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Blog fondato da Guglielmo Campione www.guglielmocampione.it

La mente può trovarsi in stati diversi , il sonno ,il sogno, la trance,l'ipnosi,l'attenzione fluttuante,
l'estasi,la preghiera,la meditazione,la creatività artistica e scientifica,
l'esplorazione dello spazio e degli abissi marini,l'agonismo sportivo.

Stati della mente pubblica lavori originali o già pubblicati con il consenso degli autori, interviste e recensioni di libri e promuove eventi culturali e scientifici.

LA PACE COME ASSENZA DI CONFLITTI E IL MEDITERRANEO ANCORA INSANGUINATO : DAL CONFLITTO SOCIALE AL GRUPPO TERAPEUTICO di Guglielmo Campione,



                                                                                                                                                     



Viviamo in un epoca in cui , abbandonate le grandi ideologie,sembra rialimentarsi l’illusione di un pace vista come condizione idealizzata d’assenza di conflitti e non come momento d’ indispensabile sintesi e composizione delle diversità . 
Una fantasìa onnipotente e autarchica d’assenza di ciò che è altro da noi che, di fatto, conduce a una sua eliminazione (l'ignorare è eliminare) apparentemente pacifica e priva di assunzioni di responsabilità.
In questo modo si evita l’elaborazione del lutto, termina che etimologicamente deriva dal verbo latino "labor, labersis, lapsus sum, labi", che vuole dire "faticare con sofferenza e dalla preposizione "e" che appunto indica separazione, uscita da quello stato .
Fornari, nell'insuperata opera del 1966 "Psicoanalisi della guerra" parlò di elaborazione paranoica del lutto: il lutto non è più sofferenza per la morte della persona cara ma uccisione del nemico illusoriamente pensato come uccisore.L'originario terrificante sentimento interno depressivo emergente sotto forma di senso di colpa per la morte dell'oggetto amato viene eluso pensando che la responsabilità non sia propria ma di un nemico esterno.
Questo significa che nessuno - neanche il pacifista militante-può aspettarsi che l'abbandono delle verità assolute si realizzi spontaneamente se non attraverso un atto di faticosa (labor)dolorosa , autoimposta ma indispensabile rinuncia...
La complessità crescente del reale spaventa e induce un sempre più diffuso timore di annichilimento dell'identità che esita di converso in un ingenuo, per quanto comprensibile, tentativo di riduzionismo.
Non vedere è essenziale per questa specie di agnosìa.
Vedere è infatti sapere .
Orazio (Epistole 1, 2),nella lettera all'amico Massimo Lollio, lo invita a "sapere aude", osare sapere, farsi carico, assumere la responsabilità del rischio di sapere.

Non vedere è, dunque, ignorare.
Mi viene in mente, per restare alle vicende degli ultimi giorni del Mediterraneo insanguinato , che non vedere i cadaveri degli immigranti raccolti ormai a centinaia dalle reti dei pescatori siciliani durante le loro consuete giornate di pesca, permette di non farsi carico in alcun modo , se non con proclami politici, dell’ennesimo dramma causato dal non vedere l’altro e di non elaborare il lutto di queste perdite.
Così pare che, lì dove la salute possa consistere nell’aver faticosamente conquistato la libertà di poter fluttuare dalla considerazione dei propri desideri e bisogni individuali alla necessaria condivisione della realtà con gli altri , nella nostra epoca ci si trovi invece "costretti" ,"obbligati" (nel senso del latino compulso) a stare o da una parte o dall’altra . O attestati-cioè- su posizioni ultraindividualistiche o identificati con la massa nel conformismo gregario dell’"Ululare con i lupi" che impedisce la solitudine dell’essere individuo differenziato : non si pensa, si fa come fanno tutti . Ci si nasconde nell’anonimato e nell’illusione dell’essere potente quanto la massa così come ci ha insegnato Freud nei suoi scritti sociali Psicologia delle masse e analisi dell'io, Totem e tabù,Il disagio della civiltà. Mosè e il monoteismo.
Nel suo scritto del 1784 «Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?», Kant riprende il sapere aude di Orazio e ne dà una celeberrima interpretazione illuministica: "L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!"
Dialogando idealmente con Kant noi pensiamo però che l'autonomia di giudizio e di ricerca , pur permanendo un valore essenziale , può essere raggiunta anche grazie al confronto e all'aiuto dell'altro.La Dipendenza è una cosa , l'interdipendenza un'altra !
Da questo punto di vista, infatti, il gruppo terapeutico può essere il luogo , la palestra della Polis in cui è possibile formare ,allenare e rendere saldo un sè che possa permettersi invece il rischio- ma anche il lusso- di interfacciare le sue diverse sfaccettature, dando diritto di cittadinanza ai diversi aspetti del proprio mondo interno -prima-e quindi , in un secondo momento, all’esistenza dell’altro da sé.
L'unica legge assoluta che regola un' aggregazione sociale di tal fatta è il riconoscimento dell'Altro

PSYCHO SEMITICS : CONSIDERAZIONI SULLA CULTURA EBRAICO HASSIDICA di Giovanni Savino Fotografo italiano a Manhattan.


What do I know about Hasidic Jews? Not much.
I mostly buy my photographic goods from them!
I do that at Adorama and B&H, the two stores run by orthodox Jews, with the best assortment and the best prices in New York City.
What do I have in common with Hasidic Jews?
Not much.
Well…I have a fairly unkempt beard and long, curly hair but I was unmistakably born and raised Catholic in my native Italy.
There is, perhaps, a faint mnemonic oral history connection in my childhood with Jews, if we really want to dig deep.
My grandfather, during World War Two, was imprisoned by the Nazi and sent to a labor camp, where he befriended several Jews and nearly died with them, until my grandmother, a very strong willed woman, together with the wives of other prisoners, was able to organize an escape for their men, just a couple of nights before their husbands were to be shipped to Germany.
So, as a child, I did hear stories about those Jewish friends from my grandfather.
Nevertheless, my education and life are certainly a world apart from the Hasidic community, but for some reason, over the years, I have always had a fascination, not to mention a strong visual attraction for their very private, ancient looking society. Plus, I have a very keen culinary interest for certain kosher recipes, first amongst them: matzah ball soup.
Trying to make the best of a bitterly cold winter in New York City, last week I started taking photograph in a Hasidic neighborhood. With utmost respect for their right to privacy, I walked around one of their Brooklyn enclaves just a few hours before the start of Sabbath.
Everybody was extremely busy, rushing to finish all business before sundown. Entire families were often running down the streets, buying flowers, doing the last shopping, trying to find a parking spot, making the last calls on their cell phones.You could feel this preparation as a powerful energy in the air. It made me think of the rest of the city, so far away, on that Friday afternoon, as if it was a different planet altogether.
Black clad men, boys and children started playing strange optical games in my lens, as if they were multiple reflections and projections of the same subject. I was rapidly loosing the notion of time, place and history, surrounded as I was by a perfect replica, or rather a vivid, realistic extension of a distant culture still being lived and written with strength and determination, black on white, just like those black coats on the snow covered sidewalks.I soon realized that my bewilderment was not due to one of my usual psychosomatic reactions. Today it was more of a Psycho-Semitic one…
At sundown, a deafening siren blasted in the air, unequivocally announcing the beginning of the Sabbath and almost acoustically wiping off the working week to prepare bodies and souls for the next twenty-four hours of prayer, rest and reflection.
I took a few more frames in front of a Temple, while the last men and children were rushing to enter, quite oblivious to me and to my photography. Then I got on the subway and went back to the 21st century.
My experience, for peripheral and marginal it may appear, triggered and augmented both my respect and my interest for this community.
I admit that, as an American in a brutally divided and divisive America, the close-knit social tissue of the Hasidic fascinates me.
Obviously a lot of my fascination also has to do with the visuals of it.
I admire the tenacity and the political statement of dressing today, even here in New York City, in exactly the same way they dressed centuries ago in the remotest regions of Eastern Europe.
And I guess I admire their tenacity in being able to “resist” the world at large, a world luring the majority of us towards an apparently inevitable consumerism and relativism, in all aspects of who we are, how we look and how we behave with each other, a world pasteurizing our individuality and our many ancestral cultural identities into a monochromatic mush. 
I know too little about the Hasidic community, the strongpoint of their belief, their history and their customs to have a realistic opinion about their lifestyle but I can certainly make some initial comparisons based on previous research I have conducted in different fields of oral tradition.
For example, I cannot but immediately notice that every single manifestation of oral tradition I have investigated in the past twenty years is by now either extinct or has gone through major changes due to the influences of modern society.
I could perhaps find a small number of exceptions to this rule, mostly in the oral tradition of Haiti, which in my personal experience is particularly resilient and difficult to erode.
Everything else, no matter how geographically remote or how strongly preserved in the name of faith, magic, healing or cultural identity, is inexorably mutating at a fast pace, succumbing to modernization.
In a world where corporations have more power and leverage than governments, in a world where socializing is less and less practiced and promoted, where family and society rules are bent, voided or ignored to accommodate financial interest and greed on all continents, the Hasidic tenacity certainly is, to say the least, appealing to someone like me who for all his life has tried to research and preserve the oral tradition of our ancestors. 
 Without doubt I am interested to hear from someone who considers television, computers and the technological orgy of our times as a negative presence in their children lives and want to avoid it, replacing it with more organic ways of learning such as books, music, socializing. Someone who has the determination to refrain, at least a day of the week, from switching on or off anything at all !Of course, I can immediately see controversial issues and oxymoron too, as they are an inescapable fact of every society.Some critics of these ultra-orthodox Jews, after hearing about my interest and fascination for the Hasidic community have hurriedly warned me about several things (and here I merely quote their words, refraining from a personal opinion, which my ignorance is still not allowing me to express).They told me about the abusive treatment towards Hasidic women, segregated from the society of men as mere child bearers, who cannot even show their hair in public nor look at a man in the face, they told me about the double standards, apparently part of some Hasidic men sexual life, about the brutal and blindfolded activism of certain ultra-orthodox groups, especially in Israel.
Well, I definitely need to know more.And, mind you, I don’t really care to reach any personal decision about what is right or wrong. When you investigate a phenomenon from a cultural and a visual angle, the “rights and wrongs” are just numbers in an equation. My short field trip to Brooklyn, the other day, rapidly convinced me that for a researcher and visual explorer of oral traditions like myself, something like the Hasidic community would be a greatly interesting topic to look into.It is my hope, with utter unobtrusiveness, respect and determination, to establish some contacts within the New York Hasidic community. I would like to photograph a series of portraits of community elders as well as slices of everyday life, commerce, prayer and celebrations.Considering I don’t know anybody in that community yet, I’ll need to do a lot research and brainstorming alone, at first, to envisage a viable field strategy for my new project. 
I’ll probably do that after enjoying a matzah ball soup.

Il Doppio,il Sosia, lo specchio e i Gemelli nel libro fotografico di Giovanni Savino. " di Guglielmo Campione

                                                                                            





Mi sembra di vedere il mio
Io attraverso una lente che lo
rifranga e moltiplichi; tutte
le figure che si agitano
intorno a me sono altrettanti
Io ed io mi adiro del loro
modo di agire….»

E.T.A. Hoffmann






Parlare del "Doppio" consente di intraprendere un viaggio introspettivo affascinante ma anche  tortuoso e sfuggente . 
L’uomo, infatti, è sempre stato affascinato da sè stesso , ed ha affrontato spesso nell'arte l’analisi di sé,o dei suoi “sé”, come Giovanni Savino nel suo lavoro "Psychophotography .
E' un Savino inedito ,più cerebrale e ludico al contempo,  all'inseguimento delle vertiginose possibilità della tecnologìa digitale e dell'inconscio come dimensione non solo patita ma anche giocata esperimentata. E' un Savino psichedelico ma consapevole che il contatto con il mondo interno delle sue fantasie richiede più impegno, dolore, sofferenza ed abnegazione
della conoscenza della realtà esterna, perchè non possiamo usare la razionalità  e perchè lo specchio ci confronta con immagini talvolta poco piacevoli o troppo lontane dell’idea che abbiamo di noi stessi.
E' lo Specchio che la fa da padrone in questa produzione fotografica . Noi sappiamo quanto in ogni cultura, civiltà, popolo,  l’Ombra, il Sosia, lo Specchio – intesi come proiezione autonoma del nostro Io – abbiano sempre rappresentato il magico, infuso un alone di paura e
mistero intorno a sé.
Basti pensare allo stesso termine latino “imago-inis”, il cui significato non è solo legato alla sfera visiva, ottica, ma anche alla “parvenza”; difatti, la parola “imago” può essere tradotta come “eco, visione, sogno, apparizione”, con evidente allusione alla sfera del magico, al sortilegio,all’amore per se stessi.
C'è anche il terrore di non riuscire a vedere la propria immagine riflessa nello specchio, segno di malvagità, di demoniaco, tratto distintivo delle storie sui vampiri.
Il tema del doppio  è  un «apologo sulla condizione umana», da sempre dilaniata fra Bene e Male, rettitudine e corruzione, ingenuità e conoscenza.
Nella prismatica tematica del doppio, compaiono differenti sfumature:  può manifestarsi come la nostra ombra divenuta autonoma – come nella storia di Peter Schlemihl di Adalbert Von Chamisso, o nella fiaba L’ombra di Andersen; doppia è anche la nostra immagine allo specchio – si pensi alla storia di Erasmo nelle Avventure della notte di San Silvestro di Hoffmann; ma forse, nell’immaginario comune, il doppio si esplicita appieno nella figura del sosia, come appare  nell' Elisir del diavolo di Hoffmann, ne Il Sosia di Dostoevskij, fino allo studio chiave sul Perturbante di Freud, “unheimlich”, termine che Freud stesso descrisse come intraducibile in altre lingue. Esso è l’antitesi dell’aggettivo “heimlich”,“confortevole, tranquillo”, che deriva da “heim”, “casa”, quindi “unheimlich” è ciò che, all'opposto, suscita spavento,sospetto, inquietudine, perché non noto, familiare, quotidiano.
Nel linguaggio corrente con la parola “perturbante” s’indica una peculiare situazione, un disagio, uno sdoppiamento, in riferimento ad una perdita di identità, ad un’alienazione, e tale disagio riguarda il soggetto, l’Io, il suo inconscio.
In questa galleria fotografica giochiamo con l'autore e la sua leggerezza , quasi come bambini che si divertono a fare giochi di parole, indovinelli, enigmi, rebus ma talvolta ci turbiamo per l’emergere improvviso di una figura di sosia, un’invasione dell’inconscio nel campo del conscio, un “ritorno del rimosso”, che, spesso, assume i tratti del demoniaco, perché, a ben guardare, c'è  come sottolineava Freud «il manifestarsi dell’angoscia della morte, la quale, scansata in quanto lutto e dolore, si ripresenta nel reale, con la beffarda e ghignante figura del Sosia». Ciò che è escluso, rimosso, insomma il familiare, diventa tormento e perturbante.
Il doppio è la parte “ALTRA” di noi, ciò che siamo ma non conosciamo razionalmente, ciò che  siamo ANCHE .
Alla base della creazione , e quindi anche alla base della creazione artistica come nel caso di Savino,c'è sempre un’individuo indivisibile primordiale  (dal termine lat. individuus, composto da in- negativo e dividuus da dividere; che ricalca il termine gr. atomon composto da a- negativo e temno = tagliare),   il quale, per essere percepito, ebbe bisogno di un taglio, della duplicità gemellare, della divisione ma anche del rapporto e dell'interazione,  del gioco e dell’immagine speculare.
I Gemelli che Savino nomina, Cosma e Damiano,  rappresentano talvolta la lotta che l'essere umano deve compiere per superare le opposizioni e le antinomie interne talaltra sono assolutamente simili, doppi, copie l’uno dell’altro, e in questo caso esprimono l’unità di una dualità equilibrata, l’armonia interiore ottenuta attraverso la riduzione del multiplo all’uno.
Superato il dualismo, la dualità non è altro che apparenza o gioco di specchi.
In fondo la storia del Dr Jekyll e Mr. Hyde non è che un bellissimo apologo sulla condizione umana: ognuno di noi è il Dr. Jekyll e, naturalmente, ognuno di noi è Mr.Hyde, anche se non lo diamo a vedere o facciamo fatica ad ammetterlo o addirittura del tutto inconsapevoli. Chi non ha mai pensato o almeno desiderato una volta nella vita di poter dare sfogo a
emozioni, sentimenti oppure fantasie, piaceri strani, brutali, perversi, ma di sentirsi impossibilitato a farlo per rispetto di una legge giuridica, di una legge morale o per rispetto della propria reputazione? Non somigliamo a quei personaggi pirandelliani, rinchiusi nella prigione della maschera ?
Quindi il “doppio” che cosa è in fondo? E' l’alter ego che esiste in ognuno di noi, che ci accompagna discreto e silenzioso, lungo tutta la nostra esistenza, per poi emergere, riaffiorare, apparire nei sogni ogni notte .
La paura e desiderio  ci parlano del rapporto di ognuno di noi con il suo inconscio ,e talvolta dietro un profondo desiderio si cela il timore di scoprire qualcosa di sconvolgente su noi stessi.
 Stevenson, fa profetizzare a Jekyll che “ l’uomo non è autenticamente uno, ma è autenticamente due […] e alla fine sarà riconosciuto come una mera aggregazione di soggetti multiformi, incongrui e indipendenti fra di loro” e che tutte queste identità convivono forzatamente,aspettando di sopraffarsi per emergere.

Marco Margnelli come lo ricordo. Medico e ricercatore della coscienza di Pierangelo Garzia da NEUROBIOBLOG

Sono trascorsi cinque anni dalla scomparsa di Marco Margnelli (Milano,1939-2005). Uno studioso che ha saputo anticipare molti degli interessi attuali delle neuroscienze e, soprattutto, relativi all’indagine neuropsicologica degli stati di coscienza. Si dichiarò sempre ateo, anzi agnostico, ma l’esperienza del sacro – incarnata e vissuta nel corpo di estatici e stigmatizzati – lo attrasse e lo coinvolse profondamente. Tutta la dimensione borderline, non in senso patologico, della mente (compresi quelli che vengono definiti fenomeni “paranormali”) erano per lui oggetto di attenzione ed indagine scientifica. E il suo interesse riguardo gli stigmatizzati era nell’ottica della medicina psicosomatica: se la mente è in grado di produrre simili lesioni nel corpo, forse riusciremo a scoprire anche come farle regredire. A beneficio dei pazienti con disturbi e alterazioni di carattere psicosomatico. Definiva tutta la storia dell’indagine del paranormale come “archivi dell’illusione”, nel senso che quanti studiavano tali fenomeni, focalizzavano la propria attenzione sul fenomeno più che sulla psiche e l’organismo di chi “viveva” tale fenomenologia. A Margnelli interessava invece l’approccio neuropsicologico e antropologico al cervello e al corpo di estatici, mistici, sensitivi, guaritori. Di tutta quella popolazione ignorata e trascurata dalla scienza, da cui, forse, c’era da apprendere qualcosa sulla natura della coscienza e, in particolare, dei rapporti mente-corpo. Se tali individui sostengono di vivere certe esperienze – era il suo parere – vediamo come, in che modo e in base a quali correllati neuropsicologici ciò si verifica.
Marco Margnelli aveva due anime: quella del ricercatore e quella del clinico. Svolgeva l’attività di medico di famiglia, di psicoterapeuta, ma non smetteva mai di pensare e agire come ricercatore. Era nato ricercatore, come neurofisiologo in seno all’Università di Milano e al Cnr (fece studi su sonno e fase Rem con un nome storico delle neuroscienze, Giuseppe Moruzzi). Il fatto di essere poi uscito dall’Università e aver fatto il medico di base, non sminuì le sue capacità di ricercatore. Anzi, secondo me le allargò e completò. Sarebbe finito a svolgere il lavoro di ricercatore di laboratorio, mentre così Margnelli fece pure ricerche sul campo. Adottò metodi da medico-antropologo.
Ugualmente avvenne con Giorgio Gagliardi, anch’egli medico di base, ipnologo, psicoterapeuta e ricercatore. Margnelli e Gagliardi crearono a Milano il Centro studi e ricerche e sulla psicofisiologia degli stati di coscienza che da piccolo consesso locale di appassionati e studiosi degli stati di coscienza, divenne in pochi anni noto in Italia e all’estero, producendo ricerche, pubblicazioni e prendendo parte a convegni italiani e stranieri. I grandi filoni del Centro furono gli studi sui sensitivi, guaritori, estatici, stigmatizzati. In quegli anni, Ottanta e Novanta, Margnelli e Gagliardi divennero i grandi esperti di questo tipo di fenomenologia, consultati, invitati a convegni, e intervistati a più riprese.
Gli studi sui veggenti di Medjugorie di Margnelli e Gagliardi hanno costituito un modello di studio medico-antropologico. Così come per gli stigmatizzati, indagine che seguiva sostanzialmente tre fasi: raccolta della testimonianza del soggetto e di quanti lo seguivano (accoliti o medici che fossero); raccolta dei dati psicologici e clinici del soggetto (avvalendosi di test psicoproiettivi, dell’inventario multifasico di personalità Minnesota e di analisi di laboratorio); verifica strumentale della veridicità del soggetto (impiegando, ad esempio, il lie detector, la cosidddetta “macchina della verità”, e l’elettroencefalografo). Giorgio Gagliardi, vicepresidente del Centro, in quegli anni divenne tra l’altro un grande esperto di lie detector, tanto da essere interpellato in ambito medico-legale e invitato come consulente in svariate trasmissioni televisive.Ad alcuni tale approccio poteva apparire eccessivamente positivista e strumentale, tuttavia tale metodologia consentì di acquisire conoscenze scientifiche sui veggenti e mistici che prima non esistevano. Chiarendo – ben prima di George Lapassade, entologo e psicosociologo francese, con diverse altre attitudini intellettuali, studioso della “transe” e degli stati modificati, con il quale Margnelli ebbe contatti e scambi - il versante “naturale” della dissociazione. Compreso il fatto che mistici e stigmatizzati non dovessero necessariamente essere classificati come “isterici”. Includere tali soggetti nell’ambito della fenomenologia isterica, secondo Margnelli era non soltanto riduttivo, ma non aggiungeva praticamente nulla alla comprensione della psicofisiologia dell’esperienza del sacro. George Lapassade ebbe comunque anch’egli un ruolo importante nell’introdurre a livello accademico lo studio degli stati di coscienza: ricordo la sua collaborazione col sociologo delle religioni Pietro Fumarola dell’Università di Lecce, e gli studi sugli stati di coscienza associati al fenomeno della “taranta”.
Marco Margnelli è sempre rimasto, di fondo, un ricercatore, un neurofisiologo. Non si separò mai dalla sua formazione accademica, pur occupandosi di temi che, all’inizio, ai suoi colleghi universitari, apparvero stravaganti: la trance ipnotica, l’estasi mistica, le droghe psicoattive, gli stigmatizzati, i sentitivi, i guaritori. L’idea di Margnelli era: se queste cose esistono e sono diffuse in varie epoche e culture umane, le dobbiamo studiare con i metodi della scienza. Non vi può essere una teoria globale della coscienza, se non cercando di comprendere gli stati “altri” del cervello e della mente. Il suo approccio fu un misto tra quello dell’antropologo e quello del medico, con una “ciliegina” del laboratorista.
Se poteva non faceva mai mancare riscontri sperimentali, persino analisi di laboratorio sui soggetti studiati, e ovviamente consenzienti. La prima fase era quello dell’antropologo: studiamo il soggetto nel suo ambiente. La seconda fase: se il soggetto è collaborativio, sottoponiamolo a tutta una serie di test e verifiche, che potevano andare dai test psicologici, agli inventari di personalità, al lie detector (la cosiddetta macchina della verità, ma più che altro per rilevare le reazioni psicofisiologiche), alle analisi bioumorali. Qualcuno ha utilizzato un ossimoro per definire questo tipo di approccio, che nella sua sinteticità rende abbastanza l’idea dell’atteggiamento di Margnelli riguardo i soggetti che si trovò ad analizzare e studiare: “empatia critica”.
Margnelli era indubbiamente poliedrico, dotato di molte altre attitudini e qualità, oltre a quella del ricercatore. Era un ottimo oratore. Apparentemente timido e riservato, si trasformava ogni volta che prendeva la parola in pubblico. Aveva un tono basso di voce, e non faceva alcuno sforzo, deliberatamente, per elevarlo. Difatti, era il pubblico a prestargli attenzione, e regolarmente veniva colpito per la sua padronaza dell’argomento, dalla lucidità e dalla precisione dei suoi termini. Sarebbe stato un valido docente universitario ma, per una serie di vicissitudini, si era trovato a fare il medico mutualista, l’ipnologo e lo psicoterapeuta. Salvo recuperare le sue qualità di docente in varie occasioni e, in particolare, nei corsi, molto apprezzati, che teneva presso l’Associazione medica italiana per lo studio dell’ ipnosi (Amisi) di Milano.
In ogni caso, si dichiarò e ritenne regolarmente uno “scienziato”. In questa ottica va vista la sua appassionata ricerca sugli stati di coscienza: non certamente l’hobby di un medico ex neurofisiologo Cnr, ma bensì il lavoro di uno studioso che, pur all’esterno dell’ambiente accademico, era riuscito a mantenere alta la propria professionalità, conoscenza della materia e capacità di utilizzare strumenti e standard della ricerca accettata e condivisa.
Disponeva di un’innata attitudine all’insegnamento, una straordinaria capacità di oratore, di coinvolgere il pubblico con relazioni o conferenze che abbinavano i suoi aneddoti di ricercatore, i puntuali riferimenti tratti dalla letteratura scientifica, intuizioni lessicali sue proprie.C’era molto da imparare da Margnelli. Ed infatti, non sono mai mancati gruppi di persone, di ogni età, attorno a lui e attorno alla sua attività. Parecchi studiosi, ricercatori, ma anche studenti (sia di medicina, psicologia, filosofia o altro) che impostarono, ad esempio, la propria tesi di laurea sulle ricerche realizzate da Margnelli. Rimanendo magari in seguito nel suo ampio studio a fare praticantato, sia per la professione che per le ricerche sugli stati di coscienza. Aveva la capacità di dialogare con i giovani, cogliendo pure i suggerimenti e le indicazioni che da essi gli venivano.
Fu un ottimo divulgatore: oltre ai suoi libri, scrisse parecchi articoli per varie riviste di divulgazione scientifica. Collaborò ad esempio alla prima rivista italiana di divulgazione scientifica: Sapere di Giulio Maccacaro. E al progetto iniziale di Riza Psicosomatica di Morelli e Masaraki. Prese spesso parte a interviste televisive – ricordo le troupe tv nel suo studio – e a programmi tv, in particolare, fino all’ultimo, dopo essersi trasferito a Roma, alla serie Miracoli condotta da Pietro Vigorelli ed Elena Guarnirei su Rete 4.
Certo, alcune volte si faceva coinvolgere da attività non al livello della sua serietà professionale e preparazione scientifica, ma il suo atteggiamento è sempre stato di apertura e collaborazione. Non facendo mancare le sue puntualizzazioni e le sue critiche, se era il caso. Ma, di base, non si negava.
Ho incontrato Marco Margnelli – che conoscevo già per i suoi libri e per le sue ricerche – alla fine degli anni Ottanta. Frequentandolo poi quotidianamente nella prima metà degli anni Novanta. Se devo richiamare alla mente una sua immagine, lo vedo nel suo studio medico, alla sua scrivania cosparsa dagli oggetti più svariati, comprese le immancabili sigarette e la pipa per i momenti di raccoglimento e riflessione. Il suo amore per la razionalità, coniugata però all’intuizione del momento, i suoi commenti sempre precisi e illuminanti, a volte sagaci, magari accompagnati dalla sua risata un po’ roca, da fumatore, tutta particolare. Anche quando ci riuniva a casa sua, nei pressi dell’Arena, per parlare di progetti, mentre cucinava il suo piatto forte, derivato dalle ascendenze valtellinesi della sua famiglia d’origine: i pizzoccheri.
Lo rivedo nel suo studio medico. Alle sue spalle la libreria, con una parte dei suoi libri, appunti, protocolli di ricerca e faldoni di documentazione per i suoi articoli e libri. Di quello studio in via Villoresi 5 a Milano, zona Navigli, che fu precedentemente di suo padre, anch’egli medico. Su un lato della stanza, alla destra di Margnelli, l’ampio divano ricoperto da un pesante telo di velluto rosso e nero, su cui faceva distendere i pazienti per le sedute di psicoterapia ed ipnosi.
E l’eterno via vai di gente. Al mattino e nella fascia serale i pazienti mutualistici. Nel pomeriggio i pazienti che seguiva da specialista.
Il telefono che, per un motivo o per l’altro, squillava ininterrottamente. Specie quando organizzavamo incontri, convegni, conferenze. Oppure per la visita, anche estemporanea, di studiosi in transito per Milano. Anche perché lo studio medico di Margnelli era pure sede del Centro studi e ricerche sulla fenomenologia degli stati di coscienza, denominazione chilometrica per dire che, in quella sede, ma anche sul campo, ci si occupava di ricerche inerenti gli stati modificati di coscienza.
Tanto quelli indotti in modo “naturale” (sonno e sogno, ipnosi, estasi, trance, meditazione), che quelli indotti da sostanze psicoattive. Riguardo alle ricerche sul campo, in altri luoghi presso i quali di volta in volta Margnelli veniva invitato, vi fu ad esempio una sperimentazione controllata, a cui egli prese parte con altri psicoterapeuti ed “entronauti”. Era una delle prime volte che un gruppo di ricercatori italiani – psicologi, psichiatri, psicoterapeuti – sperimentavano su se stessi gli effetti dell’ayahuasca, la cosiddetta “liana della morte” o “telepatina”. Si tratta di una pianta (liana) amazzonica da cui viene ricavata una bevanda che induce esperienze allucinogene e dissociative.
Ricordo che Margnelli ne ebbe, al momento, pesanti vissuti emozionali. Raccontò in seguito che era stato come se si fossero aperti i rubinetti di tutta la sofferenza che si portava dentro. In quegli anni, attraverso Margnelli e la Società italiana per lo studio degli stati di coscienza (Sissc), che egli presiedeva, ebbi pure modo di incontrare ed intervistare, nel corso di un convegno a Rovereto, Albert Hofmann, il chimico farmaceutico (ex Sandoz) scopritore dell’Lsd, in seguito studioso e autore di vari saggi sul ruolo delle sostanze psicoattive nelle culture umane. L’intervista venne pubblicata sul primo numero della rivista Altrove della Sissc, che Margnelli ideò e battezzò con lo psicoanalista Gilberto Camilla, succeduto in seguito alla direzione, e il ristretto gruppo dirigente dell’associazione. Di quel gruppo facevano parte giovani ricercatori di grande preparazione e intelligenza , tra cui ricordo, solo per citarne un paio, Giorgio Samorini, etnobotanico e studioso di storia, cultura e scienza delle sostanze psicoattive, Antonio Bianchi, medico anestesista e tossicologo. Furono gli anni in cui Margnelli venne riconosciuto come maestro e pioniere indiscusso di questi studi in Italia, ed egli era giustamente orgoglioso e motivato ad intraprendere nuovi iniziative culturali, ricerche, incontri.
Il Centro studi diretto da Margnelli a Milano, presso il suo studio, era un porto di mare. Svolgevamo incontri serali, in genere a metà settimana, in un clima cameratesco. Si apprendevano sempre nuove cose e, nel medesimo tempo, ci si divertiva. Lo scambio e il confronto con studiosi di varia formazione e discipline, accomunati dalla ricerca sugli stati di coscienza, a volte molto vivace, era sempre una esperienza stimolante. Transitavano studiosi e personaggi di tutti i generi, anche dall’estero, alcuni francamente stravaganti e bizzarri. Il divano nello studio di Margnelli, su cui si stendevano i pazienti in analisi o in seduta ipnotica, capitava divenisse un improvvisato giaciglio per chi, compreso il sottoscritto, faceva tardi dopo le riunioni e non poteva rientrare in treno alla propria dimora, fuori Milano.
Marco amava la compagnia, quanto la solitudine. Alternava momenti di grande allegria e battute salaci, ad altri in cui si manifestava la sua vena maliconica, introversa. Accettava sempre di incontrarsi e scambiare qualche chiacchiera, specialmente all’ora di pranzo e cena, oppure per un caffé nei baretti di via Villoresi, appena fuori lo studio medico. Quella era una zona adorabile, sui Navigli. Era una Milano dei vecchi tempi, un clima di quartiere, in cui tutti conoscevano tutti, figuriamoci “il dottore”.
In ogni caso, appena entravi in studio, capivi subito, dalla sua espressione e dal suo rispondere a monosillabi, se Marco aveva voglia di chiacchierare, oppure era immerso nella scrittura di qualche lavoro scientifico, di qualche nuovo articolo o libro. Aveva una grande capacità di concentrazione ed estrema lucidità mentale. Ti sorprendeva sempre, a volte con intuizioni fulminanti e precise, altre per la sua semplicità e, talvolta, ingenuità quasi infantile, nei rapporti umani.
L’intensa attività del Centro diretto da Margnelli culminò con il convegno internazionale Le dimensioni della coscienza, tenutosi a Firenze nel 1992, nel corso del quale si affrontarono per la prima volta in termini multidisciplinari (vi furono relazioni sul versante storico, antropologico, persino criminologico, oltre che psicologico e psichiatrico) il tema della coscienza e delle sue modificazioni, sia in senso “naturale” che patologico. Al convegno fiorentino, per una serie di fortunate coincidenze, dati i mezzi economici limitati, parteciparono studiosi del livello di Kenneth Ring, psicologo dell’Università del Connecticut tra i maggiori e seri studio delle esperienze di premorte (Nde).
Un’altra tappa importante fu la realizzazione del volume collettaneo La fenomenologia della coscienza normale e alterata (Theta Pubblicazioni, Milano 1994) che, in pratica, stampammo in proprio, riuscendo perciò con molta difficoltà a distribuirlo soprattutto alle librerie di Milano. E’ infatti un volume attualmente introvabile. Il volume si apriva con il capitolo dal titolo “Cos’è uno stato di coscienza” in cui Margnelli illustrava il tema rifacendosi ad un modello che lo aveva conquistato da almeno vent’anni e lo aveva in seguito indotto a dedicarsi assiduamente all’argomento: la mappa degli stati di coscienza dello psichiatra americano Roland Fischer (il lavoro originale venne pubblicato sulla prestigiosa rivista Science nel 1971 col titolo “A Cartography of the Ecstatic and Meditative States”).
Era un lavoratore tenace ed esigente, amava la precisione del ricercatore metodico, a cui era stato addestrato, e nutriva con molta passione ciò che faceva.
Come psicoterapeuta era più sul versante di Freud (lo ammirava come scienziato e come scrittore), che non su quello di Jung. Margnelli era attratto dall’insolito, ma il suo sforzo era quello di spiegarlo con la mentalità e gli strumenti razionali. Per sua stessa ammissione, tra il serio e l’ironico, negli ultimi anni della sua vita si era fatto crescere la barba, per assomigliare ancor più al padre della psicoanalisi. E, al pari di Freud, era un forte fumatore.
Importanti anche i rapporti di Margnelli col mondo della cultura e dell’arte, i suoi contatti con la storica Fondazione per l’Arte Contemporanea Mudima di Milano e il protocollo di ricerca che impostò su “stati di coscienza e creatività”, coinvolgendo un gruppo di artisti, scrittori e musicisti professionisti, tra i quali il jazzista e compositore Gaetano Liguori. Margnelli ebbe importanti contatti e scambi intellettuali con parecchi rappresentanti del mondo artistico di quegli anni, ad esempio l’artista psichedelico Matteo Guarnaccia, oppure l’artista-etnofotografo, nonché insegnante Watsu, Italo Bertolasi. Ma anche con giornalisti e scrittori, come Lina Sotis, Viviana Kasam, Franco Bolelli, Gianni De Martino. Solo per citarne alcune, tra le tante figure che Margnelli ha incontrato, frequentato e con le quali ha collaborato.
Era in grado di coinvolgere il pubblico con un eloquio brillante, colto, che mescolava la sua esperienza universitaria e in seno al Cnr, la sua vasta cultura scientifica e generale, il suo intuito per il nuovo, la sua capacità di sintesi (anche lessicale; riusciva sempre a trovare definizioni sintetiche, creative ed efficaci per fenomeni complessi). Conservò sempre la capacità di sintesi, di andare al sodo (non amava molto le divagazioni né i lunghi giri di parole) che ebbe modo di affinare anche durante una sua permanenza come ricercatore al Karl Ludwig Institut fur Physiologie dell’Università di Lipsia, prima, e negli Stati Uniti (Università del North Carolina), in seguito.
Margnelli fu anche un ottimo divulgatore: scrisse parecchi articoli per riviste di divulgazione scientifica, in cui riusciva a coniugare un ottimo stile, con l’aggancio a teorie che riteneva fondanti (ad esempio la cartografia della coscienza di Roland Fischer, che non mancava mai di citare), le sue ricerche e intuizioni lessicali.
Quella con Giorgio Gagliardi, anch’egli medico, psicoterapeuta, ipnologo e docente dell’Amisi, è stata una collaborazione importante per Margnelli. Con Gagliardi condivise molte ricerche e pubblicazioni, ad esempio, sugli stigmatizzati (o pseudo tali, come ebbero modo di accertare, in certi casi fraudolenti), e in particolare sui veggenti di Medjugorie. Su questi ultimi, ritenuti veritieri proprio per la gamma di manifestazioni neuropsicologiche accertate, venne istituita una commisione di studio da parte dell’Università di Milano, di cui, tra gli altri, fecero parte Margnelli e il farmacologo Maurizio Santini.
Vennero ritenuti veritieri le “trance estatiche” e i potenziali evocati registrati nei veggenti, ma ovviamente Margnelli non si espresse mai riguardo la natura di quanto “percepito” dai medesimi.
Importanti per le ricerche condotte su estatici e veggenti, furono l’impiego dell’elettroencefalografo, di cui Margnelli era grande esperto, e del lie detector (la cosiddetta “macchina della verità”). Tali strumenti vennero impiegati da Margnelli e Gagliardi per testare non solo l’attendibilità di veggenti o sensitivi che venivano studiati, ma anche i correlati psicofiologici che, ad esempio, si accompagnavano agli stati modificati di coscienza. Non mancavano, inoltre, ricerche che comprendessero analisi di laboratorio su prelievi bioumorali dei soggetti studiati, con il loro consenso, nel puro stile del ricercatore con formazione e impostazione neuropsicologica, ma pure clinica.
Margnelli ha pure fornito una dimensione scientifica alla “cultura psichedelica” degli anni Sessanta. Traendo da quei movimenti anticipatori della New Age, il meglio che si potesse ricavare: uno studio più completo della natura umana e, in particolare della coscienza, nelle sue varie espressioni e manifestazioni.
Come medico, fu tra i primi ad utilizzare un approccio olistico, anche nelle cure che somministrava ai suoi pazienti: la medicina di sintesi, ma anche l’omeopatia o il biofeedback, ad esempio. Era sempre aperto alle soluzioni terapeutiche, da qualsiasi ambito arrivassero, senza idee preconcette. Si riservava la facoltà di valutarne i reali benefici per i suoi pazienti, a volte pure per se stesso, prima di negare o sposare un determinato approccio terapeutico, apparentemente non ortodosso. Credeva e sosteneva fortemente la possibilità di un approccio “integrato” della medicina e delle terapie.
Quel suo essere ateo, positivista e, al tempo stesso, attratto dal mistero delle religioni e della coscienza, tanto da fare della “scienza degli stati di coscienza” l’interesse preminente della sua vita di ricercatore, ne ha fatto un personaggio dell’era moderna, con tutte le sue contraddizioni: affascinante, appassionato, controverso, degno di essere studiato e commentato ancora a lungo. Sempre alla ricerca di un “altrove”, in cui ora dimora.