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SAPER LEGGERE NELLA MENTE ALTRUI : IL CONCETTO DI TEORIA DELLA MENTE di Serena Ali



Il concetto di Teoria della Mente è definito come la capacità cognitiva di rappresentazione dei propri e altrui stati mentali, in termini di pensieri e credenze, ma anche di desideri, richieste e sentimenti, in modo tale da poter spiegare e prevedere il comportamento.
    Sembra plausibile ipotizzare che la Teoria della Mente sia una capacità cognitiva innata nell’essere umano, il cui processo di sviluppo è influenzato in parte anche dal contesto culturale del soggetto ed è relativamente indipendente dal suo livello intellettivo (Fletcher et al., 1995).
    La Teoria della Mente è una capacità sempre “on line” negli umani e permette a ogni persona di interpretare segnali dell’ambiente sociale che supportino o disconfermino le proprie convinzioni sulla realtà, di estrarre da un discorso il significato rilevante e, nella comunicazione umana, di oltrepassare il significato letterale di parole ed espressioni sulla base di informazioni contestuali. Permette, inoltre, di distinguere tra realtà e finzione (far finta di…), tra le proprie credenze e quelle di un’altra persona, tra uno scherzo e una bugia, di riconoscere le false credenze, di comprendere le metafore, l’ironia e le situazioni cosiddette di faux pas (gaffes).

Cenni storici

    L’espressione Theory of Mind (ToM) è stata coniata da Premack e Woodruff (1978) nell’articolo “Does the chimpanzee have a Theory of Mind?”, in cui viene indagata la capacità degli scimpanzé di prevedere il comportamento di un attore umano in situazioni finalizzate ad uno scopo. Questi ricercatori usarono il termine Theory of Mind per riferirsi alla capacità di comprendere uno stato mentale di un altro organismo sulla base dell’analisi del suo comportamento.
   E’ stato ipotizzato, da un punto di vista evoluzionistico, che una Teoria della Mente di sé e degli altri sia emersa nell’evoluzione degli ominidi come una risposta adattiva a un ambiente sociale diventato più complesso (Brothers,1990). In accordo con ciò che è chiamato “ipotesi del cervello sociale” (Brothers, 1990; Dunbar, 1998), gli individui con buone capacità di lettura della mente sarebbero più capaci degli altri nelle relazioni sociali, avendo quindi un maggior successo riproduttivo. Tuttavia, mentre i primati e le grandi scimmie vengono ritenuti esperti nella lettura del comportamento, dei gesti, dell’intenzione dei movimenti e delle espressioni del volto, la capacità di leggere la mente e di rappresentare cognitivamente la propria mente e quella degli altri, ovvero la “pienezza” della Teoria della Mente, non dipende necessariamente dall’input sensoriale ambientale. Infatti, un individuo può pensare ciò che gli altri hanno in mente, pur senza vederli (Premack e Woodruff, 1978). Va comunque segnalato che altri autori hanno espresso dubbi sull’attribuzione di stati mentali nei primati (Povinelli, 2000), per cui è consigliabile una certa prudenza nell’affermare che le scimmie abbiano una Teoria della Mente.

Sviluppo della Teoria della Mente

    Lo sviluppo della Teoria della Mente si articola in alcune tappe fondamentali. Nei suoi lavori Tomasello (1999) sostiene che la capacità iniziale alla base dello sviluppo, nonché il fondamento della comprensione dei fenomeni mentali, sia la comprensione dell’intenzionalità. Questa abilità, in soggetti sani, appare in età precocissima, intorno all’anno di vita, quando il bambino inizia a dirigere la propria attenzione sulla dimensione intenzionale delle azioni, piuttosto che su quella meccanica. Tale attenzione all’intenzionalità è dimostrata dal fatto che i bambini, intenti ad imitare un comportamento, cominciano quasi subito a tararsi sull’obiettivo delle loro azioni, perdendo interesse per una ripetizione fedele delle sequenze comportamentali osservate.
    A dodici-tredici mesi dalla nascita il bambino è in grado di riconoscere e distinguere le espressioni del volto e il loro significato emotivo.
    A due-tre anni il bambino è in grado di comprendere gli stati mentali non epistemici (come desideri, emozioni, intenzioni) e i giochi di finzione (per esempio: far finta che due dita siano un telefono o una pistola).
    Infine, intorno ai quattro anni di età, si realizza lo sviluppo pieno della Teoria della Mente, con la capacità di comprendere stati mentali epistemici e di prevedere il comportamento altrui sulla base delle informazioni sull’altro di cui si è in possesso, avendo raggiunto la capacità di poter leggere nella mente altrui.
    Main (1991) e Fonagy (1991, 1993) hanno posto in relazione lo sviluppo delle capacità di rappresentazione degli stati mentali con la qualità del rapporto di attaccamento del bambino con il o i caregivers. Secondo Fonagy, una buona capacità riflessiva nel caregiver aumenta la probabilità che il bambino instauri un attaccamento sicuro nei suoi confronti e sviluppi un’adeguata capacità di mentalizzazione. Una relazione di attaccamento sicuro offre al bambino la possibilità di esplorare la mente del caregiver e, in questo modo, di imparare a leggere gli stati mentali altrui.
Qualora il bambino non sviluppi un attaccamento di tipo sicuro si assisterà, invece, ad una vulnerabilità del soggetto a sviluppare sofferenza psichica, nonché possibilità di sviluppo di forme francamente psicopatologiche.
     Altri autori sostengono che lo sviluppo dell’individuo si organizzi intorno alla progressiva maturazione biologica delle strutture cerebrali, in base a fasi geneticamente determinate. All’interno di questa corrente genetico-biologica, sono comunque presenti alcuni autori che ammettono che, in determinate espressioni fenotipiche, siano coinvolti aspetti di interazione con l’ambiente (Baron-Cohen, 1995).
    Vi sono, infine, alcuni autori (Carpendale e Lewis, 2004) che sostengono una posizione  maggiormente orientata a favore del ruolo delle interazioni sociali, che vede il bambino formarsi non da solo ma in prevalenza imparando progressivamente dalle interazioni con gli adulti di riferimento in un primo tempo, e con il gruppo dei pari in un secondo tempo.


 Concettualizzazioni teoriche della Teoria della Mente

    Nell’ambito della Teoria della Mente sono stati elaborati tre principali modelli teorici, su cui si sono concentrati la maggior parte degli studi. Nonostante tali concettualizzazioni teoriche siano per alcuni aspetti divergenti, rappresentando punti di vista differenti, esse non sono del tutto inconciliabili. Tutti i modelli hanno avuto un supporto empirico, tuttavia non esistono dati certi che confermino una di queste teorizzazioni come spiegazione certa dell’architettura sottostante la Teoria della Mente (Brune e Brune-Cohrs, 2006).

1) Approccio “Teoria della Teoria”: i teorici dell’approccio “Theory-Theory”, Gopnik (1993) e Wellman, suggeriscono che l’attività mentale si fondi su conoscenze paragonabili a quelle contenute in una teoria scientifica e che il bambino acquisisca, nel corso dello sviluppo, differenti livelli di capacità rappresentazionali. Egli, imparando a discriminare le situazioni reali da quelle ipotetiche, si costruisce una teoria della Teoria della Mente che gli permette di inferire le rappresentazioni mentali altrui per costruirsi la propria comprensione del mondo mentale, esattamente come uno scienziato elabora un sistema teorico per comprendere il mondo. Le cosiddette rappresentazioni mentali sono state definite meta-rappresentazioni. A differenza del modello successivo (Teoria Modulare), questo approccio attribuisce un ruolo maggiore nella formazione dell’abilità di Teoria della Mente all’esperienza individuale, che fornisce strumenti di revisione e riorganizzazione delle conoscenze (Perner, 1991).

2) Approccio “Teoria Modulare”: diversamente dal precedente, quest’ orientamento di tipo innatista si definisce “modulare” in quanto correlato alle ipotesi sulla “mente modulare” di Fodor (1983), secondo cui la mente umana è costituita da moduli specializzati, geneticamente determinati e funzionanti autonomamente. Scholl e Leslie (1999) hanno proposto l’esistenza di un modulo di Teoria della Mente separato (ToM-Module), con la funzione specifica di processare informazioni relative all’inferenza sociale. Inoltre, essi hanno suggerito che il corretto funzionamento del ToM-Module dipenda da un “processore di selezione”, in grado di separare le informazioni contestuali rilevanti da quelle irrilevanti, aumentando così la probabilità di una corretta inferenza degli altrui stati mentali. Lo sviluppo di questa abilità dipenderebbe principalmente dalla maturazione neurologica delle strutture cerebrali coinvolte, mentre l’esperienza ne indurrebbe l’uso.

 3) Approccio “Teoria della Simulazione”: i sostenitori dell’ approccio della “Simulation Theory” (tra cui Goldman et al., 1992, 1993) ritengono che l’ attività mentale sia basata su un’esperienza non teorica e propongono che il possedere una Teoria della Mente sia una qualità legata alla capacità di porsi nei panni dell’altro. Inferire gli stati mentali altrui consisterebbe nel simulare il mondo nella prospettiva dell’altro, sperimentando stati mentali “come se”, replicandoli,  senza necessariamente provarli o condividerli. Anche questo approccio sottolinea l’importanza dell’esperienza nella formazione delle abilità di Teoria della Mente. Un recente supporto empirico è stato fornito dall’osservazione che scimmie e umani possiedono i cosiddetti neuroni mirror (neuroni specchio), cellule cerebrali che hanno la particolarità di attivarsi durante l’osservazione di gesti che coinvolgono mani e bocca. Gallese e Goldman (1998) hanno da qui ipotizzato che l’abilità di leggere gli stati mentali altrui si sia evoluta a partire dal sistema di neuroni mirror dei primati.

Basi neurobiologiche

     Partendo dalle ricerche sui primati, molti studiosi si sono chiesti quali siano le aree cerebrali coinvolte nella Teoria della Mente. Le indagini a questo proposito sono state compiute in campi diversi. Gli studi di comparazione tra neuroanatomia e neurofisiologia hanno dato informazioni riguardo a quali aree cerebrali e a quali funzioni corrispondenti si siano evolute come correlati neurali della Teoria della Mente. Inoltre, studi di neuroimaging funzionale e studi di lesioni cerebrali possono aiutare a localizzare i circuiti cerebrali alla base della Teoria della Mente.
    Nel cervello dei primati sono state identificate molte aree che hanno subito nel corso dell’evoluzione modificazioni adattive, che sono poi diventare nell’uomo la rete neurale alla base della Teoria della Mente. Studi sui macachi hanno rivelato che i neuroni nella porzione centrale del lobo temporale, in modo particolare nel solco temporale posteriore (STS), si accendono selettivamente quando le scimmie osservano la direzione dello sguardo di altre scimmie. Questi neuroni si attivano anche quando gli animali osservano un’azione diretta ad uno scopo (Gallese e Goldman, 1998). Studi di imaging funzionale hanno rivelato che l’osservazione di movimenti di oggetti inanimati che sembrano avere uno scopo (in contrapposizione a movimenti casuali) negli umani causa l’attivazione di un’area omologa del lobo temporale. Lo stesso avviene quando il movimento è implicito nell’osservazione di una fotografia (Kourtzi e Kanwisher, 2000). Quindi, l’attività di parti del STS è collegata all’osservazione di movimenti intenzionali.  
    Il lobo temporale contiene anche un particolare tipo di neuroni, chiamati neuroni mirror (neuroni specchio) per la loro qualità unica di scaricare sia durante l’esecuzione di un movimento della mano o della bocca, sia durante la semplice osservazione dello stesso movimento compiuto da un’altra persona. La scoperta dei neuroni mirror nell’uomo ha offerto una spiegazione di come l’abilità di imitare le azioni degli altri possa essere evoluta nella capacità di simulare gli stati mentali altrui (Williams et al., 2001). Tuttavia, come Frith e Frith (1999, 2001) hanno sottolineato, per la Teoria della Mente non è sufficiente rappresentare azioni dirette ad uno scopo, ma è anche necessario saper distinguere tra comportamenti generati da sé o dagli altri. La capacità di simulare gli stati mentali altrui non coinvolge necessariamente la riflessione conscia, ma può essere facilmente riportata ad un piano di coscienza. La riflessione conscia sugli stati mentali propri e altrui necessita di risorse computazionali che vanno al di là della capacità di simulare o imitare un’azione e la struttura candidata a questo scopo è la corteccia parietale inferiore. E in particolare la corteccia parietale inferiore destra sembrerebbe essere importante per rappresentarsi coscientemente gli stati mentali altrui, mentre la corteccia parietale inferiore sinistra potrebbe essere coinvolta nella rappresentazione dei propri stati mentali (Decety e Chaminade, 2005).
    I recenti studi fMRI dimostrano che la ToM può essere dissociata da altre funzioni cognitive e che questa performance è collegata ad un network cerebrale socio-cognitivo specializzato, che include la corteccia pre-frontale mediale e la corteccia cingolata (MPFC), la corteccia cingolata posteriore e le regioni temporo-parietali bilaterali (Gallagher e Frith, 2003; Saxe, 2006; Walter, 2009).

Teoria della mente cognitiva e Teoria della mente affettiva

    La variabilità dei risultati, spesso contraddittori, nei diversi compiti tesi a valutare la Teoria della Mente, suggerisce che questi compiti coinvolgano processi differenti. Se ad esempio le performance di false credenze richiedono una comprensione cognitiva della differenza tra ciò che sa colui che parla e ciò che è noto a colui che ascolta, i compiti di ironia e di faux pas necessitano anche una comprensione empatica dello stato emozionale da parte dell’ascoltatore. La Teoria della Mente sarebbe così formata da due sottoparti: aspetti affettivi e aspetti cognitivi. Una simile distinzione tra questi due aspetti è stata suggerita da Brothers e Ring (1992), che hanno distinto tra aspetti “caldi” e “freddi” della Teoria della Mente.
     Con il concetto di ToM cognitiva si intende, dunque, la capacità di riconoscere lo stato mentale dell’altro in termini di pensiero e con ToM affettiva la capacità di riconoscere lo stato mentale in termini di emozione (che in letteratura si trova spesso definito come empatia).
      Studi su pazienti con un danno prefrontale ventromediale localizzato hanno fornito delle prove per quanto riguarda la dissociazione tra gli aspetti affettivi e cognitivi di Teoria della Mente. E’ stato, infatti, riportato che i pazienti con lesioni in quest’area hanno scarse performance in compiti che valutano la ToM affettiva (faux pas e ironia), ma non in compiti che riguardano quella cognitiva (credenze di secondo ordine). Inoltre, le performance dei pazienti in compiti di ToM affettiva sono correlate positivamente con le loro abilità empatiche, indicando che l’abilità di fare rappresentazioni affettive dello stato mentale dell’altro è associato all’abilità di essere empatici (Shamay-Tsoory et al., 2005). Da questi risultati è stato ipotizzato che i deficit comportamentali di individui con un danno ventromediale localizzato potrebbero essere imputati ad una ToM affettiva deficitaria, piuttosto che ad un deficit di Teoria della Mente generalizzato.

Psicopatologia e Teoria della Mente

    La compromissione della Teoria della Mente si riscontra in differenti quadri clinici attraverso un’ampia gamma di anomalie comportamentali. Nello specifico in condizioni psicopatologiche quali:

spettro dei disturbi autistici (Baron-Cohen et al., 1985; Baron-Cohen, 1995): in esso è evidente un deficit specifico nella comprensione delle credenze in quanto cause psicologiche del comportamento, che non è riconducibile a difficoltà linguistiche, ignoranza della causalità o incapacità di sequenziamento. Baron-Cohen, Leslie e Frith (1986) hanno mostrato che i bambini autistici riportavano risultati molto scadenti nel riordinare vignette che richiedevano la comprensione della credenza, mentre non avevano difficoltà nel mettere in sequenza storie che riguardavano desideri o scopi di un personaggio. Essendo tale difetto cognitivo presente sin dalla nascita, si è ipotizzato che questi bambini non sviluppino affatto una Teoria della Mente. Alla base di questo disturbo vi sarebbe il mancato sviluppo del meccanismo meta-rappresentazionale, sottostante la costruzione di una Teoria della Mente. (Camaioni, 1995).

Schizofrenia: è una delle patologie che mostrano una Teoria della Mente deficitaria e che ha risvegliato maggior interesse negli ultimi anni. Riguardo al confronto tra la mentalizzazione propria delle persone autistiche e quella degli schizofrenici, Frith suggerisce una distinzione. Infatti, il difetto cognitivo dell’autismo è presente nei bambini fin dalla nascita e, conseguentemente a ciò, il corso complessivo del loro sviluppo sarà anomalo; mentre nei pazienti schizofrenici esso insorge come effetto dell’esordio psicotico, sebbene essi possano aver mostrato segni di anomalie sociali già durante l’infanzia.

Quadri sindromici da lesione frontale (Rowe et al., 2001).

Demenza frontotemporale, demenza di Alzheimer e i disturbi dementigeni in generale (Gregory et al., 2002; Snowden et al., 2003).

Disturbo bipolare (Kerr et al., 2003).

Normale invecchiamento (Maylor et al., 2002).

Disturbi di Personalità. 

Difficoltà di mentalizzazione durante la terapia sono state riscontrate  nella maggior parte dei soggetti affetti da Distrurbi della Personalità (DDP), primariamente con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità (BPD) (Bateman e Fonagy, 2006). Bateman e Fonagy (2006) ritengono che un evento di vita traumatico possa produrre un parziale temporaneo collasso della funzione interpretativa interpersonale ed avanzano prove empiriche e cliniche a conferma di questa loro ipotesi. La capacità di mentalizzazione risulta compromessa in una percentuale significativa di soggetti che hanno vissuto un’esperienza traumatica, soprattutto nell’infanzia (non si è potuto sviluppare un attaccamento sicuro con il caregiver). Bateman e Fonagy (1991, 2006) sostengono che i pazienti borderline che hanno subito maltrattamenti infantili eviteranno difensivamente di avere un pensiero circa i propri stati mentali e quelli degli altri, dal momento che questa cognizione è costata loro un vissuto di sofferenza insostenibile durante l’esperienza di maltrattamento. Il collasso della mentalizzazione di fronte a un trauma comporta una parziale perdita di consapevolezza della relazione esistente tra realtà interna e realtà esterna (Fonagy e Target, 2000). Quando si perde la capacità di mentalizzazione, inoltre, si osserva la ricomparsa di quelle modalità di percezione della realtà psichica che hanno preceduto la conquista di questa abilità nello sviluppo normale (Fonagy et al., 2000).

 Teoria della Mente e schizofrenia

    La letteratura degli ultimi quindici anni si è molto interessata a valutare e comprendere il deficit di Teoria della Mente nei pazienti schizofrenici.  
    Secondo il modello di Frith et al. (1992) la caratteristica principale dei processi di mentalizzazione è rappresentata dall’abilità di ragionare su come noi ci rappresentiamo il mondo, i nostri pensieri e le nostre azioni. Tale caratteristica viene definita meta-rappresentazione ed è la base dell’autoconsapevolezza (Langdon et al., 1997).    Il modello di Frith et al. individua almeno tre tipi di deficit di meta-rappresentazione nelle persone affette da schizofrenia:
1) disturbo della consapevolezza dei propri obiettivi: corrisponde alla difficoltà di muoversi e di parlare intenzionalmente e di manifestare intenzionalmente i sentimenti. In particolare, i sintomi negativi sarebbero dovuti all’incapacità di produrre azioni intenzionali e quelli positivi all’incapacità ad inibire un comportamento inadeguato.
2) Disturbo della consapevolezza delle proprie intenzioni: è rappresentato dalla percezione da parte della persona che le sue azioni non siano causate da essa stessa, ma da forze esterne. Ciò è alla base di deliri di influenzamento, pensieri intrusivi ed allucinazioni uditive, cioè la percezione dei propri pensieri o del linguaggio sub-vocale vissuta come estranea a sé.
3) Disturbo della consapevolezza delle intenzioni altrui: comporta la produzione di inferenze sbagliate sulle intenzioni degli altri. Si ha la comparsa di deliri di riferimento (le persone percepiscono erroneamente da parte degli altri la volontà di comunicare con loro), deliri di persecuzione (le persone percepiscono erroneamente da parte degli altri la volontà di attaccarli), linguaggio incoerente (incapacità di fornire correttamente le informazioni sugli argomenti di cui si discute) e di allucinazioni uditive in terza persona (informazioni erroneamente percepite come provenienti da una fonte esterna).
    A partire dalle ricerche condotte da Frith (1996)  sull’abilità di mentalizzare, sono molteplici gli studi (Stuss et al., 2001a; Stuss et al., 2001b; Nauta et al., 1973) che hanno analizzato i deficit della ToM nel disturbo schizofrenico, e sono molte le ricerche che si sono concentrate su come questa abilità possa essere correlata ad aspetti clinici, psicopatologici e cognitivi.


Deficit di Teoria della Mente: stato o tratto?

     Determinare se i deficit di Teoria della Mente riscontrati nella patologia schizofrenica riflettano una variabile di stato oppure di tratto ha rilevanti implicazioni per capire se la compromissione della Teoria della Mente contribuisca allo sviluppo e al mantenimento del disturbo o sia il prodotto della fase acuta di malattia (Harrington et al., 2005).
     In accordo con il modello di Frith (1992), la compromissione della ToM si manifesta con l’esordio della malattia durante un episodio psicotico acuto. Infatti, pazienti con sintomatologia acuta riportano difficoltà nell’esecuzione dei compiti di ToM, mentre pazienti in assenza di sintomatologia produttiva mostrano prestazioni nella norma, ad indicare la capacità di mentalizzare come variabile di stato piuttosto che di tratto (Frith, 1996; Corcoran et al., 1995; Drury et al., 1998; Pickup e Frith, 2001).
  Nell’ ultimo decennio, tuttavia, questa tesi è stata messa in discussione da alcuni studi, tra cui quello di Janssen (2003), che valuta la performance ToM con un compito di false credenze e con l’Hinting Task (Corcoran et al., 1995) (che richiede la comprensione del significato sottointeso), in pazienti schizofrenici in remissione e nei loro parenti sani. I risultati hanno mostrato che i pazienti avevano prestazioni peggiori rispetto ai soggetti di controllo e che i parenti sani effettuavano una performance intermedia tra i due gruppi. Questo dato suggerisce che una performance scadente ai test di Teoria della Mente riflette la presenza di un deficit di tratto non solo nei pazienti psicotici in remissione, ma anche nei loro parenti. Da queste osservazioni si dedurrebbe che i deficit di Teoria della Mente non siano esclusivamente legati alle manifestazioni cliniche della schizofrenia.  Nasce l’ipotesi che tale alterazione sia un possibile endofenotipo della patologia. I risultati ottenuti da questi studi sottolineano, inoltre, che il deficit di ToM possa essere un tratto della malattia e per questo motivo non subisce alterazioni durante uno stato di remissione.
     Un’ulteriore linea di ricerca si basa sui modelli di continuità della psicosi. Questi studi hanno osservato le alterazioni della ToM in soggetti con elevata schizotipia  e in parenti sani di pazienti affetti da schizofrenia, partendo dall’assunto che ci sia un continuum tra schizofrenia e schizotipia (Langdon e Coltheart, 1999).
Il dibattito sulla definizione del deficit di Teoria della Mente come stato o tratto è tutt’oggi aperto. Recentemente, accanto ad evidenze che suggeriscono che il deficit di ToM sia esclusivamente di stato o di tratto sono emersi dei dati che suggeriscono che possa esserci un effetto di tratto-stato mediato (Marjoram et al., 2006).

Specificità del deficit di Teoria della Mente

     Uno degli interrogativi cruciali nella ricerca scientifica sulla Teoria della Mente nell’ambito della schizofrenia riguarda se i deficit a carico di questa facoltà siano specifici o se siano conseguenza di una più generale compromissione cognitiva dell’attenzione, delle funzioni esecutive, della memoria, dell’intelligenza ecc. (e.g., Mitchley et al., 1998; Langdon et al., 2001; Pickup e Firth, 2001). Infatti è noto come il funzionamento sociale sia estremamente influenzato dai deficit cognitivi di base e come un potenziamento di queste aree modifichi anche aspetti relazionali.
Il deficit di Teoria della Mente sembra essere specifico. Infatti, vi sono prove consistenti che non possa essere spiegato né dalla presenza di psicopatologia, né da una compromissione delle funzioni esecutive o da una compromissione cognitiva generale (Langdon et al., 2001; Pickup e Firth, 2001; Brune, 2003). Questi risultati appaiono robusti, indipendentemente dal compito di Teoria della Mente utilizzato.


Teoria della Mente e sintomatologia

    L’eterogeneità della sintomatologia propria della patologia schizofrenica fa sì che, anche quando alcuni studi riescano a trovare un’evidenza di un impairment di ToM, non sia possibile identificare dei sintomi specifici, o dei cluster di sintomi, con cui il deficit stesso sia associato (Harrington, 2005). Probabilmente nei soggetti schizofrenici sintomi diversi possono essere collegati a differenti deficit nelle abilità di mentalizzazione (Mazza et al., 2001).
    Un buon numero di studi sull’ argomento ha utilizzato una suddivisione della sintomatologia schizofrenica che individua tre categorie (riprese da Liddle, 1987):
1) povertà psicomotoria;
2) distorsione della realtà;
3) disorganizzazione.
    Si è osservato che, per cause sottostanti diverse, in pazienti appartenenti a tutte e tre le categorie era presente una ToM deficitaria. Tuttavia, i pazienti con sintomatologia prevalentemente negativa erano quelli più compromessi, presentando inoltre un impairment  più marcato delle capacità sociali (Langdon et al. 1997; Mazza et al. 2001).
    Per quanto riguarda i sintomi di distorsione della realtà,  Corcoran et al. (1995), avvalorando l’ipotesi di Frith (1994) secondo cui i sintomi di ideazione paranoidea siano legati alla prestazione di Teoria della Mente, hanno evidenziato che i pazienti che presentavano tali sintomi, ma non sintomi comportamentali, erano compromessi nelle abilità di ToM.  
     D’altra parte, però, Walston et al. (2000) hanno riportato che i pazienti con deliri di persecuzione presentavano una prestazione di Teoria della Mente nella norma. In linea con quest’osservazione, Pickup e Frith (2001) hanno suggerito che alcuni pazienti con schizofrenia paranoidea siano in grado di sopperire al deficit di Teoria della Mente facendo ricorso all’intelligenza generale. I risultati, in ogni caso, sono controversi in quanto altri studi non confermano l’ esistenza di una relazione tra la presenza di ideazione paranoide e i deficit di ToM (Langdon et al. 2001; Mazza et al. 2001, Greig et al. 2004).
   Infine, un buon numero di studi ha indicato che pazienti con una grave disorganizzazione del pensiero e del linguaggio sono deficitari nei compiti di Teoria della Mente (Sarfati et al. 1997a, 1997b, 1999; Sarfati e Hardy-Baylè 1999). Tuttavia, Mazza et al. (2001) hanno riportato che pazienti con sintomi di povertà psicomotoria presentano una performance ai test di ToM (costituiti da compiti di false credenze di primo e secondo ordine) molto più scarsa rispetto a quella dei soggetti con disorganizzazione del pensiero e del linguaggio, per cui anche schizofrenici senza sintomi di disorganizzazione sono compromessi in tale abilità.
     In generale, possiamo dire che abilità deficitarie di mentalizzazione sono maggiormente presenti nei pazienti con sintomatologia negativa o comportamento disorganizzato e sono parzialmente indipendenti dal funzionamento cognitivo (Brune et al., 2009).


Teoria della Mente e deficit dell’espressività non verbale  nella schizofrenia

    Tutte le ricerche degli ultimi anni sul comportamento non verbale dei pazienti schizofrenici hanno dimostrato che questa tipologia di pazienti può essere significativamente distinta dai soggetti non affetti sulla base di una ridotta espressività (Pitman et al., 1987; Troisi, 1999). Per esempio: studi microanalitici dei movimenti facciali che utilizzano il Facial Action Coding System (FACS; Friesen e Ekman, 1978) hanno rivelato che i pazienti schizofrenici possiedono una ridotta espressività facciale. Tenendo conto, da una parte, dell’associazione tra espressività non verbale e social cognition e, dall’altra, del collegamento tra social cognition e competenza sociale nella schizofrenia, è possibile che la riduzione nell’espressività prosociale dei pazienti sia associata alla loro scarsa comprensione degli stati mentali altrui (Brune et al., 2009). Lo studio di Brune et al. (2009) è interessato a rispondere alla domanda se la ridotta espressività non verbale nella comunicazione sociale (comportamento prosociale) dei pazienti schizofrenici possa essere collegata a una povera competenza sociale e alla difficoltà di comprendere gli stati mentali altrui. Pertanto, questo studio parte dalle ipotesi che i pazienti affetti da schizofrenia differiscano dai controlli sani in termini di espressività non verbale e neurocognizione (sociale e non), e che, avendo un comportamento prosociale povero, mostrino ridotte abilità sociali nelle interazioni e abilità socio-cognitive deficitarie, rispetto a pazienti con espressività non verbale inalterata. D’altra parte, ci si aspetta che non differiscano necessariamente dai controlli sani rispetto agli altri domini neurocognitivi (non sociali). In linea con gli studi precedenti (Troisi et al., 1998; Brune et al., 2008), è stata riscontrata nei pazienti una ridotta espressività non verbale, se paragonati ai controlli sani, durante un’intervista di valutazione. Come previsto, i pazienti si sono dimostrati anche meno abili rispetto ai controlli nel comprendere gli stati mentali altrui. Inoltre, i pazienti con maggiori difficoltà nella Teoria della Mente mostravano non solo più anormalità comportamentali, ma anche un’espressività non verbale, che normalmente serve per facilitare l’interazione, ridotta. Questo studio dimostra che i pazienti con i livelli minori di espressività non verbale hanno una peggiore performance nei compiti di false credenze, se comparati con i pazienti la cui espressività non verbale era risultata nella norma durante l’intervista di valutazione. Sono state poi riscontrate differenze significative tra pazienti con comportamento prosociale alto e basso rispetto ad aspetti della psicopatologia e alle abilità sociali. Questi risultati dimostrano, come già accennato, che il deficit di mentalizzazione è il migliore predittore per una scarsa competenza sociale e ha un maggiore potere di spiegazione rispetto al funzionamento esecutivo o al quoziente intellettivo.
    Le cause della ridotta espressività non verbale nei pazienti schizofrenici non sono ancora del tutto chiare. La spiegazione più semplicistica è che sia una diretta conseguenza della gravità dei sintomi negativi, e questo sarebbe parzialmente consistente con le conclusioni di questo studio (Troisi et al., 1991). Tuttavia, la maggiore correlazione negativa è stata trovata tra l’espressività non verbale e la disorganizzazione cognitiva, e non con il livello dei sintomi negativi. Inoltre, studi precedenti (Sarfati et al., 1999) hanno dimostrato che la mentalizzazione è maggiormente deficitaria nei pazienti con sintomatologia disorganizzata. Risulta, quindi, possibile che scarse abilità di Teoria della Mente contribuiscano al ridotto uso di espressività non verbale nei pazienti. La riduzione di questi segnali nella comunicazione a sua volta contribuisce in parte alla gravità dei sintomi negativi e alle difficoltà di valutazione riportate dai clinici durante le interviste.

Teoria della Mente e deficit cognitivi

      La maggioranza degli studi ha valutato la correlazione tra Teoria della Mente e Quoziente Intellettivo come misura cognitiva (QI valutato tramite WAIS-R, NART o BPSV), mentre solo alcuni studi hanno valutato la correlazione tra ToM e specifiche funzioni cognitive.
     Per quanto riguarda il primo gruppo di studi (Brune 2003, 2005; Mitchley et al., 1998; Mazza et al., 2001), le ricerche hanno riscontrato che, nonostante il QI contribuisca alla performance di Teoria della Mente, esso non è in grado da solo di spiegare il deficit in quest’area di funzionamento nella popolazione schizofrenica.
     Anche in riferimento alla correlazione della prestazione di Teoria della Mente con le funzioni cognitive di base i risultati non sono definitivi. In uno studio di Greig et al. (2004) si osserva che le capacità di ToM (misurate con l’Hinting Task) sono fortemente associate ai compiti di memoria verbale e alle funzioni esecutive (valutate con il Wisconsin Card Sorting Test, WCST), mentre non è risultata significativa l’associazione con l’attenzione sostenuta (misurata con il Continuous Performance Test, CPT). Secondo l’autore tale risultato potrebbe significare che i soggetti che hanno un deficit di ToM riescano ad essere, momentaneamente, attenti allo stimolo, ma siano incapaci di processare l’informazione in modo da fornire una buona prestazione. Il ruolo delle funzioni esecutive nel predire la performance di Teoria della Mente in pazienti schizofrenici è stato confermato da uno studio di Langdon (2001), in cui la performance di Teoria della Mente (valutata con compiti di false credenze) è risultata correlata alla performance di planning (misurata con il test della Torre di Londra) .
   Infine, Brune (2005) ha osservato che i pazienti, nello svolgere il Theory Of Mind Picture Sequencing Task, commettono errori quasi esclusivamente nelle domande specifiche riguardanti la ToM e non nelle Reality Questions (domande di controllo), in cui non è necessario mettere in gioco una componente di mentalizzazione. Se ne desume che i deficit di Teoria della Mente non possano essere legati unicamente al deficit di attenzione, caratteristico della patologia schizofrenica.
    Studi recenti hanno scoperto che una performance di Teoria della Mente deficitaria può essere legata a deficitarie prestazioni nelle funzioni esecutive (Brune, 2005), nella memoria verbale (Greig et al., 2004) e nell’attenzione (Randall et al., 2003). Di conseguenza, la presenza di un impairment neuropsicologico potrebbe essere piuttosto un fattore confondente nell’analisi dei deficit socio-cognitivi, sia per i pazienti che per i parenti, in particolar modo per la Teoria della Mente. Basandosi sui dati disponibili attualmente, possono essere formulate due maggiori ipotesi che spieghino l’impairment di Teoria della Mente nei pazienti schizofrenici e nei loro parenti. La prima assume che questo impairment sia collegato ai deficit neuropsicologici presenti sia nei pazienti sia nei parenti (Janssen et al., 2003). Questa ipotesi implica che, controllando statisticamente gli effetti della performance neuropsicologica, le differenze nei compiti di ToM tra pazienti e controlli sani dovrebbe diminuire. Questo effetto potrebbe diventare ancora più forte tra i parenti, poiché essi mostrano un grado intermedio di impairment. Secondo la seconda ipotesi, invece, il deficit di Teoria della Mente nei pazienti e nei parenti è considerato un tratto distinto, indipendente dal funzionamento neuropsicologico (Frith e Corcoran, 1996).
    Recentemente i risultati dello studio di Anselmetti et al. (2009) hanno confermato la presenza di un deficit di Teoria della Mente nei genitori di pazienti schizofrenici non direttamente correlato ad altri aspetti del funzionamento neurocognitivo. Questo studio replica i risultati di Brune (2005): i pazienti e i genitori non risultano avere una performance deficitaria nelle risposte date alle Reality Questions (domande di realtà) del Theory Of Mind Picture Sequencing Task di Brune. Viene quindi validata l’ipotesi di uno specifico impairment di processazione di Teoria della Mente nella schizofrenia, piuttosto che di un generico deficit nell’abilità di processazione. Lo studio di Anselmetti et al., inoltre, estende questa ipotesi ai parenti di pazienti schizofrenici.

Testare la Teoria della Mente

 Il  gold standard dei test per valutare la comprensione degli stati mentali altrui è il  false-belief task, frequentemente utilizzato per valutare la Teoria della Mente durante il periodo dello sviluppo, nell’autismo e nella schizofrenia (Perner et al., 1989; Wimmer e Perner, 1983). Consiste nel testare la capacità di un soggetto di capire che gli altri possono avere delle credenze errate rispetto ad un evento di cui lui ha una conoscenza corretta (Dennett, 1978). Serve per valutare sia false credenze di primo ordine (il soggetto deve fare inferenze su una situazione prevedendo lo stato mentale di un altro che compie un’azione) sia di secondo ordine (che testano la comprensione delle convinzioni di un’altra persona relative a quelle di una terza).
    Il classico Sally and Anne Test (Wimmer e Perner, 1983) crea sperimentalmente una situazione in cui il soggetto deve distinguere tra il fatto di sapere che un oggetto è stato nascosto da uno dei due personaggi (Anne) in assenza dell’altro (Sally) e il fatto che uno dei due personaggi (Sally) non abbia questa conoscenza. I bambini sotto i quattro anni hanno, di solito, una cattiva performance, perché per rispondere adeguatamente occorre possedere la capacità di meta-rappresentazione degli stati mentali. Il Sally and Anne Test nasce come test di indagine sulle false credenze di primo ordine, ma è stato esteso anche a quelle di secondo ordine.
    Per comprendere false credenze di ordine superiore (per esempio: ironia, metafore, faux pas) occorrono capacità cognitive di Teoria della Mente più sofisticate (Perner e Wimmer, 1985). E’ stato dimostrato che per capire le metafore occorre almeno la comprensione delle credenze di primo ordine di Teoria della Mente, mentre per l’ironia occorre anche la comprensione delle credenze di secondo ordine, perché questo processo è connesso con l’abilità di andare al di là del significato letterale e di inferire quello che chi parla vuole realmente intendere (Happé, 1994; Langdon et al., 2002).
   Con gli adulti con condizioni psicopatologiche è stato utilizzato materiale visivo vario (per esempio: vignette che rappresentano semplici storie contenenti bluff, bugie innocenti, gaffes, fraintendimenti, faux pas, ironia) per testare le abilità di Teoria della Mente (Happé, 1994). Un altro esempio è l’Hinting Task Test (Corcoran et al., 1995) composto da dieci vignette, che includono indizi sociali che il soggetto deve interpretare. Il test  misura l’abilità del soggetto di inferire la reale intenzione di un personaggio dietro una richiesta indiretta.
    Nel corso degli anni il materiale visivo per testare la Teoria della Mente è stato modificato, anche allo scopo di non interferire con la valutazione di altre abilità, come memoria, attenzione, intelligenza globale e fluenza verbale. Un problema riscontrato nei primi studi era che i pazienti schizofrenici non solo avevano una scarsa performance ai compiti di Teoria della Mente, e quindi fallivano nella risposta a domande sull’intenzionalità o sugli stati d’animo altrui, ma spesso commettevano errori anche nelle risposte alle domande di controllo (domande sulla realtà) (Frith e Corcoran, 1996; Drury et al. 1998). Perciò sono stati introdotti compiti di controllo di difficoltà simile, ma che non implicavano la necessità di fare riferimento agli stati mentali, anche per comprendere meglio la specificità dei deficit di ToM, rispetto ad altri aspetti deficitari come la working memory, l’attenzione, le funzioni esecutive ecc. (Frith e Corcoran, 1996; Sarfati et al., 1997; Langdon et al., 1997; Drury et al. 1998; Brunet et al., 2003).
Negli studi sulla schizofrenia, i compiti di false credenze di primo e secondo ordine che richiedono una risposta verbale sono i più diffusi, ma c’è una significativa discrepanza tra i due in termini di validità discriminante. Sembra che i paradigmi che valutano le false credenze di secondo ordine siano i più adatti per le ricerche nella popolazione schizofrenica, poiché sono in grado di discriminare tra pazienti e gruppi di controllo, una volta controllato per il QI (Harrington et al., 2005). Esistono anche due forme non verbali di false-belief task di primo ordine ed entrambe mostrano validità discriminante. Una delle più utilizzate è stata sviluppata da Langdon e consiste in un set di prove di sequenziamento di immagini (4 immagini per ciascun compito). Questo test è in grado di distinguere tra pazienti schizofrenici e gruppi di controllo, indipendentemente dall’abilità di sequenziamento e dal QI dei soggetti. Inoltre, in questa prova è stata osservata una prestazione scadente anche in soggetti non clinici che presentano alti livelli di schizotipia (Langdon e Coltheart,1999). Il false-belief task non verbale di Sarfati et al. (1997), l’Intention Inference Task, invece, consiste in una storia da riordinare con tre finali diversi. Il compito richiesto è quello di scegliere quale delle tre carte-finali completi la sequenza. Delle opzioni possibili solo una è corretta. Nel 2000 Sarfati e colleghi ne hanno ideato anche una versione con stimoli verbali.
Un altro paradigma impiegato è il cosiddetto deception task. Anche in questo caso è possibile distinguere storie di primo e secondo ordine. Questo compito di detezione dell’inganno consiste nel presentare al paziente una storia in cui un personaggio fornisce ad un altro delle informazioni scorrette (quindi cerca di manipolare le sue credenze e le azioni che ne conseguono) per raggiungere un proprio obiettivo. Il soggetto testato deve spiegare per quale motivo il personaggio ha fornito all’altro delle informazioni scorrette. Nelle storie di secondo ordine, invece, il personaggio ignora le informazioni ricevute perché sa che l’altro sta tentando di ingannarlo. Analogamente al false-belief task, la validità discriminante del deception task di secondo ordine è migliore di quella dei compiti di primo ordine.
    Inoltre, Baron-Choen et al. (1997, 2001) hanno sviluppato un test più realistico, l’Eye Test, in cui il compito dei soggetti è di inferire lo stato mentale altrui osservando la regione degli occhi, che però è solamente raffigurata. Questo test è stato ideato per la valutazione della ToM affettiva.
     Un ultimo esempio è il Theory Of Mind Picture Sequencing Task (Brune, 2003), che utilizza come materiale di somministrazione 6 storie, ognuna composta da 4 vignette da riordinare. Vi sono 3 tipi di storie:
1) uno scenario in cui due personaggi cooperano;
2) uno scenario in cui un personaggio ne imbroglia un altro;
 3- uno scenario in cui due personaggi cooperano per ingannare un altro personaggio.
     Le vignette vengono presentate coperte e in ordine sparso. Al soggetto esaminato viene richiesto di scoprirle e riordinarle nel minore tempo possibile per formare una sequenza di eventi che abbia un senso logico. Per ogni storia viene calcolato il tempo di riordinamento e vengono attribuiti 2 punti se la prima e la quarta carta sono in ordine corretto e 1 punto se la seconda e la terza carta sono corrette (punteggio di riordinamento). Inoltre, il soggetto deve rispondere ad alcune domande che hanno l’obiettivo di valutare la comprensione degli stati mentali, di diversa complessità, dei personaggi delle storie. Tra queste domande ve ne sono alcune che fungono da item di controllo, perché coinvolgono solo l’abilità generalizzata di processazione di informazioni fisiche (domande di realtà). I risultati consistono nel tempo di riordinamento, nel punteggio totale di riordinamento e nel numero di risposte corrette alle domande. Si attribuisce un punteggio totale con un massimo di 59 punti (il punteggio totale di riordinamento è al massimo 36 e il punteggio alle domande 23).
    Nello specifico le variabili considerate in questo studio sono:
Comprensione delle False Credenze di Primo Ordine: riconoscimento che un personaggio possiede una falsa credenza sul mondo;
Comprensione delle False Credenze di Secondo Ordine: comprensione della falsa credenze di un personaggio sulla credenza di un altro personaggio;
Comprensione delle False Credenze di Terzo Ordine: comprensione della credenze di un personaggio sulla falsa credenza di un altro personaggio su una sua credenza;
Comprensione della Realtà: è la realtà fisica delle cose, cosa nella realtà accade (domanda di controllo);
Comprensione della Reciprocità: la reciprocità è l’ attendere che una nostra aspettativa (per esempio, in termini di una ricompensa materiale) venga soddisfatta da un altro individuo di cui noi sappiamo qualcosa;
Comprensione dell’ Inganno: comprensione dell’ intenzione di un personaggio di ingannarne un altro (comporta una Teoria della Mente di primo ordine);
Comprensione della Detezione dell’ Imbroglio: comprensione del riconoscimento dell’intenzione di ingannare di un personaggio da parte di un altro (comporta una Teoria della Mente di secondo ordine);
Punteggi Medi delle risposte al questionario: media di tutti i punteggi del questionario composto da domande di Teoria della Mente;
Riordinamento Medio: media dei 6 punteggi di riordinamento delle vignette.

 Teoria della Mente e famigliarità

     La Teoria della Mente è considerata attualmente come una parte del più vasto concetto di social cognition, che a sua volta va ad influenzare il comportamento sociale dei pazienti schizofrenici. Infatti, avere difficoltà in diversi domini del funzionamento sociale, come la comunicazione, le relazioni interpersonali, i ruoli famigliari e lavorativi, è tipico dei pazienti schizofrenici. Recentemente è stato ipotizzato che l’impairment di ToM sia un tratto presente sia  nei pazienti schizofrenici, sia nei parenti non affetti da psicosi (Anselmetti et al., 2009).
      Anche se la Teoria della Mente sembra essere un’abilità innata nell’uomo (Baron-Cohen, 1999), nondimeno per essere sviluppata in tutte le sue potenzialità richiede molti anni di esperienze sociali (Ruffman et al., 2002). E’ stato ipotizzato che le interazioni sociali genitore-bambino, specialmente nel caso della madre, abbiano un ruolo fondamentale nello sviluppo cognitivo e sociale del bambino. Per questa ragione studiare i genitori è importante, perché sono i parenti che impattano maggiormente sul futuro sviluppo dei pazienti (Docherty, 1994).
      Come già accennato, il comportamento sociale include differenti abilità integrate, come la Teoria della Mente, la percezione dei segnali sociali, il riconoscimento delle espressioni facciali, l’attenzione, la memoria, il decision making e la motivazione. Molte di queste componenti della social cognition sono deficitarie nei pazienti schizofrenici (Frith e Corcoran, 1996). Per quanto riguarda i parenti di primo grado, sono state riscontrate disfunzioni in diverse competenze sociali (Toomey et al., 1999), ma nessuno studio ha ancora valutato la loro influenza sul comportamento sociale quotidiano. Toomey et al. (1999) hanno riscontrato un deficit nella percezione sociale di indizi non verbali nei parenti di pazienti schizofrenici, se confrontati con controlli sani. I parenti di primo grado mostrano un impairment nel ricordare e riconoscere visi (Conklin et al., 2002) e nel monitoraggio visivo (visual scanpath) di facce che esprimono emozioni (Loughland et al., 2004). Ricerche precedenti hanno anche dimostrato che i parenti mostrano deficit misurabili negli aspetti pragmatici del linguaggio espressivo (Mazza et al., 2008), così come nell’abilità di verbalizzare le emozioni (Marjoram et al., 2006). Altri studi hanno utilizzato l’Eye Test (Baron-Choen et al., 2002), ideato per la valutazione della ToM affettiva, con risultati inconsistenti: Irani et al. (2006) hanno trovato che i parenti di pazienti schizofrenici mostravano una performance intermedia tra i pazienti e i controlli sani, mentre Kelemen et al. (2004) non hanno riscontrato alcuna differenza. Lo studio di Janssen et al. (2003) ha scoperto una relazione significativa tra il grado di parentela e il tipo di risposta data all’Hinting Task (Corcoran et al., 1995). Anche in questo caso i pazienti effettuavano la performance peggiore, mentre i parenti di primo grado si situavano intorno a valori intermedi.
    La ricerca nell’ambito della social cognition e della Teoria della Mente presenta ancora molti punti che non sono stati indagati a sufficienza. Una questione riguarda il fatto che, mentre per i pazienti le performance deficitarie ai test si traducono in deficit di social cognition e reali difficoltà nella vita di tutti giorni, per i parenti non affetti questo non avviene e, nella maggior parte dei casi, si situano nel range di normalità. Inoltre, la questione se la performance ai compiti di ToM sia una funzione indipendente o rifletta piuttosto una disfunzione di altre abilità cognitive, come attenzione, memoria e intelligenza globale, è ancora oggetto di dibattito. Di conseguenza, l’impairment nella cognizione sociale potrebbe essere influenzato anche per i parenti dall’impairment nella performance neuropsicologica, che andrebbe ad influenzare le abilità da testare.
     Come già ampiamente dimostrato, l’efficienza neuropsicologica globale è significativamente correlata alla performance in diverse aree del funzionamento quotidiano, come il comportamento sociale. Quindi esiste una relazione significativa tra specifici domini cognitivi e funzionali (Green et al., 2000; Bowie e Harvey 2008). Poiché è stato dimostrato il ruolo delle abilità neuropsicologiche nello sviluppo di abilità di social cognition corrette, è interessante osservare come molte di esse siano deficitarie anche nei parenti di primo grado non affetti.     Una spiegazione alternativa dei deficit di ToM nei pazienti schizofrenici e nei loro parenti potrebbe essere che essi dipendano almeno in parte da sottostanti alterazioni neuropsicologiche, presenti sia nei pazienti schizofrenici che nei loro parenti non affetti (Kremen, 1994; Mitchley et al. 1998; Langdon et al. 2001; Pickup e Frith 2001; Brune 2003a, 2005a; Mazza et al., 2001). La letteratura suggerisce che i parenti di primo grado, inclusi i genitori, mostrino una performance neuropsicologica deficitaria se comparata a quella dei controlli sani. Infatti, studi famigliari riguardanti la performance neuropsicologica hanno riscontrato un significativo impairment nella maggior parte dei domini cognitivi nei parenti di primo grado (Snitz et al., 2006). In alcuni studi il grado di impairment dei parenti risultava essere intermedio tra quello dei pazienti e quello dei controlli sani (Keefe et al., 1994; Egan et al., 2001). Tuttavia, i risultati appaiono ancora contraddittori, probabilmente perché gli studi differiscono per parentela (fratelli, genitori o figli) e compiti assegnati.
     Un dato interessante è che i domini cognitivi che risultano compromessi sono soprattutto quelli che supportano una ToM deficitaria nella schizofrenia (Brune, 2005; Greig et al., 2004).  Recentemente i risultati dello studio di Anselmetti et al. (2009) hanno confermato la presenza di un deficit di Teoria della Mente nei genitori di pazienti schizofrenici non direttamente correlato ad altri aspetti del funzionamento neurocognitivo. Questo risultato suggerisce una differenza nel contesto cognitivo in cui si sviluppa l’impairment di Teoria della Mente.
     Lo studio di Anselmetti et al. replica un risultato ottenuto da Brune (2003), utilizzando il medesimo materiale testale, il Theory Of Mind Picture Sequencing Task, per valutare le abilità di ToM:  i pazienti e i genitori non risultano avere una performance deficitaria nelle risposte date alle Reality Questions (domande di realtà). Le Reality Questions coinvolgono solo la generale abilità di processare informazioni fisiche e sono incluse nel test come item di controllo.
A partire da questo dato è stata avanzata l’ipotesi di uno specifico impairment di processazione di Teoria della Mente nella schizofrenia, piuttosto che di un generico deficit nell’abilità di processazione, presente sia nei pazienti sia nei parenti.
     In conclusione, il deficit neurocognitivo e di Teoria della Mente sono tratti presenti sia nei pazienti, sia nei parenti, ma non sono strettamente correlati nel determinare la performance di Teoria della Mente in assenza di malattia. La piena espressione fenotipica della malattia nei pazienti potrebbe, quindi, essere un elemento critico nella spiegazione delle differenti relazioni tra ToM e funzionamento cognitivo in generale. Questi risultati aprono la questione se nei parenti altre funzioni compensino il deficit di Teoria della Mente.

Trattamenti riabilitativi

I farmaci antipsicotici hanno compiuto notevoli progressi negli ultimi decenni. Tuttavia, i pazienti schizofrenici, pur traendo notevoli benefici dall’intervento farmacologico, spesso mostrano un grave impairment nei domini della comunicazione, interazione interpersonale e funzionamento sociale, su cui i farmaci non hanno impatto. Proprio per questo la riabilitazione psico-sociale dovrebbe avere un ruolo cardine tra i trattamenti riabilitativi standard (Baustillo et al., 2001). Inoltre, gli studi di Bellack e Pilling et al. (2002) dimostrano che le strategie riabilitative che si concentrano direttamente sugli specifici deficit cognitivi presenti nella schizofrenia non ottengono i risultati sperati. E’ preferibile, quindi, focalizzare il trattamento sui deficit funzionali associati all’impairment cognitivo.
    La Teoria della Mente incide profondamente sulle abilità sociali dei soggetti schizofrenici e il suo deficit caratterizza in modo specifico la sindrome disorganizzativa della schizofrenia. Prove sperimentali ad oggi confermano la possibilità di ridurre  tale impairment. Infatti, è stato dimostrato che alcuni pazienti schizofrenici ottengono una migliore performance nei test di Teoria della Mente che richiedono di interpretare delle vignette, se la procedura testale coinvolge la verbalizzazione e forza il paziente a manipolare esplicite informazioni circa lo stato mentale altrui (Sarfati et al., 1999; 2000). Questi dati dimostrano la reale possibilità di migliorare le abilità di Teoria della Mente dei pazienti schizofrenici e hanno incoraggiato lo sviluppo di nuovi training focalizzati sull’attribuzione di stati mentali agli altri. Questo tipo di approccio è nato con lo scopo di avere una ricaduta anche sulla social cognition.
     Anche Sarfati et al. (2000) ipotizzano che il deficit di ToM possa migliorare in certe condizioni. Per testare questa ipotesi si è deciso di esaminare la prestazione di pazienti schizofrenici in un compito non verbale di Teoria della Mente, comparandola con quella ottenuta ad un compito che prevedeva invece verbalizzazione. Ci si aspetta un miglioramento apprezzabile nei pazienti con disorganizzazione del linguaggio e del pensiero, i quali spesso hanno povere abilità di Teoria della Mente, che derivano possibilmente da un deficit di processazione del contesto (Sarfati et al., 1997, 1999). Al contrario non si attende alcun miglioramento per i pazienti con una spiccata sintomatologia negativa, poiché sembrano soffrire di un deficit di ToM maggiormente diffuso, associato ad un impairment cognitivo maggiormente generalizzato (Corcoran e Frith., 1993). Il training è stato portato avanti con una nuova versione del Character Intention Task (Sarfati et al., 1997), costruito per indagare l’attribuzione di intenzionalità nella schizofrenia. Questo test è costituito da brevi sequenze di vignette ideate per illustrare, in un set di tre fumetti, l’azione di un personaggio, la cui motivazione è facilmente riconoscibile. Il compito consiste nell’abbinare alla storia la più logica conclusione a scelta tra quattro, nel minor tempo possibile. Tra le quattro conclusioni possibili solo una è corretta, due sono distrattori e non hanno alcun legame plausibile con la storia e con l’intenzionalità del personaggio, l’ultima raffigura un’azione contrastante senza nessuna pertinenza con la storia. E’ stato usato un totale di ventotto storie figurate. Il Character Intention Task è stato utilizzato sia come compito non verbale (le storie erano rappresentate esclusivamente da vignette a fumetti), sia come compito verbale (le storie erano descritte da brevi frasi). Infatti, è stato ipotizzato che l’introduzione di materiale verbale avrebbe aiutato i soggetti ad estrapolare le caratteristiche rilevanti della storia per inferire l’intenzionalità del personaggio. Infatti, questa modifica, rispetto alla classica versione esclusivamente non verbale, basta a migliorare notevolmente la prestazione dei pazienti. Diversamente da quanto ipotizzato inizialmente, i pazienti con i maggiori miglioramenti nel compito verbale non sono quelli con disorganizzazione del pensiero e del linguaggio. I risultati, inoltre, dimostrano che i soggetti che non traggono vantaggio dall’introduzione di materiale verbale sono anche quelli con una storia di malattia più lunga.
    Diversi autori hanno utilizzato anche materiale videoregistrato per valutare come i pazienti schizofrenici interpretassero gli stati mentali dei personaggi (Corrigan e Green, 1993). Questo tipo di training è stato utilizzato anche per valutare le abilità di problem solving interpersonale (Bedell et al., 1998) e il giudizio sociale (Cramer et al., 1992). Questi studi rivelano che l’utilizzo di video che raffigurano scene di interazione tra due o più persone può costituire materiale di training appropriato per potenziare la comprensione del comportamento dei personaggi da parte dei pazienti e per stimolare l’inferenza sullo stato mentale altrui.
   Lo studio di Kayser et al. (2006) utilizza video scelti appositamente per focalizzarsi specificatamente sul training delle abilità di Teoria della Mente. Il materiale consiste in dodici brevi scene estrapolate da film, che rappresentano interazioni tra due o più personaggi. I differenti stati mentali presenti nei vari spezzoni includono: credenze, disappunto, sorpresa, ostilità, ironia e fraintendimento. Sono state scelte esclusivamente scene in cui le intenzioni dei personaggi fossero chiaramente identificabili e comprensibili indipendentemente dall’intero film. Ogni video aveva una durata compresa tra i venti e i settanta secondi e poteva essere visionato anche più volte, a secondo della necessità riportata dai pazienti. Durante ogni seduta il clinico cerca di attirare l’attenzione sul contesto generale di ogni scena, per poi passare all’analisi del comportamento e dell’intenzionalità dei personaggi. Ogni ipotesi viene discussa da tutto il gruppo e il clinico ha semplicemente un ruolo di guida e di moderatore. I partecipanti sono incoraggiati a riflettere sull’intenzionalità dei personaggi, al fine di fare delle ipotesi e supportarle con prove adeguate. Ogni seduta dura circa un’ora e comprende l’analisi di sei scene. Questo studio si basa sull’ipotesi che il training di Teoria della Mente induca un miglioramento diretto sulla capacità di inferire gli stati mentali altrui, sull’abilità di comunicazione e sulla disorganizzazione e indiretto sulla sintomatologia generale. Infatti, nella valutazione effettuata alla fine del training, i pazienti hanno mostrato minori segni di disorganizzazione e miglioramenti nelle abilità di comunicazione e di attribuzione di intenzionalità agli altri. Questo risultato conferma che l’incapacità di attribuire stati mentali agli altri, tipica della schizofrenia, sia da considerare, almeno in parte, rimediabile, e questo dovrebbe stimolare ulteriori ricerche in questo campo. D’altra parte, però, alla fine del training non sono stati riscontrati miglioramenti nella sintomatologia generale. Sicuramente la brevità del periodo di training è il maggiore limite per l’osservazione di cambiamenti nello stato globale dei paziente. Esistono anche tecniche riabilitative alternative che si concentrano maggiormente sui meccanismi cognitivi deficitari alla base di percezione e interpretazione dei segnali ambientali, come ad esempio il Metacognitive Training (MCT, Moritz et al., 2005). Il Metacognitive Training si basa su due componenti fondamentali: la knowledge translation (dove vengono spiegati i bias cognitivi e la loro relazione con la patologia schizofrenica) e la dimostrazione delle conseguenze negative dei bias cognitivi (composta da esercizi focalizzati sui singoli bias cognitivi). Ai pazienti viene insegnato a riconoscere e controbattere i bias attraverso l’uso di strategie alternative che li aiuteranno ad arrivare ad appropriate inferenze schivando le “trappole cognitive”. Il MCT si basa sulla discussione di gruppo, in modo da fornire ai pazienti esperienze correttive in un’atmosfera supportava.


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