambe. L’interesse per la vita non vuol dire soltanto un desiderio di non uccidere, sebbene certo significhi ciò. Significa anche interesse per un oggetto precisamente perché quell’oggetto ha la qualità di essere vivo, significa essere curiosi delle qualità, che costituiscono quello che conosciamo come vita e di avere il desiderio di capirle.
Infine, l’interesse per la vita significa che una persona deve avere rispetto per se stessa, per le sue qualità come oggetto vivo.
Mancanza d’interesse vuol dire mancanza di rispetto per se stesso e, ancora di più per gli altri, che è proporzionalmente di grande importanza per l’analisi".
Questi brani in cui Bion scrive sull’interesse, la compassione, e la comprensione possono essere collegati all’empatia.
Passiamo ora all’empatia.
Il filosofo norvegese Vetlesen (Percezione, Empatia e Giudizio. Università Statale della Pensilvania 1994) scrive: "L’empatia è ancorata ad una facoltà umana collocata nel profondo della sua natura, quella che costringe il soggetto a sviluppare interesse per gli altri (interesse verso gli altri). Per ciò l’empatia è una facoltà limitata concernente gli altri; la dove si riscontra l’autocompassione o l’amore per se stessi, non vi è alcuna autoempatia. (James Grotstein non sarebbe stato d’ accordo con questo, come ha scritto sull’identificazione, e in questo sono d’accordo con lui). Vetlesen continua "nell’ empatia c’è sempre un tu, mai soltanto un me. L’empatia dispone, in verità aiuta a produrre e sostenere una relazione, il fra o "zwischen", che coinvolge soggetti collegati tra loro, il suo locus è l’interpersonale (Il rapporto con gli altri ), distinto dall’intrapersonale (rapporto con se stesso). E' in virtù di questa facoltà che io posso porre me stesso al posto dell’altro, per mezzo di un sentimento di essere di e con lui.
L’empatia non solo fa scattare l’abilità di osservare, richiede anche l’abilità di ascoltare. Sia l'osservare che l’ascoltare significano fare attenzione. Sono caratteristiche di quello che si potrebbe chiamare in genere sollecitudine. La percezione richiede sempre l’attenzione. L’attenzione è resa possibile dalla ricettività, dalla capacità di vedersi indirizzato da qualche avvenimento accaduto.
Nello scrivere sull’interpellare (modo in cui ci si rivolge agli altri) o essere interpellati (modo in cui gli altri si rivolgono a noi), ricordo, l’accento posto dal filosofo russo Bakhtin sulla comunicazione per mezzo del discorso che si rivolge all’altro o attraverso il quale ci si rivolge a noi.
In un certo senso il discorso viene rivestito con l’attenzione, la percezione e le parole dell’altro.
Ho cercato nell’ opera di James Grotstein " Oserò turbare l’universo?" qualche riferimento all’empatia. Finora qualcosa l’ho trovato soltanto nello stesso capitolo di Grotstein e in quello di Frances Tustin "Questo è quello che Grotstein dice". (pag.33):
"Bion sottolineò l’importanza del sé, del bisogno del sé di avere un legame relazionale empatico con sé stesso, e crede che debba esserci anche un oggetto il cui contenimento empatico del sé è di vitale importanza per il benessere del bambino. Bion fu quindi il primo Kleniano a dare uno sdoganamento metapsicologico all’importanza di una realtà esterna indipendente, non empatica che non contiene (non-containing).
Io non dimenticherò mai un’interpretazione, che mi diede una volta nel corso della mia analisi, che iniziava in qualche modo come segue:«Lei è la persona più importante che lei probabilmente incontrerà mai; per questa ragione non è di poca importanza che lei si trovi bene con questa persona importante»". Così qui Grotstein sta equiparando il contenimento e l’empatia, questo è un argomento interessante da esplorare.
A questo riguardo, il contenimento non è passivo, ma attivo, reagisce coi sensi e nel modo più appropriato ai bisogni del neonato: questa è sia empatia che comprensione, l’azione di essere con l’altro.
Torniamo ora a Tustin, che frequentemente usa il termine empatia per descrivere gli stati precoci della mente, gli stati patologici come sono presenti nell’autismo.
Tustin afferma che Bion ha aumentato la sua comprensione della prima infanzia attirando la sua attenzione sulla capacità della madre di una riflessione empatica per la quale usa un termine adeguato: "rêverie". Attraverso la rêverie il bambino appena nato viene protetto entro ciò che potrebbe essere definito "il grembo"della mente della madre, proprio come prima della sua nascita fisica veniva protetto entro il grembo nel suo corpo.
Tustin usa il concetto di "Flowing over", traboccamento, per indicare il processo attraverso il quale l’illusione di "unità primitiva" è mantenuta.
Tustin distingue fra la "softness"(dolcezza) dell’unità primordiale e la "hardness" (durezza) della "twoness" (dualità) se lo stato dell’ unità primordiale è stato sperimentato troppo presto, con asprezza, all’improvviso.
Tustin evoca il processo empatico quando descrive ciò che chiama "ecstasy". L’estasi ha origine da stati di intensa emozione che sono oltre la capacità del bambino di sopportarli e processarli da solo.
"Se la madre non può stare insieme al bambino in questi intensi momenti di emozione e non sembra riuscire a sopportare l’"overflow", il traboccamento ed elaborarlo con l’empatia e la comprensione, il bambino sperimenta un senso precoce di "twoness" che sembra portare al disastro. Allora il bambino si sente fuori posto, è solo e tenta di ristabilire patologicamente il senso di "oneness" (unità).
Questo porta a stati di confusione con l’oggetto materno. Lavorando con i bambini psicotici Tustin cerca di descrivere primordiali profondità e primordiali terrori come parte di tutte le esperienze infantili attraverso le quali nasciamo psicologicamente con l’essere "portati", questo equivale ad essere trasportati dalla rêverie materna e dalla comprensione.
Ho posto la domanda sull’atteggiamento di Bion verso l’empatia al mio co-curatore Robert Lipgar.
La sua opinione era che Bion fosse interessato all’individuazione, adattamento alla realtà (lavorando al suo interno conoscendo e imparando o sapendo cosa poteva avvicinarsi alla verità e alla Realtà) e non era molto attratto dall’empatia. Il suo interesse risiedeva nello studio di come pensiamo e di come apprendiamo, come"conosciamo".
E ora cosa è la comprensione? L'ambito della comprensione può essere più grande di quello dell’ amore per gli altri; si basa sull’empatia che può essere diretta alle persone che non sono uniche per noi, non solo quelle a cui siamo più affezionate, ma anche a quelle a cui non vogliamo bene. La comprensione è facilitata dalla facoltà base di collegarsi agli altri che è l’empatia.
La comprensione si rivolge ad un insieme di persone più ampio del cerchio ristretto della famiglia e degli amici. La principale sfida alla comprensione è l’indifferenza, che è stata descritta come l’opposto dell’affetto.
La comprensione è una caratteristica essenziale degli animali sociali, come il genere umano, e sta ottenendo molta attenzione nella psicologia evolutiva, come viene esemplificato dallo studio di gruppi di scimpanzé di Franz De Waal, uno dei più importanti primatologi del mondo, che scrive: "è difficile immaginare la moralità umana senza le seguenti tendenze e capacità trovate anche in altre specie."
Tratti connessi con la comprensione:
La comprensione si mette in luce quando gli animali si prendono cura o danno sollievo agli individui spossati o in pericolo che non siano i propri figli.
Questa è chiamata "condotta di soccorso". Se noi, o gli animali, siamo influenzati indirettamente dai sentimenti e dalla situazione di qualcun altro, noi siamo comprensivi e questa condotta viene dimostrata nel rapporto individualizzato, nell’affetto e nell’amicizia di molti mammiferi ed uccelli.
Gli animali sono legati da relazioni emotive, mostrano contagio emotivo, sono coinvolti dalle emozioni degli altri e questo porta ad una condotta altruista e responsabile, all’"altruismo cognitivo", condotta nell'interesse degli altri.
Malgrado la sua fragilità e selettività la capacità di prendersi cura degli altri è il principio del nostro sistema morale che funziona per proteggere e alimentare la capacita di dedicarsi a qualcuno.
Gli altri elementi biologici essenziali per la vita sociale dei primati e per noi stessi sono:
-l’interiorizzazione delle regole sociali;
-la reciprocità;
- la capacità di andare d’accordo.
La capacità di preoccuparsi per gli altri si manifesta attraverso la comprensione empatica e le azioni altruistiche.
Sia Bion che Foulkes considerano il processo della psicoterapia come modi per aiutare le persone a scoprire la verità su loro stesse.
Quando prendiamo in considerazione la situazione di gruppo di Bion, la caratteristica principale è che la scoperta delle difese regressive e primitive, gli assunti di base, liberano la capacità dell’individuo di giungere (lavorare) verso altri livelli di comprensione, comprensione nel momento della verità.
Il compito del terapeuta finisce quando quest'ultimo stabilisce questa capacità.
L’amico e collega di Bion per molti anni, J.D. Sutherland, scrisse che Bion era una persona estremamente altruista ma che non era comprensivo o empatico verso lo sforzo della persona che vuole mantenere un senso di sicurezza del sé, messo in pericolo dall’esposizione alla situazione del gruppo. Sutherland non fa paragoni diretti fra gli approcci di Bion e Foulkes ma ciò che scrive è: "Foulkes era convinto che dovevano essere usate nella terapia le interazioni di tutto il gruppo, e credo che Bion, se avesse fatto più lavoro terapeutico di gruppo, avrebbe accettato quella posizione, sebbene avrebbe insistito su ciò che si poteva fare con più rigore e più profondità, più attenzione per le relazioni primitive (pag. 83).
Con l’espressione "interazione di tutto il gruppo" credo che Suthlerland si riferisse al "mirroring" (rispecchiamento), alla risonanza ed agli altri fattori che Foulkes descriveva come specifici del gruppo.
E’ attraverso tali processi che le persone giungono a riconoscere più profondamente la verità su esse stesse, per mezzo del loro lavoro con gli altr, con l’essere visti, e vedendosi negati, scissi in parti non volute dal sé in altri; accettando la visione di altri sugli aspetti semi nascosti del sé che emergono nelle interazioni all’interno della situazione del gruppo.
Il cheating (inganno) viene di solito velocemente scoperto. Vediamo attraverso le difese degli altri in un modo che non riusciamo a vedere entro noi stessi. Questo ha un impatto diretto sul narcisismo difensivo, l’arroganza di cui Bion ha scritto. La terapia di gruppo è in molti modi un’esperienza umiliante, riconoscere di quanta materia comune siamo fatti, che abbiamo in comune con gli altri, materiale terreno essenziale. Bion ha scritto sull’importanza di acquisire "il senso comune" ciò è tutti i sensi che agiscono insieme per creare un senso di unità e d’integrazione dell’Io. La capacità di scoprire l’inganno è un dato biologico. La cooperazione nei gruppi dai primati in su necessita della capacità di scoprire l’inganno altrimenti l’inganno otterrebbe un'ingiusto vantaggio dal lavoro degli altri. Questa forma di rivelazione è più intuitiva che empatica; l’intuizione porta a un’immediata conoscenza della realtà di una situazione, mentre l’empatia è un processo molto meno immediato.
Kohut ha messo in evidenza che l’immersione empatica prolungata nell’esperienza degli altri è il principale strumento della comprensione psicanalitica, ecco perché il processo analitico è così lungo.
Se l’intuizione fosse stata tutto ciò di cui avevamo bisogno per capire l’altra persona e per tradurre la comprensione in azione, la terapia avrebbe potuto essere istantanea.
Appena i membri del gruppo cominciano a riconoscere le similitudini veritiere e le differenze fra se stessi e gli altr, possono cominciare ad apprezzare la complessità della personalità per vedere ciò che è simile e ciò che è diverso nelle altre persone. Questo inevitabilmente si oppone alle difese primitive della scissione e della proiezione che inducono a percepire le altre persone come completamente simili a noi stessi o completamente diverse.
Questo avviene particolarmente nei conflitti inter-gruppali, tra i gruppi, quando questi si riuniscono per creare una comune identità che dia loro un senso di forza e equità che inevitabilmente porta l’altro gruppo ad essere considerato pericolosamente diverso e una minaccia alla sicurezza.
Questa è una potente forza nei conflitti etnici, politici e religiosi, ma quando le persone riescono a riconoscere somiglianze e differenze all’interno dello stesso gruppo e crollano gli stereotipi di quello che vedono in altri gruppi, allora il progresso può essere raggiunto riducendo i conflitti all’interno del gruppo.
Sia Bion che Foulkes avrebbero voluto che la loro opera li portasse in quella direzione.
Nell’ambito delle tensioni internazionali lo psicanalista Vamik Valkan ha fatto un lavoro molto interessante per la riduzione delle tensioni etniche attraverso programmi di gruppo che coinvolgono i disputanti come Greci e Turchi Ciprioti, Israeliani ed Arabi, Russi ed Estoni.
Il mio amico e collega Patrick de Mare ha aperto la via per l’uso di gruppi mediani che permettono alle persone di progredire verso un senso più completo della cittadinanza ed un superamento dei giudizi primitivi.
In conclusione,sto cercando di dimostrare come riuscire a far uso delle concezioni sia di Bion che di Foulkes per creare due vettori, che hanno punti di convergenza e che ci aiutano a scoprire la verità più profonda, che i gruppi così spesso cercano di nascondere a loro stessi. L'empatia, la comprensione, la compassione e la pietà continuano a richiamare la nostra attenzione. Gli esseri umani sono capaci di sperimentare ed agire sulla base di questi sentimenti, siamo anche capaci di annullare questi sentimenti, col risultato di diventare inumani, arroganti, capaci di azioni orribili verso gli altri, che cessiamo di considerare fatti della stessa nostra comune materia.
Le esperienze di Bion nella prima guerra mondiale lo immersero nell’orrore della guerra di trincea e non cessò mai di attingere a quest’esperienza nella sua esplorazione dei primitivi processi psichici. Foulkes non subì tale trauma perché era al suo posto come telefonista, al di qua delle linee del fronte. Penso che le differenze nella loro esperienza di guerra siano significative per le loro contrastanti esperienze sugli individui e sui gruppi.

Bibliografia
Bion,W.R.1992.Cogitations.London,Karnac,pp125/6

Foulkes.S.H. My philosophy in pschotherapy.in Collected Papers.Karnac .London.1990.p280
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Memoria implicita, Neuroscienze e Psicoanalisi di Antonello Correale




Questo gruppo di studio si propone di approfondire le basi neuropsicologiche del concetto di memoria implicita e le sue implicazioni per la psicoanalisi, sia come teoria della mente che come pratica clinica.
Il concetto di memoria implicita è stato formulato da Schacter e concerne l’acquisizione e la messa in opera di comportamenti appresi (andare in bicicletta, giocare a tennis), ma anche l’acquisizione e la ripetizione di abitudini “caratteriali” di tipo emozionale, secondo modalità quasi automatiche, senza un corrispettivo rappresentazionale.
Il concetto di memoria implicita si sovrappone e praticamente coincide con quello di memoria procedurale, formulato da Squire. Nel termine implicita è prevista maggiormente la mancanza di consapevolezza, mentre nel termine procedurale è implicita maggiormente la componente automatica.
Entrambi i concetti concernono, comunque, modalità di reazioni emozionali ripetute e quasi automatiche, che il soggetto mette in atto senza adeguate corrispondenti capacità rappresentative. Questo significa che il soggetto, quando è in preda a tali modalità, non è privo di coscienza di ciò che accade, ma non è in grado di svolgere un’adeguata funzione riflessiva e di autocoscienza su quanto sta avvenendo.
La psicoanalisi ha studiato questo ambito di fenomeni, sotto la cornice concettuale della coazione a ripetere. D’altronde, l’elemento comportamentale-automatico era stato studiato anche da Freud, fin dai primi anni delle sue ricerche.
Il punto importante è che certi comportamenti emotivi, pur essendo parzialmente riconosciuti dal soggetto, non sono mai divenuti del tutto consci, non sono cioè mai stati oggetto di adeguate autoanalisi trasformative. Questo aspetto differenzia questi stati e questi comportamenti dai prodotti della rimozione o di altri meccanismi di difesa (scissione, non integrazione): i meccanismi di difesa e la rimozione, infatti, agiscono su aspetti psichici divenuti consci e poi sottoposti ai meccanismi di difesa stessi, mentre gli aspetti di cui parliamo non sono mai divenuti del tutto consci. Si tratta cioè di memorie fissate nel comportamento emozionale e non conservate nella memoria rappresentativa-dichiarativa, anche perché acquisite in epoche, in cui la funzione della memoria rappresentativa non era ancora sviluppata.
é forse possibile avvicinare questi concetti a quello di rimozione primaria (Emde), col quale Freud intendeva definire vissuti e reazioni emotive, che non sono mai giunte alla coscienza, ma che non per questo fanno meno sentire il loro peso sui comportamenti e i vissuti del soggetto.
Metodo
Il tema che noi studiamo è stato intensivamente affrontato dal cognitivismo. D’altronde, la maggior parte degli studi di neuroscienze (neuroimaging, studi su pazienti amnesici, studi di psicologia sperimentale) hanno in gran parte fatto riferimento agli approcci cognitivisti.
Inoltre, specie negli ultimi tempi, sono state tentate numerose vie per lo studio di concetti psicoanalitici e cognitivisti accostati tra loro.
Ci sentiamo quindi autorizzati ad adottare, come metodo di lavoro, un modo di procedere, che potremmo definire triangolare, comprendente cioè ai suoi tre vertici, cognitivismo, neuroscienze e psicoanalisi.
Le divergenze tra cognitivismo e psicoanalisi sono talvolta risolvibili attraverso un attento lavoro linguistico, ma più spesso implicano dissensi sostanziali. Una conseguenza, speriamo non irrilevante, anche se secondaria, del nostro gruppo di studio, potrebbe essere di fornire ulteriori elementi per un confronto, non ideologico ma costruttivo, tra psicoanalisi e cognitivismo.

Vari tipi di memoria
Esistono numerosissimi modi di classificare i vari tipi di memoria. Possiamo dire che una delle conseguenze più importanti degli studi di neuropsicologia della memoria è costituita dal fatto, che certamente non esiste un solo tipo di memoria, ma molti tipi di memoria, divisi per ambiti e specializzazioni, anche se naturalmente intrecciati tra loro.
I più significativi sono.
1) Memoria procedurale o implicita. é la memoria contenuta nei comportamenti, senza un corrispettivo rappresentazionale, e che riguarda sia i comportamenti appresi (guidare l’automobile, sciare, andare in bicicletta) sia gli schemi emozionali relazionali, legati alla struttura del carattere e tendenti a ripetersi nel tempo.
2) Memoria semantica. é la memoria fondata sugli elementi appresi una volta per tutte e quindi entrati in categorizzazioni fisse (la capitale della Francia, il significato di una parola, un giudizio fisso su qualcosa).
La memoria semantica non è priva di connotazioni emotive, ma la sua caratteristica è di essere fondata su prototipi, come in un dizionario, cioè su elementi invarianti, disposti in una collocazione stabile.
é frutto della tendenza umana alla generalizzazione ed esprime quindi l’aspirazione a tentare di cogliere il mondo, come un luogo ordinato e riconoscibile. Coglie dell’esperienza gli elementi fissi e non quelli mutevoli volta per volta.
3) Memoria episodica e autobiografica. é la memoria rivolta alla conservazione di elementi specifici, unici, irripetibili, che sono successi solo quella certa volta e in quel certo posto. é la memoria che coglie la specificità di un vissuto, il suo essere proprio così e non in alcun altro modo (la casa dei nonni, l’odore del profumo della madre, il colore dei capelli della ragazza amata e così via) e che viene ricordata per la sua specificità e il valore che acquista per chi la prova.
Alla luce di questo concetto, possiamo dire che molti eventi vissuti dal soggetto possono non essere mai divenuti autobiografici, cioè venire conservati nella memoria soltanto come fatti accaduti, ma senza che di essi venga colto l’elemento affettivo personalizzante, quello cioè che li rende specifici e irripetibili per la persona che li ha vissuti. La memoria di questi eventi è in qualche modo anche emotiva - è associata per esempio a rabbia, o vergogna - ma tali emozioni non sono sentite come appartenenti specificamente al soggetto, non in grado cioè di caratterizzarlo in quanto persona unica.
In altri casi, la conservazione dell’evento non si verifica neppure nella memoria semantica, ma soltanto in quella procedurale o implicita: assistiamo cioè a comportamenti, che testimoniano in modo rigido, che qualcosa di profondamente importante è avvenuto, ma di questo qualcosa non si ha un ricordo comunicabile.
La psicoanalisi classica ha molto indagato il primo passaggio (memoria implicita * memoria semantica), mentre la Psicologia del Sé ha particolarmente studiato il secondo (memoria semantica * memoria autobiografica).

Dati anatomici e neuropsicologici
I dati concernenti il substrato anatomico e neuropsicologico del funzionamento della memoria sono in numero sterminato e, per di più, continuamente in cambiamento. Per orientarsi, è quindi necessario affidarsi a rassegne sintetiche che, oltre tutto, cambiano anno per anno.
é possibile comunque aggregare alcuni punti, su cui comincia a raccogliersi un consenso abbastanza ampio.

L’ippocampo
é ormai opinione diffusa e condivisa, che l’ippocampo sia la sede ove si sviluppa la memoria episodica. é dimostrato che lo stress e in genere gli eventi traumatici - tramite la liberazione di ormoni glucocorticoidi e mineralcorticoidi da parte della corteccia surrenale - esercitano una funzione inibitrice sull’attività dell’ippocampo, che è un’area cerebrale molto ricca di recettori per gli ormoni surrenalici. Il trauma, quindi, acuto o ripetuto, tende a inibire il funzionamento dell’ippocampo e quindi a mettere fuori gioco la memoria episodica. Gli eventi quindi o non verranno registrati o verranno registrati solo nella memoria semantica, cioè senza il loro connotato personalizzante.
Se il trauma è ancora più intenso, verranno registrati solo nella memoria implicita o procedurale.

L’amigdala
L’amigdala è l’area cerebrale connessa colle reazioni emotive più primitive, in particolare la paura.
In certi casi, gli stimoli sensoriali avviati al talamo giungono da lì alla corteccia e poi all’amigdala (via alta). In altri casi, quando gli stimoli sono troppo intensi e il tempo di reazione deve essere particolarmente rapido, gli stimoli vanno dal talamo all’amigdala e solo dopo alla corteccia (via bassa) (Le Doux).
Quando predomina la via bassa, la reazione sarà automatica e non mediato dalla corteccia prefrontale, che svolge la funzione cognitiva e discriminatoria.
In entrambi i casi descritti (cortocircuitazione dell’ippocampo, cortocircuitazione della corteccia prefrontale), non si tratta di rimozione o di difesa, ma di non registrazione cognitiva simbolizzata dell’evento.

Il circuito meso-limbico
Si tratta di un circuito a partenza mesencefalica (area tegmentale-ventrale del mesencefalo o A10), che esercita funzioni di controllo sulla vita mentale emotiva. Tale area si irradia al nucleo striato ventrale (nucleo accumbens) e in parte al neo striato e da lì giunge al giro cingolato anteriore (area limbica). Si ha motivo di ritenere che ogni dato sensoriale, oltre ad arrivare alla corteccia prefrontale per la sua discriminazione cognitiva, entri anche nel circuito mesolimbico per la sua elaborazione emotiva.
La presenza nel circuito dello striato ventrale (nucleo accumbens) e del neostriato, implicherebbe l’idea che, oltre ad un’elaborazione, il circuito mesolimbico presieda anche a certe risposte attive, in gran parte automatiche e non sempre sotto il controllo della coscienza.
Tali circuiti emotivi automatici sarebbero in gran parte svincolabili dal controllo della corteccia frontale.
Tutti i dati disponibili inducono a fare l’ipotesi, che certe aree emotive del cervello possono funzionare in condizioni di parziale disconnessione dalle aree cognitive. Tali aree, più che inconsce, sarebbero parzialmente automatiche o vissute dal soggetto come qualcosa di più forte di se stesso, non sottoponibili a riflessività e controllo.

Gli schemi emozionali della memoria implicita
Il cognitivismo ha elaborato l’importante concetto di schemi emozionali (Fonagy), per descrivere modalità emozionali di risposta, di tipo costante e prevedibile, che appartengono al carattere del soggetto e che sarebbero acquisiti nei primi anni di vita seguendo le vicissitudini delle modalità dell’attaccamento. Poiché l’ippocampo matura neurologicamente in periodo successivo a questi primi eventi fondativi, di questi eventi non può esservi ricordo se non nella memoria implicita.
La psicoanalisi ha, rispetto a questo punto, una visione in qualche modo più complessa. Secondo la psicoanalisi, lo schema emozionale non è caratterizzato soltanto da una modalità rigida di risposta, ma può implicare un intreccio di varie modalità, alcune più automatiche e dirette, altre più difensive e adattative.
Ad esempio, un soggetto può rispondere all’incontro con una figura sentita come più potente: 1) con una parziale disgregazione del sé, percepita, eventualmente, come un collasso psicofisico, 2) con una identificazione coll’aggressore - e acquistare un precario senso di controllo sulla situazione -3) con una erotizzazione - e sviluppare modalità di tipo perverso - 4) con un ritiro spaventato, 5) con una modalità grandiosa e onnipotente. Tali modalità possono convivere insieme in un intreccio complesso o alternarsi rapidamente l’una all’altra, anche in un stretto lasso di tempo.
L’area traumatica rimane una soltanto - l’incontro con una figura sentita come più potente - ma l’intreccio delle risposte può essere assai complesso. In particolare, alcune risposte dell’intreccio appartengono alla sfera automatica - potremmo dire sottocorticale - altre sono più consapevoli - potremmo dire corticalizzate. In altri termini, alcune risposte sono consce, altre rimosse, altre scisse, cioè consapevoli, ma vissute in un’area separata della coscienza, altre inconsapevoli, ma non inconsce, cioè parzialmente coscienti e ad alto tasso di automatismo.

Conseguenze per la tecnica
Una prima possibile conseguenza riguarda il concetto di inconscio, nel senso che potrebbe acquistare maggiore importanza l’aspetto automatico dell’inconscio e un po’ meno quello rimosso. Potremmo dire, in altri termini, che diventa importante studiare quali ostacoli si frappongono al processo per cui la memoria diviene, da semantica, episodica o autobiografica.
é opportuno, perciò, che si studino sempre meglio dei metodi, perché la tecnica si concentri maggiormente sulla interruzione degli automatismi e rivolga un’attenzione minore all’esclusiva valorizzazione dell’insight.
Inoltre la tecnica dovrà indirizzarsi verso modalità di rapporto più attive - potremmo definirle di testimonianza - piuttosto che verso una pura e semplice condivisione.
Inoltre, acquista una importanza sempre crescente il piano del cosiddetto vissuto non conosciuto. In altri termini, la costruzione di senso diventa prevalente rispetto alla pura e semplice ricostruzione di un evento, purché però la costruzione stia strettamente fedele al livello emotivo prevalente e quindi mai arbitraria.
Anche la distinzioni fra senso e significato acquista maggior valore: il senso indica una apertura, una direzione, uno sviluppo ancora insaturo, ma legato comunque ad un orientamento, mentre il significato ha un carattere più verbale, in qualche modo più definitorio e tende ad una simbolizzazione più stabile e radicale.
Infine, se certi vissuti, in particolari quelli traumatici, ma anche altri purché intensi, lasciano come traccia uno stato emotivo, piuttosto che una vera e propria scena simbolicamente rappresentabile, diventa necessario attivare un linguaggio, che sia, al tempo stesso, altamente pragmatico e intenzionale, ma che contenga anche significative valenze poetiche, un linguaggio cioè capace di affondare le sue radici nel livello pre-rappresentazionale, associato all’inconscio inconsapevole e non solo in quello dell’inconscio dinamico o rimosso, modellato dai meccanismi di difesa.

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La "gioia eccessiva" di Elvio Fachinelli di Sergio Benvenuto

                                                         





In una delle prime pubblicazioni di Fachinelli, "Il magistrato e la tarantola"(2) del 1967, appaiono in nuce già quasi tutti i temi che egli svilupperà più tardi. Un suo paziente, magistrato quarantenne, per due volte è deciso a tradire sua moglie andando a letto con un'amica - ma tutte e due le volte è vittima di crisi di vertigine, che gli mandano a monte la scappatella. La seconda volta la crisi avviene a seguito di un sogno, fatto il giorno prima di recarsi all'appuntamento colpevole: "...[il sognatore] gira per le scale e i corridoi del palazzo di Giustizia, un vero labirinto... nel suo girare vede scritto per terra: Di Pietro, il nome di un ministro della Giustizia....", e a questo punto si sveglia in preda a vertigini. (E' un sogno degli anni 60, anche se c'è Di Pietro.) Al sogno il magistrato associa gli epilettici, e le donne morse dalla tarantola che vedeva da bambino al suo paese, il giorno di San Pietro, agitarsi per giorni sul sagrato di pietra, cercando di stabilire un bizzarro contatto con la folla, e sorvegliate severamente dai carabinieri.
Nota Fachinelli: attraverso le vertigini il magistrato non solo sfugge alla tentazione sessuale, ma si identifica alle tarantolate, dato che "il morso della tarantola è la raffigurazione mitica di una crisi profonda dell'individualità"(3), ma anche un modo di perseguire un nuovo equilibrio psichico attraverso la ricerca di un modo "altro" di comunicare con gli altri. E come le tarantolate venivano contenute dai carabinieri, così il magistrato è contenuto da "Di Pietro", da un mausoleo giudiziario. Resta la vertigine - mimesi isterica di una cura mistica - come messa in scena di un tentativo, che egli però non accetta, di un contatto diverso con gli altri.
Già qui per Fachinelli il sintomo, oltre a essere in relazione con una forma di socialità "mistica", mette in atto l'inconscio, come in un teatro sconsacrato. L'inconscio per lui è ad un tempo un'esperienza erotica esorbitante, un modo cenestetico di essere, e un tentativo di modalità di essere-con-gli-altri. Sin dall'inizio Fachinelli si interessa a dare spazio all'inconscio - o meglio, a "dargli tempo" - come istanza temuta perché in sostanza troppo piacevole. Già allora l'inconscio è per lui fonte della Lebenswelt, della vita che ci spinge verso gli altri, nella temporalità storica. Fachinelli non prescrive wo Es was, soll Ich werden(4), non intende prosciugare l'inconscio come gli olandesi prosciugarono lo Zuidersee (secondo la metafora di Freud), ma anzi vuol far affluire il mare sulla terra, animare la pietra dura del palazzo di Giustizia con le forme femminili e fluide del movimento. Fachinelli tende ad indebolire le difese, ma non - come nella classica analisi dei meccanismi di difesa - per stabilire nuove difese più efficienti e meno costose, bensì proprio per lasciar esprimere qualcosa che in un primo tempo egli chiama desiderio.
Negli anni 70 analisti e psichiatri si erano divisi sulla terminologia. Alcuni - influenzati soprattutto da Basaglia e Psichiatria Democratica - parlavano sempre di bisogni; altri, ammaliati soprattutto dai pensatori francesi, parlavano a tutto spiano di desiderio. Fachinelli adotta questa seconda dizione, anche se non per le identiche ragioni dei "parigini"(5). Fachinelli vede che i famosi bisogni da soddisfare, magari attraverso mobilitazioni sindacali (nello stile basagliano più servizievole), sono i desideri giudicati ragionevoli dai "saggi", insomma le voglie che l'Autorità ci ha dato il permesso di cercare di soddisfare attraverso risposte adatte e politicamente corrette. Fachinelli invece riprende da Lacan il progetto di far emergere il désir, domanda per natura inammissibile e inopportuna per ogni autorità (anche di sinistra), e mai soddisfatto da alcuna "risposta", governativa, sanitaria e persino affettiva(6).
In una riunione degli anni 70 a cui partecipai, una ragazza, infatuata di Agnès Heller, si mise a blaterare di "bisogni radicali" - quell'anno era la parola-chiave. Ed Elvio sbottò ridendo: "quando sento parlare di bisogni, penso sempre che si voglia andare al WC." Un esempio della leggerezza di Fachinelli - critico sardonico, anche caustico, ma mai oracolare o prolisso.
Anche lo stile del migliore Fachinelli scrittore è di solito ironico. Senza mai livore polemico, oscilla tra l'argomentare dotto e l'impennata letteraria; con un respiro arioso e fluttuante come le onde del mare. Non indulgeva molto al gergo d'epoca, anche se lui - articolista de L'Espresso - seppe parlare in modo persuasivo alla propria epoca; ma non amava i paroloni trendy. Avrebbe apprezzato quella scena del film Palombella rossa di Nanni Moretti, quando questi schiaffeggia una giornalista che parla a suon di anglicismi tipici dell'imbecillità conformista, esclamando "quando si parla male, si pensa male!" Si staccò da Quaderni piacentini, presumo, soprattutto per ragioni di stile: come poteva digerire quella accigliata prosodia di teologi del marxismo?


2.
Il suo pensiero presto ruota attorno ad una dicotomia, che assumerà varie figure: da una parte appunto la vita come movimento eracliteo, temporalizzazione cinetica; dall'altra l'angustia della spazializzazione e pietrificazione. Al primo tema appartengono l'agitazione politica e motoria, la gioia creativa, i movimenti conviviali in statu nascendi, le "bocche che si aprono" in una ritrovata agorà - da qui il suo interesse per i nuovi media incontrollabili, le radio libere (lo avrebbe affascinato Internet). Al secondo tema appartiene la gestione igienica e tecnocratica dei bisogni, il controllo burocratico, le istituzioni ingessate per proteggersi dalla dinamica della vita, "le bocche chiuse", anche nei consessi della Società Psicoanalitica Italiana ("..è notevole che i due livelli estremi della società [SPI] - candidati e didatti - siano in maggioranza e stabilmente a bocca chiusa: i primi anche se presenti; i secondi proprio perché perlopiù assenti."(7)).
Qui parla dei bambini dell'asilo autogestito di Porta Ticinese, basato su princìpi anti-autoritari, del quale era stato consulente:

Rispetto ai bambini delle borghesi milanesi (infagottati, appena muovono qualche passo, subito sono richiamati[...]) quelli dell'asilo sembrano una specie diversa. Nel modo di muoversi, di correre, di avere contatto con la terra, di toccarsi, fanno apparire gli altri immobili, quasi catatonici(8).

Da una parte l'immobilità catatonica, l'infagottamento; dall'altra il movimento, la corsa. La vita è cinesi nello spazio, freccia.
Nel caso del magistrato, il primo corno della dicotomia ruota attorno al significante pietra: ministro Di Pietro, giorno di San Pietro, pavimento di pietra dove le tarantolate si contorcono, marmi gelidi del palazzo di Giustizia di Milano. Il secondo corno qui è l'erotismo centrifugo, la vertigine, lo scuotersi, l'aprirsi "femmineo" agli altri; più tardi assumerà, nella sua scrittura, forme acquatiche. Ma questa dicotomia innesterà una dialettica essa stessa vertiginosa: questo desiderio o morso come arché (origine, comando) del movimento e della temporalizzazione della vita solo in apparenza è esso stesso movimento e temporalità. Poco a poco, finirà col pensare che l'arché consista paradossalmente in una chiusura radicale e originaria - sacra. L'accettazione del tempo storico apparirà allora il prodotto di una recettività a qualcosa di atemporale e pre-storico. Trascinata da una dialettica spericolata, la vita si chiude nell'angustia immobile delle istituzioni perché rimuove o aliena la propria fonte, che è, in ultima istanza - questa è la più tarda "illuminazione" fachinelliana - un'esperienza difficile da tollerare, un eccesso di gioia. La vita nega se stessa col tempo, pietrificandosi nel mondo delle "bocche chiuse", perché non può sostenere a lungo l'eccesso che la genera e la rilancia. Si estenua nella ripetizione triste perché non vuole ritornare a ciò che veramente la comanda: il dono della gioia.
Ma il dubbio che si fa strada nel militante anti-autoritario è: la freccia temporale si muove davvero? La freccia può anche essere immobile, come nella segnaletica: rappresenta meramente il movimento. Il fiume della vita minaccia continuamente con un'ansa circolare di ritornare indietro, riducendo la vita a mera rappresentazione di sé stessa, come quella offerta dalle tarantolate nella chiesa circondata dai carabinieri.


3.

Gli analisti italiani dovrebbero essere grati a Fachinelli, se non altro per aver messo in contatto la psicoanalisi con i due grandi temi che hanno dominato - od ossessionato? - il pensiero e l'arte contemporanei: la temporalità e la Lebenswelt, il mondo-della-vita. Ha sprovincializzato la psicoanalisi, troppo spesso autoseclusa nel buon senso terapeutico terra terra e nelle noiose diatribe tra scuole. Ben pochi analisti - tranne Lacan quando ha parlato di tempo logico - si sono occupati del tempo, dentro e fuori l'analisi.
Da Bergson e Heidegger in poi, il tempo è risultato la sola verità dell'essere ancora sostenibile, la non-presenza al fondo di ogni cosa che è presente. D'altro canto, con accenti diversi - da Nietzsche fino al secondo Wittgenstein - si è affermata l'idea che a fondamento del sapere e delle forme sociali non c'è la ragione, la materia, Dio, o gli atomi: c'è solo la vita, la cui emergenza produce le forme in cui prende senso e, col tempo, si dimentica di sé. Il mutare temporale come verità ultima delle cose, e l'urgenza della vita come fonte irriducibile e fondamento delle forme rappresentative, sono l'orizzonte entro cui l'uomo moderno pensa la propria verità e il proprio compito. Fachinelli ha recepito la centralità di questi temi nel nostro Zeitgeist.
Invece si ricorda ancora Fachinelli, per lo più, solo per aver cavalcato da psicanalista-giornalista i movimenti di contestazione degli anni 60 e 70, e poi per aver proposto la famosa distinzione tra una "psicoanalisi delle domande" (quella buona) e una "psicoanalisi delle risposte" (da superare)(9). Ma se l'opera di Fachinelli si fosse ridotta ad un'ennesima variante di freudo-marxismo - e Dio sa se in quegli anni non ce ne furono di varianti! - non sarei certo diventato suo allievo. Si dà il caso che quando lo conobbi, nel 1974, fossi già prematuramente scomparso dall'orizzonte marxista, e mi orientavo, allora, verso un riformismo liberal. Lui credeva nella Rivoluzione (in un senso che cercherò di precisare), io La vedevo come un'ennesima Illusion(10). Infondo, a parte una comune simpatia per Lacan, avevamo origini culturali del tutto diverse: Fachinelli si era formato all'hegelismo francofortese (soprattutto Adorno e Marcuse), io avevo passato i miei anni migliori nella Parigi tarantolata dal post-strutturalismo. Fu molto bello: tutte queste differenze non ci impedirono di volerci bene. Credo che ci attraesse l'uno verso l'altro l'impulso ad occuparci di tante cose insieme, a disperderci nei tanti rivoli delle "cose interessanti", nel perdere tanto tempo con le donne, piuttosto che a fare carriera. Fachinelli difatti non fu mai solo psicoanalista: fu giornalista, editore, direttore di riviste, leader politico-esistenziale, scrittore... Come avrebbe mai potuto prendersi sul serio senza il rigore di quel suo febbrile dilettantismo?
Comunque, sin dagli inizi degli anni '80 Fachinelli, con le sue sensibilissime antenne storiche, realizzò che la Speranza comunista non aveva futuro(11). Ma infondo Fachinelli non fu mai veramente marxista - anarchico, vitalista libertario, piuttosto. Del resto, per tanti intellettuali del nostro secolo - da Benjamin a Sartre a Brecht - che cosa è stato il marxismo se non una giacca e cravatta, alquanto strette, indossate per rendere presentabile in società il proprio anarchismo nudo, selvaggio? Peggio, Fachinelli è stato sempre un anarchico individualista, non ha mai creduto nella mistica del Popolo: "Ogni gruppo rivela, presto o tardi - scrisse - problemi difficili e soprattutto invischianti. In fondo credo soltanto a ciò che si può ottenere, alla lunga, con l'intelligenza personale, con il proprio minimo personale [corsivi di Fachinelli]"(12) Per lui la Rivoluzione era la possibilità di generare individualità nuove e sorprendenti, non il liquefarsi degli individui nella gelatina collettivista. Voleva farsi penetrare dai suoni della vita, che non fanno concerto ma si stagliano nella loro solitaria e dissonante individualità. Perché i suoni diversi

diventano voci singole, con timbro e grana diversa. Di fronte a ciascuna, non attesa né timore. Soltanto meraviglia.(13)


4.
La freccia ferma si apre con un paziente ossessivo. Per un piccolo industriale quarantenne "dal momento di alzarsi dal letto, la mattina, fino a quello di addormentarsi, la sera, tutto deve essere compiuto secondo un 'sistema' di regole minuziose e complicate [...] Il più semplice movimento da parte sua (...) implica l'obbligo di osservare tanti e così precisi procedimenti che egli preferisce rimanere seduto"(14). Queste regole e procedimenti discendono dai Dieci Comandamenti mosaici, ma gli atti impuri, che ne derivano grazie ad una catena associativa che ci appare sfrenata, invadono gran parte della sua vita quotidiana. Ad esempio, "atto impuro è allora dire la parola giallo, perché giallo rimanda a limone, e limone a limonare"(15). In questo sistema paralizzante di divieti, può accadere che è impuro qualche atto urgentissimo. Costretto a compiere comunque l'atto indispensabile, il Nostro opererà allora "l'annullamento": farà in senso inverso tutte le azioni che ha compiuto fin dal momento in cui ha commesso l'atto impuro, come quando si gira all'indietro una video-cassetta per tornare al punto di partenza. Fachinelli vede in questi annullamenti ossessivi una tecnica per annullare il tempo. Ovvero, il tempo perde la sua continuità e irreversibilità, risulta spezzettato in una serie di "ora" che si succedono, e che tornano indietro. Come nei paradossi di Zenone, la freccia non potrà mai veramente muoversi: impastoiata negli infiniti "qui" ed "ora" che deve attraversare, si gelerà nell'icona del movimento.
L'ossessivo, irretito in concatenazioni a loro modo fin troppo logiche, pare proteggersi dal dinamismo della vita e della storia tornando sempre al punto di partenza. Come certe culture primitive, o fasciste, anche l'ossessivo mira all'Eterno Ritorno dell'Eguale. E questo immobilismo è l'epitome di tutte le forme sociali e istituzionali che congelano la vita desiderante. Anche dell'istituzione psicoanalitica: "Alcuni analisti hanno l'impressione netta che prima di intraprendere questo mestiere impossibile erano più vivi - soprattutto più mobili [corsivo mio], in ogni senso."(16)
Da una parte, quindi, la freccia del tempo, in cui mai nulla si ripete; dall'altra il tempo circolare delle società primitive e delle istituzioni "ossessive" dove la fonte vitale si ritorce circolarmente nell'auto-rappresentazione. Fachinelli, che pur aveva una configurazione fisica rotondetta, detestava le forme circolari: in tanti suoi colleghi SPI vedeva "personalità smussate, arrotondate, senza spigoli"(17). Il serpente che si morde la coda, la rotonda bocca chiusa degli analisti didatti: difese contro lo slancio appuntito del tempo storico. Amava lo spigolo, la freccia - il suo stesso stile era pungente, inconcluso, spesso si interrompeva nella punta di un "prossimamente"(18).


5.

Diciotto anni dopo "Il magistrato e la tarantola", Fachinelli pubblica un altro breve scritto, "Sulla spiaggia"(19). Qui il protagonista non è più un paziente ma se stesso, mentre se ne sta su una spiaggia. In uno stato di dolce passività, un'illuminazione, ad un tempo fisica e intellettuale, irrompe dal mare come Ulisse emerse dalle onde incontro a Nausicaa: "un'accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall'esterno, dopo un estenuante brancolare... Non meditazione né raccoglimento. Accoglimento."(20). In un darsi squisitamente femminile, Fachinelli, come Nausicaa, accoglie. Mentre il magistrato contenuto da Di Pietro rifiutò la modalità femminile (non fece l'amore con l'altra, non accettò di scuotersi nel piacere come le tarantolate), Fachinelli invece finalmente l'accetta, da qui "gioia con senso di gratitudine"(21). Mentre Freud e la psicoanalisi "spazializzata" - topica e topologica - demoliscono e ricostruiscono continuamente dighe e barriere come difese, occorre piuttosto "lasciar affluire, lasciar defluire, immergersi, nuotare nella corrente."
Nel frattempo, era diventato evidente per Fachinelli il fatto che la difesa ossessiva e istituzionale contro il tempo e la storia fosse connessa ad una perdita della dimensione del dono e dell'accettazione (Melanie Klein diceva della gratitude). Perché la freccia non ritorni come un boomerang, occorre che essa sia lanciata da un atto inaugurale di dono gratuito, e solo l'accettazione di esso ci permette allora di "nuotare nella corrente".
Negli anni 60 e 70 in effetti Fachinelli nuotò tra i movimenti spontanei, chiamato da una spiaggia a lui stesso ignota. Eppure, oggetto elettivo dell'ironia satirica dei suoi scritti negli anni 60 e 70 non sono i reazionari, i burocrati del Partito, gli psichiatri asilari, ma al contrario proprio i suoi colleghi psicoanalisti e tanti "gruppettari" dell'epoca. Insomma Fachinelli fu un critico dall'interno sia della sinistra extra-parlamentare (come allora si chiamava) che del movimento psicoanalitico. Adorava Karl Kraus, uno dei più caustici critici della psicoanalisi al suo sorgere viennese. Ilare guastafeste, come un fool shakespeariano dell'Italia catto-comunista agitata dal radicalismo, segnalò con (in)tempestiva precocità la deriva settaria del movimento gauchiste che pur lo affascinava finché restava appunto mobile; e denunciò la sclerosi della società psicoanalitica, inamidatasi nella difesa della propria rispettabilità. Eppure vibrava sempre una nota di pessimismo nella sua rivendicazione della liberazione della vita.
Pessimista è il suo tirare le somme della sua esperienza, nel 1968, con un gruppo di studenti trentini(22): accettò di partecipare come analista a un loro controcorso centrato su psicoanalisi e società. Fu colpito soprattutto dal modo in cui quel gruppo sessantottesco decise di chiudere le porte a nuovi eventuali partecipanti. E difatti,

creato il gruppo chiuso, il processo di differenziazione (...) dagli elementi di estraneità presenti nel gruppo, continuò con quasi intatta violenza; e parallelo ad esso, [...], il processo di progressiva adeguazione a un'immagine di gruppo omogeneo, perfettamente fuso nella unità dei suoi membri. L'estraneo, il diverso, concreto, tangibile (...), doveva essere eliminato, ..., per far posto a un uguale sempre più perfetto, e dunque sempre più intangibile...(23)

Da qui l'inclinazione persecutoria nei confronti di individui e sotto-gruppi che apparivano come un diversivo dell'unità ideale del gruppo: "le inevitabili espulsioni e frammentazioni interne, (...) frutto di una continua difesa dell'ideale di gruppo continuamente minacciato, segnano il percorso di un processo di settarizzazione."(24) Insomma, ci sarà sempre uno più puro di me che mi epura. Fachinelli, nel suo fondo libertario individualista, percepiva, già nel 1968, quel clinamen che avrebbe portato alla diaspora delle parrocchie marxiste, e quindi agli anni di piombo. (Un'analisi simile avrebbe potuto esser fatta anche delle frammentazioni che ancor oggi caratterizzano molti gruppi lacaniani dopo la morte di Lacan: anche costoro, idealizzando la propria Missione, hanno messo in moto la macchina settaria delle reciproche esclusioni.)
Avvertito dalla sua esperienza trentina, Fachinelli tra il 1974 e il 1976 organizzò un gruppo di auto-formazione a Milano - al quale io stesso partecipai per quasi tutto il corso della sua esistenza. Soprattutto era un gruppo aperto: ad ogni seduta, settimanale(25), potevano fare il loro ingresso membri nuovi. Il solo impegno che si richiedeva ai "nuovi" era di portare nel gruppo, prima o poi, un trauma che avevano vissuto. Al suo interno Fachinelli si comportava da analista, ma negava di essere "l'analista" o "il formatore" del gruppo - ambiguità che non mancò di innescare la contestazione da parte di alcuni dei partecipanti (i caporioni erano l'economista Nanni Arrighi e il cantante Giorgio Gaber), che presero a ritorcere contro di lui l'attacco ai "ruoli rigidi" e alla "leadership autoritaria".
In quel caleidoscopio fluido mi divertii, anche perché era un ring dove si pestavano promiscuamente i piedi gran parte dei movimenti, dubbi, cotte e deliri che fluttuavano nella swinging Milano di quegli anni ruggenti: gli astri nascenti del femminismo e dell'Autonomia, ma anche il rifluire dall'impegno politico verso preoccupazioni più intimiste e verso la stella polare psicoanalitica, nuova via di Salvezza dopo le delusioni della Rivoluzione. Poi Fachinelli sciolse quel gruppo. Quando, in privato, gli chiesi perché, mi rispose candidamente "non mi divertiva più!" Egli era sostanzialmente infedele alle sue passioni e creature, come anche alle sue donne, quando il rapporto con esse entrava nella bonaccia della routine, nel mero bisogno di perpetuarsi.
L'aver "ucciso" il suo gruppo proprio quando aveva preso a marciare non deve sorprendere: analogamente Fachinelli detestava le analisi lunghe. Lo vidi irridere amabilmente, intonando canzoni napoletane invocanti eterno amore, alcuni amici che confidavano di essere in analisi già da quattro o cinque anni - una durata oggi considerata minimale. Grillo parlante del Pinocchio-analizzante, Fachinelli coglieva la doppiezza del grande clamore culturale della psicoanalisi all'epoca. Da una parte l'analisi, cessando di essere una pratica puntuale, allungandosi a dismisura nel tempo, si proponeva sempre più come una sorta di milizia che esigeva una conversione spirituale. Dall'altra l'analisi, proprio isolando analista e analizzante nel recinto protetto di una "cultura a due", mancava la ricaduta terapeutica e anche quell'apertura ai tempi vitali e a quel risveglio che può rendere la vita creativa(26). Dietro il culto di massa di Freud, Fachinelli percepiva una freudolenza, per così dire (includeva ciò una parziale presa di distanza dalla propria vocazione?). Vedeva anche la psicoanalisi afflitta da una sindrome settaria, come gli studenti trentini da lui monitorati, la vedeva cioè ripiegarsi in un idillio blindato con la propria immagine ideale per tener lontane le diversità - ad esempio, escludendo che un omosessuale potesse essere un buon analista. Intuiva che quel dilagare di psicanalese si basava su illusioni che, prima o poi, sarebbero state smascherate.
Lo psicoanalista fanatico, paladino di Freud, che come i carabinieri all'Arma resta nei secoli fedele, è vittima di un tipico errore di percezione. E' cieco - a cominciare da Freud - alla forza seduttiva della psicoanalisi, per cui nelle passioni che essa suscita vede solo resistenze e misconoscimenti (solo quando la psicoanalisi finalmente cessa di essere alla moda, egli può rendersi conto di quanto i tempi bui fossero stati, in fondo, i tempi d'oro). Intruppato nel patriottismo analitico, si scaglia come un mastino contro tutti i movimenti e i programmi di ricerca che potrebbero entrare (o sono già) in competizione con la psicoanalisi. Diversamente da questo bisbetico crociato della psicoanalisi, Fachinelli invece seguiva con favore molti sviluppi extra-analitici - ad esempio, le terapie ispirate alle idee di Bateson, certa anti-psichiatria. Sono convinto che oggi avrebbe guardato con favore anche a certi exploits affascinanti della ricerca neurologica, da Varela a Rizzolatti e Gallese.
In quegli anni il culto di Marx e di Freud aveva ormai costruito istituzioni disciplinate, legioni spocchiose di professionisti osannati, partiti corazzati, macchine gigantesche, le cui ruote però giravano nel vuoto.

Chi guarda [la psicoanalisi] da fuori, da lontano, come uno straniero e come un postero, vede un gigantesco dispositivo, [...] di cui ogni movimento è stato predisposto con cura e precisione, ogni meccanismo registrato e controllato. Ma questo dispositivo è fermo.(27)

Fachinelli, "straniero e postero" (nei confronti soprattutto di ciò di cui faceva parte), nella febbrile mobilitazione psicoanalitica di quegli anni - di cui l'effimero impero di Verdiglione fu la meteora più eloquente - vedeva una macchina segretamente immobile.


6.
In un convegno milanese del 1975, Fachinelli lesse un testo sul denaro in analisi(28). Fece notare con impertinenza che, prima o poi, emerge in tanti analizzanti l'identificazione dell'analista con una prostituta. Questo non solo perché l'analista viene pagato a ore, per una prestazione in fondo fugace; ma anche perché, come con una puttana, con l'analista si dà sfogo a qualcosa dell'ordine dell'Eros. Egli faceva discendere l'equivalenza tempo-danaro che regola gli onorari all'analista dalla estraneità di Freud alla dimensione del dono. L'analista, come la battona, eroga un servizio sostanzialmente piacevole, ma spesso non dona nulla(29). Con questo intervento Fachinelli spezzava un tabù. E difatti in quel congresso intervennero azzimati verdiglioniani rampanti che, manco a dirlo, riportarono tutto al Dio Linguaggio: "il danaro è simbolico, tutto nell'analisi è linguaggio!" Spazientito, Fachinelli rispose "riportare tutto al linguaggio è idealistico! A me interessano i soldi che si rifilano all'analista."
In fondo, a Fachinelli non dispiaceva del tutto l'idea che l'analista fosse uno che si offre in un trivio di una metropoli industriale per permettere ad uno, per un tempo limitato, "di essere un po' finalmente se stesso". Ma dovette presto riconoscere che il rapporto analista-analizzante non è più simile a quello puttana-cliente. Altro che!, le analisi moderne sono veri e propri matrimoni, ci manca solo il sindaco con la fascia tricolore per sancirle (ma oggi la legge Ossicini può farne le veci): spesso durano un numero di anni probabilmente non inferiore a quello in cui dura in media una coppia concubina.
Quando lo informai che avremmo intitolato La bottega dell'anima il libro che raccoglieva varie testimonianze e riflessioni sulla formazione degli psicoterapeuti(30), insorse dicendo: "Ma quale bottega! La psicoanalisi è ormai passata alla produzione industriale. Sarebbe meglio 'La Fiat dell'anima'". Ancora oggi penso che esagerasse; oggi più che mai la psicoanalisi sopravvive in una dimensione di botteguccia artigiana, che a stento resiste all'impatto del Supermercato Antidepressivi e delle Nuove Tigri Cognitiviste. Ma per lui la minaccia per la psicoanalisi non proveniva dalla sua umiltà artigiana - che lui praticava - bensì dall'incastrare analista ed analizzante in un rapporto di tipo coniugale. Oppure la minaccia veniva dai prestigiosi conventi psicoanalitici - tipo Tavistock Clinic a Londra - dove tutti gli orologi, quando ci sono, sono fermi.
Comunque, prostituzione o matrimonio che fosse, nel rapporto analitico tradizionale Fachinelli vedeva la mancanza della dimensione del dono gratuito, e correlativamente della accettazione grata. Questo non significava che l'analista dovesse lavorare gratis. Aldilà della regolare erogazione di onorari coglieva la protocollare avarizia - anche teorica - dell'analista "normale".
Ciò emerge già dai suoi commenti al Kindergarten di Porta Ticinese,(31) ben lontani dal tono decantante di tanti aedi della pedagogia alternativa, dai Summerhill alle Bonneuil-sur-Marne. Fachinelli nota che i bambini, lasciati liberi, tendono spontaneamente, irresistibilmente, a costituire tra loro, al più presto, rapporti genuinamente mafiosi, e aggiunge:

questa società fascista [di bambini piccoli] ci è sembrato il risultato immediato di un atteggiamento 'antiautoritario' inteso (...) come abolizione tendenzialmente completa della figura e della posizione dell'adulto rispetto al bambino... Eliminando la figura dell'adulto,..., si vede sorgere una gerarchia di ferro, basata sulla forza e sulla prepotenza, che impronta di sé i rapporti dei bambini tra loro.(32)

Non potrebbe essere questo un epitaffio a tutto quello che all'epoca, ingenuamente, si proponeva come anti-autoritario? Come il gruppo innovativo degli studenti trentini tende a diventare, per evoluzione endogena, setta fanatica e paranoide, come la Rivoluzione liberatoria sfocia nelle burocrazie repressive, come l'appello freudiano a lasciar manifestare l'Es si arena nelle "bocche chiuse" di tanti didatti dell'areopago e degli allievi ossequiosi, analogamente i bambini liberati dalla sorveglianza degli adulti tendono a diventare una società tirannica. Che cosa c'è di marcio nella Rivoluzione, per cui si torce immancabilmente nel contrario di se stessa? Perché, come diceva Saint-Just, prima o poi "la rivoluzione è congelata"?
Nell'asilo anti-autoritario, Fachinelli vide chiaramente che i bambini desiderano non il sottrarsi degli adulti, ma al contrario il loro partecipare piacevolmente ai loro giochi e alla loro vita. I bambini chiedono che i grandi facciano dono del loro interesse, non che li lascino liberi di fare i prepotenti. Altrimenti - osserva Fachinelli - tutto diventa merda. I materiali della scuola, messi là per far giocare i bambini, vengono malmenati, distrutti; gli stessi adulti, resisi evanescenti, vengono "smerdati". "Elvio cacato" è il nomignolo che il Nostro si guadagna sul campo. Senza il desiderio di donare, là dove l'adulto provvede solo ai bisogni dei bambini, irrompono solo i bisogni che ci spingono al gabinetto.
Insomma, per Fachinelli una psicoanalisi e un'azione sociale liberatorie erano una strada stretta incassata tra la pietra e la merda. Pietra come quella del palazzo di Giustizia del magistrato (l'annullamento ossessivo della storia nelle analisi interminabili e nelle burocrazie); merda come quella del "tempodenaro anale", del servizio senza dono, dell'utenza senza gratitudine. La loro combinazione genera l'universo grigio dei culi di pietra, imperiture statue dell'isola di Pasqua, incapaci sia di donare che di accettare graziosamente il dono della vita.


7.

Entrai veramente in amicizia con Elvio quando gli portai un mio lavoro sui gruppi. Qui, riprendendo un motto di Didier Anzieu, concludevo "il collettivo è un sogno". Questa idea gli piacque(33), forse proprio per la sua aura anti-marxista, ma anche perché faceva eco alla sua impressione che nel grande spettacolo politico predominasse una specie di processo primario, come nei sogni.
Egli vedeva la doppia faccia del sogno: esso è "la via maestra all'inconscio", ce lo mostra nel suo muoversi autentico e sbrigliato, ma allo stesso tempo è maschera del desiderio, camouflage, mera rappresentazione. Un sogno certamente avviene, eppure non esiste; fa ac-cadere la verità vitale dell'uomo, ma la fa anche ri-cadere nella raffigurazione immaginaria. Il sogno e l'atto (Agieren) freudiani rivelano la sorgente pulsionale, ma ne sono anche la ripetizione nel senso in cui un attore ripete: si recita la vita, non la si vive. Per il vitalismo libertario, è essenziale che si possa vivere secondo verità, che la vita sia veramente vita. Fachinelli constatava questa ambiguità della forza - che svolgendosi si congela nella propria rappresentazione - sia nella pratica analitica che in quella politico-sociale.
Fachinelli, in "Il paradosso della ripetizione"(34), notava la doppia faccia della ripetizione in psicoanalisi. Il soggetto ripete in modo "buono" rimemorando, vivendo il transfert, e reinserendo il suo passato in uno sviluppo storico; ma ripete anche in modo "cattivo", nell'acting out, nella coazione a ripetere, nella pulsione di morte come tendenza a tornare allo stato inorganico. Fachinelli tentava di discriminare i due orientamenti - progressivo e regressivo - della ripetizione, distiguendo la semplice replica (un mero riprodurre senza originalità) dalla riduzione ("una ripetizione più schematica e povera dell'originale... e anche, ..., come quando si parla di riduzione all'obbedienza")(35), e infine dalla ripresa, che riprendeva a sua volta dal Gjentagelsen kierkegaardiano. La ripresa (un po' come quando si dice di un'auto che ha "una buona ripresa") è un rilancio del passato nel futuro che si espone alla conferma e alla modificazione. Il nevrotico ripete sempre gli stessi errori, è vittima sempre della scalogna - in lui la forza vitale si riduce a replica. Ma c'è anche una ripetizione propulsiva, che ri-presentando il passato mette in atto la vita.
E i movimenti collettivi dell'epoca erano anch'essi à double face come un sogno. Esprimevano un processo primario, uno stato brado di godimento conviviale - ma erano anche chiusura nella rappresentazione delle sette e delle mitologie collettive. Il sogno rivoluzionario non portava ad un vero risveglio, ma si ritorceva nel sogno terrorista. Chi volle passare davvero all'atto, alla lotta armata, credette solo di agire: ritornava la pulsione conviviale originaria nell'antifrasi congelata della morte, uccideva la Rivoluzione recitandone il rito sanguinario - perché per Fachinelli la Rivoluzione era gioia e non somministrazione metodica della morte. Mutatis mutandis, la tecnica analitica, promuovendo le associazioni libere, fa ac-cadere il desiderio, ma allo stesso tempo rischia di rap-presentarlo perpetuandone il fluire interminabile. Anche l'interpretazione analitica dei sogni rischia di riaddormentare il soggetto nel sonno di un transfert senza fine. Ma un sogno, che non sia un incubo, può mai portare ad un risveglio?
Ogni volta che Fachinelli descrive una sua scoperta nuova, un'esperienza inedita, parla di un risveglio. "Quest'idea del rovesciamento di prospettiva, - scrive- ..., di colpo mi ha svegliato. Sono lucido, ora, attento, pronto"(36). Quando pensa di aver accesso all'"area claustrofilica", scrive che "c'è in questi casi un'eccitazione intellettuale, una sorta di risveglio gioioso da un torpore insoddisfatto"(37). Prima c'era la stanchezza, l'indolenza, il sonno - come quello dei tanti analizzanti che, a sentir dire gli analisti, si addormentano sul divano. Poi, grazie ad un balenio, che viene dall'interno o dall'esterno, acutizzazione dei sensi, eccitazione.
In questo modo, Fachinelli rovescia la prospettiva che fino ad allora egli stesso aveva portato avanti: l'analista apre sì il soggetto arroccato nell'atemporalità, ma nella misura in cui lo rende disponibile ad una grazia inattesa. Non era il morso della tarantola già l'allegoria di questo ritorno ad un idillio immemoriale che spezza il continuum temporale, buco nell'inerzia storica, senza il quale però non ci sarebbe ripresa e cambiamento creativo? La paralisi dell'ossessivo non testimoniava, anche se in negativo, la fonte sacra di ogni moto storico?
In effetti, Fachinelli pensava sempre più che nella società dell'"edonismo reaganiano" i problemi non vengono più - come ancora vedeva Freud - dalla proibizione e dalla sua trasgressione, dalla tensione tra piacere e colpa, dalla dialettica lacaniana della legge che crea la propria sovversione. La paura per il mondo della vita non veniva insomma da divieti culturali o super-egoici, dall'Alto o dall'Altro, ma aveva a che fare con la difficoltà umana ad accettare una gioia eccessiva. I mistici quindi - e alcune figure di grandi creatori - presero nel suo cuore il posto dei contestatori come esempi di persone (poche, molto poche, anche in questo caso) che osavano accettare quell'eccesso, ri-convertendo la loro vita(38).


8.

Fachinelli col tempo si rese conto che la semplice apologia dionisiaca di un'irreversibilità che, al contrario della moglie di Loth, non si volge mai indietro, è un ideale utopico che porta al settarismo. Cancellare l'arcaismo originario non radicalizza lo slancio ma lo risolve di fatto nell'obbedienza della circolarità. Anzi, occorre rendere il passato di nuovo presente, in una specie di allucinazione, perché ci sia ripresa.
In effetti, questo è il problema fondamentale delle filosofie della vita, sempre: se è vero che a fondamento di tutte le forme umane c'è la spinta sorgiva della vita (Eros in Freud), perché questa spinta, man mano che si articola e quindi si rappresenta, si risolve nelle forme circolari e reversibili dell'anti-vita? "La cultura umana, che è frutto di Eros, per paradosso lo indebolisce sublimandolo [...] L'io lavora inconsciamente al servizio della propria morte."(39) Se Eros è arché del movimento umano, perché accade regolarmente, forse inevitabilmente, che questo Eros si congeli nelle ripetizioni?
Freud cercò di rispondere con il suo mito delle pulsioni di vita e di morte. Ma Fachinelli, allenato alle sottigliezze hegeliane, capiva che Eros e Thanatos non sono due gemelli che talvolta collaborano e altre volte se ne danno di santa ragione, come recita la Vulgata della psicoanalisi istituzionale. Egli sapeva che più che parallelo ad Eros, Thanatos è in realtà una vicissitudine, la prolunga, di Eros. Oserei dire: Thanatos è la verità ultima di Eros. Così Eros è anche la negazione vitale della Verità ultima dell'uomo. Fachinelli vedeva il risvolto tragico di ogni serio pensiero del mondo-della-vita: che la vita teme di cancellarsi per l'eccesso da cui prende slancio, per cui si aliena in forme e difese, ma così facendo si pietrifica come Niobe, anticipa la morte preservandosi senza fine.
Di fatto, la messa in atto della verità della vita come sorgente è la febbre di un momento estatico, una parentesi, un'euforia effimera. "Una germinazione rapida che sembra nello stesso tempo già sfiorita", disse della rivoluzione portoghese del 1975, che andò ad osservare in loco(40). Il radicalismo fachinelliano aveva un'inclinazione malinconica. La verità della vita non si dispiega, per lui, nelle lunghe durate, ma brucia nella gioia precaria di ciò che in America chiamano an Indian summer: un calore improvviso, una reviviscenza effimera dell'estate, quando già prevalgono i primi freddi dell'autunno.
Perché il sogno di svegliare la vita nella sua verità resta sempre, appunto, un sogno breve che già sfiorisce, e non porta mai al prolungarsi del risveglio? Perché il fugace risveglio, ritorcendosi nella propria fantasmagoria, si ritrova nella stasi di un nuovo sonno? Si rimanda sempre il risveglio... a un po' più tardi. E' vero - assentiva Fachinelli - "il collettivo è un sogno", ma questo significa che, in fondo, il soggetto non si sveglia mai veramente dal sogno collettivo - tranne, appunto, in certi momenti speciali, ek-statici, imprevisti.
Allora, si riattiva la fonte della ripresa facendo affiorare paradossalmente ciò che è più che mai regressivo: uno stato extra-temporale di grazia originaria.


9.

Fachinelli aveva salutato nel pensiero di Lacan una carica anarchica entro la psicoanalisi: da lui aveva ripreso l'emergenza impertinente del désir contro l'amministrazione dei bisogni, l'idea che l'inconscio non bolli nelle profondità del cuore umano, ma vada richiamato piuttosto fuori di noi, nell'Altro. Di Lacan si poteva dire quel che Sartre disse di Husserl: "finalmente ci ha liberato dalla vita interiore!". Ma Lacan aveva troppe risposte, e quindi già covavano gli slogan pronti ad esser ripetuti da tutti i pappagalli pariginofili, tipo "l'inconscio è strutturato come un linguaggio" - risposta grandiosa, affascinante, ma pur sempre risposta, pietrificazione nel formalismo della linguistica o linguisteria(41). Del progetto di Lacan gli interessava piuttosto la domanda di fondo: se la sofferenza nasce dalla resistenza dell'Io alla jouissance dell'Altro, che ne sarà di questa jouissance una volta che avrà avuto libero corso? Come accade che questo godimento soffra nel confort della circolarità rappresentativa della coazione a ripetere? Ora, per Fachinelli queste domande dovevano restare aperte, e non trovare risposta nelle topologie - per quanto elastiche - dei nastri di Möbius, oppure nell'Ecole che Lacan stesso mise in piedi.
Lacan, nel 1974, aveva in mente di affidare di fatto a Fachinelli la leadership della sua nuova Scuola italiana. Era una buona mossa politica: Fachinelli non era un suo diretto allievo, anzi, era un noto analista della SPI. Soprattutto, Lacan lo stimava. Eppure Fachinelli rifiutò quell'offerta. Allora mi disse: "Lacan sta ripetendo lo stesso errore di Freud: fare della psicoanalisi un'istituzione. Come Freud, andrà incontro ad amare delusioni". I fatti gli hanno dato più che ragione - nel 1980 lo stesso Lacan scioglierà l'Ecole. La risposta si era mostrata fallimentare. Invece l'IPA prosperava. Perché le burocrazie sono così longeve e resistenti, mentre i movimenti vitali che fanno emergere delle verità autentiche sono così effimeri? A questa domanda non c'è risposta "vitalista". L'emergere della verità, come sapevano i romantici, è breve - ma è questa brevità a rilanciare la vita.
La risposta lacaniana era anche concettuale. Lacan, vedendo il godimento coessenziale alla vita sin dal principio irretito nelle griglie del linguaggio, finiva così col chiudere quel godimento straripante nell'eterno sintomo nel quale si può circolare solo come in un labirinto. La jouissance, come impulso aguzzo della vita nel darsi prima di ogni forma rotonda, non veniva più accettata come dono, ma di nuovo spazializzata nei nodi borromei con i quali da decenni lacaniani anche di talento impiccano la loro creatività.
Ma cosa significa allora, veramente, accettare il desiderio o il godimento come dono?


10.

Quando Lacan venne a Milano, intenzionato a fondare la sua Ecole italiana, Fachinelli nella discussione pubblica osò riproporre al Maître un gesto ormai celebre nella storia della filosofia(42). L'economista Piero Sraffa, si dice, mise in crisi Wittgenstein durante una delle loro frequenti discussioni a Cambridge, mimando un gesto napoletano che si fa carezzando il di sotto del mento col dorso delle dita, e che significa, più o meno, un rifiuto. Sraffa chiese a Wittgenstein "qual'è la grammatica di questo gesto?"(43) Da allora, pare, Wittgenstein abbandonò la teoria del linguaggio come raffigurazione di fatti. Fachinelli, identificandosi al marxista italiano, eseguì lo stesso gesto con Lacan e gli chiese cosa significasse. Lacan non seppe rispondere. In apparenza, con questa performance il Nostro voleva ricordare al Maestro che non tutto è linguaggio, che ci sono anche gesti, emozioni. Un'obiezione banale, e difatti Lacan ebbe buon gioco nel rispondergli - ma lì è il punto: rispose, non si lasciò mettere in questione come Wittgenstein - che anche i gesti più elementari hanno struttura linguistica, come sappiamo da Saussure in poi. Quel gesto come signifiant - fece notare - non assomiglia affatto al suo signifié. Ma Fachinelli non discuteva la risposta, gli interessava una domanda: quella incessante della vita oltre le griglie del linguaggio e delle Ecoles. Analizzare è solo riconoscere l'articolazione simbolica, la coazione a ripetere - a cui dovremmo rassegnarci - o può, almeno per un attimo, aprirci al godimento riportandoci all'evento inaugurale della vita?
Quel gesto rifatto da Fachinelli, famoso nei secoli passati, veniva chiamato "il gesto napoletano" per antonomasia, ed era considerato all'estero elegante e arguto. Jean-Baptiste Greuze ci ha lasciato un bel dipinto (Le geste napolitain(44)): un giovane portoghese, fingendosi venditore ambulante, si introduce nella casa di una bella ragazza partenopea, ma viene allontanato da costei con "il gesto napoletano". L'interpretazione del quadro non è però univoca(45). La grazia del gesto, che pur indica il rifiuto di concedere le proprie grazie, ne rovescia ambiguamente il senso - il gesto, mimando il venir fuori della mano, connota apertura all'altro, e quindi tempera ironicamente la reiezione. Ci si convince presto che la bella non dica al ragazzo semplicemente "non ti voglio", che proprio nel dono grazioso di quel gesto di diniego accetti la profferta. Replicando quel gesto che pare disdire il suo contenuto, Sraffa dette da pensare a Wittgenstein ricordandogli che il segno della negazione non assomiglia a nulla. Può solo, paradossalmente, rassomigliare al fatto che viene appunto negato: occorre allora che nella negazione qualcosa pur si affermi, cioè si chieda. E' un tema che Freud stesso si era posto nel saggio "Sulla negazione" che - non è un caso - Fachinelli aveva tradotto e commentato(46).
Se l'accettazione della richiesta emerge proprio nel risvolto del rifiuto, più in generale il negarsi della vita nella rappresentazione che annulla il tempo - nel famoso simbolico - è una messinscena, che può rivelarsi nell'acme dell'azzeramento, dell'origine-verità affermativa della vita. La vita ha bisogno del proprio scacco nella risposta rappresentativa immaginaria per rilanciarsi. Non c'è progressione, e progresso, renza regressione "mistica" - questo è il messaggio di fondo di Fachinelli.
Quando poi legge L'etica della psicoanalisi(47) di Lacan, Fachinelli si rende conto che si tratta di un testo centrale, che va ben oltre il lacanismo ad uso dei proseliti: in questo seminario difatti Lacan tematizza das Ding, la Cosa, qualcosa che assomiglia a ciò che Fachinelli cerca di rendere sensibile con l'esperienza della "gioia estatica". Ma, anche qui, rimprovera Lacan per essere ancora troppo freudiano, cioè invischiato nella dialettica dell'obbedienza e della trasgressione, insomma dell'Edipo. Anche se in questo seminario Lacan evoca i mistici,

la gioia eccessiva, che è al cuore dell'esperienza estatica, viene trascurata. All'orizzonte del raggiungimento assoluto della Cosa [per Lacan] c'è soltanto, essenzialmente, il dolore."(48)

Da Sade a Freud, la verità della vita è insomma nel dolore. Eppure proprio il circoscrivere la Cosa ha portato Lacan - se solo si fosse liberato della dialettica freudiana della legge come proibizione dell'incesto che lo rende godibile - molto vicino a quell'eccesso di piacere che l'essere umano cerca di perpetuare rinunciandovi.


11.

In Claustrofilia, il primo e l'ultimo capitolo riaffermano la tesi tipica di Fachinelli: le analisi sono interminabili, "nulla si muove", perché analista e analizzante sono invischiati in un'angustia spaziale da cui non si districano. Ma nei capitoli centrali, in cui incrocia in modo apparentemente caotico - quasi onirico - brani di analisi di pazienti diversi, emerge che questa claustrofilia, se da una parte è il grande impedimento al movimento dell'analisi, dall'altra, se non viene "ripetuta" nell'analisi ma ri-vissuta nella sua forma originaria e quasi magica, non porta al sonno rappresentativo ma al risveglio dell'evento: essa può essere al contrario ripresa propulsiva dell'analisi. Si ripete con la claustrofilia fachinelliana la stessa ambiguità del transfert, descritto prima da Freud come una rognosa difficoltà dell'analisi, e poi invece, se ben maneggiato, come la molla indispensabile per rilanciarla. Come per Freud l'analisi diventa allora una ricostruzione del desiderio attraverso l'amore per l'analista, così per Fachinelli l'analisi diventa "una ripresa del desiderio attraverso la regressione ad una simbiosi con l'analista". Il claustrum analitico "cattivo" è allora una cronicizzazione di uno stato critico pre-temporale: essenzialmente, lo stato fetale, in cui il bambino gode nel restar chiuso nell'intimità materna. Occorre che questo stato non si prolunghi ad libitum come rappresentazione ripetitiva, ma ri-accada nel rapporto qui-ed-ora con l'analista, attraverso una riacutizzazione spasmodica dei sensi.
Dall'accusa agli analisti di de-temporalizzare l'analisi, sottraendo nella ripetitività il soggetto alla spinta vitale della storia, Fachinelli slitta verso l'idea che l'analisi si cronicizza perché l'analista non si lascia "mordere", svegliare, da un richiamo intemporale, folgorante, pre-natale(49). Occorre insomma farsi femmine, perché dono e accettazione sono qualità femminili che la nostra società - compresa la società psicoanalitica - ha scotomizzato, puntando tutte le carte sulle funzioni maschili della difesa, del controllo, dell'attacco-fuga.
Non si trattava, come vedeva prima, di partecipare alla corrente del moto storico trasgredendo proibizioni - ormai sia Dio che Marx erano morti - ma nello scoprire che il moto storico è la ripresa di un'accettazione più radicale: il dono della vita, che si ripara nelle forme-rappresentazioni per non morire.
Per descrivere questo stato claustrofilico Fachinelli rifiuta il termine fusione, e non solo per rivendicare un'originalità nei confronti dei tanti teorici della simbiosi madre-bambino. In effetti, ciò che gli appare importante nella claustrofilia è che sia appunto un'area, qualcosa di spaziale insomma (non una "posizione" kleiniana, non una "fase" freudiana): in contrapposizione alla stasi temporale, una ek-stasi il cui ambito è, originariamente, il ventre materno da cui ac-cadiamo. Scelta paradossale, dato che ek-stasi significa appunto, in greco, venir fuori, esser fuori di sé. Non è l'indistinzione completa tra madre e feto, ma un rapporto in cui al massimo del dono risponde il massimo di accettazione.
Ma se essere nel ventre materno è la massima gioia, e nascere è una caduta, è pur vero che nella vita occorre cadere più volte, perché - questo è il paradosso propulsore della psicoanalisi - solo uscendo fuori nel tempo della storia la vera gioia del dono-accettazione può essere, magari solo per un istante, rivissuta.


12.

Ricordo con piacere certe passeggiate primaverili con Elvio, a Milano. Da via Lanzone, dov'era il suo studio, ci avventuravamo sui Navigli - conversando di qualsiasi argomento, sempre fuori di ogni schema ideologico o teorico. Allora, negli anni 70, i Navigli non erano quel crogiuolo mondano, zeppo di ristoranti e bar chic, che poi sono diventati. Erano tristi canali con case vetero-industriali rose dal tempo, ma sia lui che io amavamo quello straccio d'acqua - dava senso ad una città come Milano, che trovavo poco vivibile proprio perché priva di acque dove specchiarsi.
In un ristorantino dei Navigli, insieme alla sua ragazza, avemmo una animata discussione sull'aborto. La ragazza non aveva figli né aveva alcuna voglia di averne, e l'idea di contenere nella pancia delle cellule che si coagulavano - diceva - non le dava la minima emozione. Elvio, che pur sosteneva il diritto all'aborto, non era convinto. Nelle ecografie, diceva, si vede che a pochi mesi il feto si muove, ascolta le voci, forse gioca. E poi, diceva ridendo - perché il suo tono non era mai indignato, apodittico - "possibile che tu, una donna, non sia curiosa di sapere che cosa sei stata capace di fare? Non vorresti sapere se quella cosa è venuta fuori con due braccia, con due occhi, con tutto a posto?" Con quelle obiezioni apparentemente ingenue, Elvio anticipava Claustrofilia, che dà molto spazio al pre-natale. Ma soprattutto lo inquietava, dietro la dolcezza un po' trasognata della ragazza dei Navigli, quel disprezzo del rifiuto della grazia della vita, la riduzione della sessualità, ancora una volta, a gestione ottimale e solipsistica di bisogni. Figliare non è mai razionale - la specie si perpetua grazie al fatto che delle donne accettano l'onore dell'onere di elargire graziosamente la vita.
Mentre Elvio sorridendo difendeva la presenza del feto, osservavo l'acqua quasi stagnante dei Navigli - pareva incatenata tra gli argini di pietra. "Eppure, a pochi mesi, il feto si muove, si succhia il dito!", ripeteva ridendo Elvio sorseggiando il vino bianco. E il canale pareva immobile, tra il cemento e i detriti industriali.



Note:

1) Elvio Fachinelli, Uma tentativa de amor (Roma, Cooperativa Scrittori, 1976), p. 50.

2) Pubblicato poi in Il bambino dalle uova d'oro (Milano: Feltrinelli, 1974), pp. 76-80.

3) Op.cit., p. 78-9.

4) "Dove Es era, là Io devo addivenire", in Freud, "Introduzione alla psicoanaisi", Opere (Torino: Boringhieri, vol. 11), p. 190.

5) La psicoanalisi francese in generale ha puntato sulla distinzione tra désir e besoin, tra pulsion e instinct: ha giocato le sue carte sulla de-biologizzazione del pensiero freudiano. Il "regno freudiano" sarebbe quello delle pure rappresentazioni o rappresentanze psichiche. Gli analisti francesi hanno coì ripreso a loro modo il dualismo cartesiano, reinterpretandolo come divisione tra res extensa e res desiderans.

6) Cfr. "Il desiderio dissidente" in Il bambino dalle uova d'oro, cit., pp. 107-113.

7) "Problemi di formazione nella SPI" in Sergio Benvenuto e Oscar Nicolaus, a cura di, La bottega dell'anima (Milano, FrancoAngeli, 1990), p. 204.

8) "Masse a tre anni" in Il bambino dalle uova d'oro, cit. p. 176.

9) Sul posto di Fachinelli nella psicoanalisi italiana, cfr. Marco Conci, "Elvio Fachinelli: A Profile", in Journal of European Psychoanalysis, n. 3-4, 1996-97, pp. 157-162. Cfr. E. Roudinesco,

10) In modo analogo a come Freud considerava la religione, in L'avvenire di un'illusione (1927), in Freud, Opere, vol. 10 (Torino, Boringhieri), pp. 435-489.

11) In una telefonata, poco dopo i trionfali funerali di Enrico Berlinguer nel 1984, mi disse "Non ci si rende ancora conto della catastrofe del 900: la fine del comunismo, che il nostro secolo ha prodotto e distrutto".

12) In "Problemi di formazione nella SPI", cit., p. 211.

13) "Sulla spiaggia", La mente estatica (Milano, Adelphi, 1989), p. 25.

14) La freccia ferma (Milano, L'Erba Voglio, 1979), p. 11.

15) Ibid., p.12.

16) Claustrofilia (Milano, Adelphi, 1983), p. 187.

17) "Problemi di formazione nella SPI", cit., p. 201.

18) Queste idee non dovevano farlo incontrare con la predicazione di Wilhelm Reich, e soprattutto, data l'epoca, con quella di Deleuze e Guattari? Ma Fachinelli non poteva farsi seguace "del nuovo vangelo dell'esaltazione venerea" di Reich, e nemmeno dello spinozismo materialistico dell'Anti-Edipo, dell'idea che il desiderio sia una sostanza e un macchinismo. La sua simpatia andava piuttosto al "mistico" e complesso Benjamin, più che ai manifesti roboanti del deleuzismo, nel quale non apprezzava "quel pedale d'organo mosso a distanza" (cfr. "A proposito di Jung", Il bambino dalle uova d'oro, cit., p. 74; diceva questo a proposito di Jung, non di Deleuze e Guattari, eppure...).

19) Inserito in La mente estatica, cit., pp. 15-25; lo avevo già fatto pubblicare su "Lettera Internazionale", 6, autunno 1985.

20) Op.cit., p. 17 e 19.

21) Cit., p. 18.

22) "Gruppo chiuso o gruppo aperto?" in Il bambino dalle uova d'oro, cit., pp. 114-141.

23) Cit., p. 131.

24) Cit., p. 135.

25) Prima a casa di Lea Melandri, poi a casa di Fachinelli stesso.

26) In questo modo egli anticipava quel movimento critico nei confronti della psicoanalisi in generale, che negli anni 90 è dilagato soprattutto in America.

27) Claustrofilia, cit., pp. 36-7.

28) Pubblicato come "Il denaro dello psicoanalista", in Armando Verdiglione, a cura di, Sessualità e politica (Milano, Feltrinelli 1976), pp. 308-15.

29) E' il tema del "tempodenaro anale" (cfr. Il bambino dalle uova d'oro, cit., pp. 30-50) che trasforma l'irruzione storica della Lebenswelt nella gestione oculata e stitica dei bisogni.

30) Sergio Benvenuto e Oscar Nicolaus, La bottega dell'anima, cit. Qui pubblicammo una conversazione tra lui e me.

31) "Masse a tre anni", in Il bambino dalle uova d'oro, cit., pp. 171-181.

32) Cit., p. 172.

33) Pubblicò difatti sulla sua rivista due miei articoli dove tra l'altro sviluppavo questa tesi: "Rumore e tremore", L'Erba Voglio, 20, marzo-aprile 1975, pp. 8-11; "Scarti. Ovvero: Gesù Bambino suppliziato", L'Erba Voglio, 27, sett.-ottobre 1976, pp. 17-21.

34) In Il bambino dalle uova d'oro, cit., pp. 212-247.

35) Ibid., p. 236.

36) "Sulla spiaggia", cit., p. 16.

37) Claustrofilia, cit., p. 65.

38) Questo non significava rivalutazione della religione come istituzione. Per lui tra mistici e religione c'era lo stesso rapporto che vedeva tra movimenti anti-autoritari e partiti ufficiali della sinistra.

39) In Il bambino dalle uova d'oro, cit., p. 24.

40) Uma tentativa de amor, cit., p. 41.

41) Lacan ammise che la sua non era tanto "seria linguistica" quanto linguisterie (cfr. Jacques Lacan, Le Séminaire, livre 20. Encore [Parigi: Ed. du Seuil, 1975], p.20).

42) Cfr. Giacomo Contri, ed., Lacan in Italia (1953-1978) Lacan en Italie (Milano: La Salamandra, 1978), pp. 134-135.

43) Cfr. Ray Monk, Ludwig Wittgenstein. The Duty of Genius (New York: The Free Press, 1990), pp. 260-1.

44) Questo quadro, del 1757, si trova al Worchester Art Museum, Mass.

45) La ragazza compie il gesto napoletano con la mano sinistra, ma tende la destra allo spasimante in modo da incoraggiarne l'audacia. Questa ambiguità non è inscritta nella "sintassi" stessa del gesto?
46) In Il bambino dalle uova d'oro, cit., pp.16-29.

47) Jacques Lacan, Il Seminario, vol. 7. L'etica della psicoanalisi (Torino: Einaudi, 1990).

48) "Lacan e la Cosa" in La mente estatica, cit., p. 195.

49) Anche se Fachinelli non lo dice esplicitamente, gli stessi movimenti politico-culturali in cui egli aveva "nuotato" non gli appaiono ora più come un'accelerazione del tempo storico contro la ripetitività stagnante delle istituzioni, ma come il risultato di un "morso", di un'apertura estatica, ad una dimensione altra, potenzialmente creativa e gioiosa.