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Il setting nel processo analitico di Stella Morgese: Terza parte.

Sul setting in azione



Quale interazione tra setting e modificazione delle funzioni di pensiero della mente del paziente? Questa è la domanda su cui ruota l’articolazione del processo analitico.

Cosa sia meglio o cosa sia peggio introdurre o sottrarre, sostituire o modificare, valorizzare o sminuire, agire o verbalizzare nel setting, per curare, ha animato le pagine della bibliografia mondiale. L’attenzione si sposta dagli strumenti al loro uso ed al loro meccanismo di azione.

Freud attribuiva alla comprensione intellettuale del materiale inconscio che trapela da libere associazioni, sogni, transfert ed alla loro interpretazione con l’aiuto dell’analista, l’elemento facilitante il superamento delle resistenze del paziente e la loro ripetitività. Questa attività, secondo Freud, elicitata dal ricordare rivivendo in seduta, gratifica la pulsione al pari della azione disfunzionale pulsionale, che di converso si riduce. La conoscenza che ne deriva attraverso le parole dell’analista, è però insufficiente se accanto alla componente cognitiva, aggiunse prudentemente Freud, non vi fosse la componente affettiva nuova fonte di forza del processo analitico perché si verifichi un transfert positivo: quello che fa pendere il piatto della bilancia, piuttosto che l’argomentazione logica dell’insight.

L’attaccamento, come oggi lo si intende, e come sia Freud che Strachey intesero sottolineare con la funzione di esperienza ristrutturante ed integrante in se stessa, venne respinta nella Conferenza di Edimburgo del 1961, come già menzionato, in favore della interpretazione cognitiva come maggiore fattore di cura. Gitelson all’epoca, aveva proposto due tempi nel setting: una fase preliminare diatrofica, iniziale, in cui lo strumento relazionale potesse introdurre una psicoanalisi vera e propria con lo strumento interpretativo.

Garma fu paladino della ricerca della verità della interpretazione nel setting, come accesso al senso simbolico latente, ribadendo la opportunità di un atteggiamento costante del terapeuta, insieme alla Heimann.

Eppure solo pochi mesi prima della fatidica Conferenza, Leo Stone(1961) aveva pubblicato un volume sulla situazione psicoanalitica con considerazioni ancora più radicali di Gitelson. E’ altrettanto noto che il fondamentalismo nel rigore sulla applicazione della interpretazione come unica via di cura nel setting riconoscesse più ragioni sociologiche che medico-scientifiche. Paradossalmente, la psicoanalisi che si proponeva di scendere nelle viscere del nucleo emozionale del paziente, si ancorava all’immagine di una tecnica visibile, elevandola ad unico meccanismo di azione terapeutica, per garantire solidità al prestigio della neonata materia, escludendo proprio il rapporto emotivo dalla rispettabilità della tecnica.

Bettelheim, dall’America, rese note nel 1982 le sue considerazioni sulle vicende suddette. Era uno degli ultimi testimoni diretti delle analisi di Freud, umane e poco freudiane, e cosi si espresse a proposito: l’analisi ha perso l’anima!

La estremizzazione della tecnica interpretativa così rigidamente osservata, si dimostrò col senno di poi, aver creato danni iatrogeni.(Migone,1989)

Eissler aveva provocato, con la sua critica aspra alla esperienza emozionale correttiva, una battuta d’arresto alle indicazioni misconosciute o strumentalizzate di Freud e riprese da Strachey, valorizzate successivamente da Winnicott nella sua applicazione su pazienti complessi.

L’iniziale lavoro psicoanalitico procedeva nel buio del linguaggio interpretativo del simbolo, tra le capacità narrative del paziente di trasferire immagini mnemoniche e le abilità dell’analista di restituire loro il contesto storico passato, riattualizzato nel tranfert.

Torna qui utile la puntualizzazione della valenza del setting nella sua modalità di azione simbolica, dove la inibizione alla motricità col paziente sdraiato o accomodato, ha il senso della costrizione al pensiero piuttosto che all’azione; la deprivazione sensitiva visiva verso l’interlocutore viene adoperata come pungolo alla capacità di rappresentazione mentale; la rappresentazione mentale dell’analista, raffigurata solo da interventi verbali come leva alla trasformazione delle immagini in lessico; la assenza virtuale dell’analista dalla vista e dal contatto che rimanda all’abbandono e così via.

Il setting diventa quadro di riferimento della interpretazione.

Codignola così si esprime sulla interpretazione nel setting:

Si tratta di tutte quelle cose che costituiscono materialmente la situazione dell’analisi, e sono indispensabili al suo esistere; esse hanno determinate funzioni nell’interpretazione (come punto di riferimento); ma soprattutto, in quanto tali, sono escluse dall’attività analitica vera e propria, cioè dall’interpretazione. Non sono cioè cose interpretabili; e questo è l’unico connotato che definisce in modo esclusivo gli elementi del setting. Essi sono trattati come fatti extra-analitici.

Il lavoro così condotto trova ostacolo nelle capacità di simbolizzazione del paziente o dove la stessa simbolizzazione può risultare traumatica per incapacità riflessiva: lo stesso ritmo di presenza-assenza delle sedute può creare in alcuni pazienti un vissuto di perdita o di intrusione, per esempio, compromettendo la possibilità di condivisione del setting per restare fedeli al metodo.( Etchegoyen ,1986)

Dove la metapsicologia classica si scontra con la clinica, si manifesta il progressivo disimpegno dal rimosso-ritorno del rimosso, con la modalità interpretativa esclusiva sul manifestarsi dell’inconscio, alla angoscia-difesa con la modalità relazionale contenitiva ponendo in gioco la mente dell’analista nella sua soggettività.

Sulla soggettività dell’analista nella revisione di Gill sui criteri del setting, grazie anche agli influssi della teoria interpersonale di Sullivan, si legge che il transfert presentato dal paziente con quell’analista, non sia altro che uno tra le possibilità, essendo sollecitato dal comportamento dell’analista allo scopo di poter interpretare la realtà. In questa ottica si modificano i criteri intrinseci, per cui:

· Il rapporto tra analisi del transfert e neutralità presunta dell’analista si storicizza nel presente della relazione tra paziente ed analista e non come rappresentazione di un passato di esclusiva pertinenza del paziente, pertanto la neutralità crolla come concetto e l’analista si rende partecipe attivamente della comprensione del sentire del paziente ricorrendo al chiarimento con domande, piuttosto che nella osservanza del silenzio. Decade la neutralità emotiva dell’analista come specchio e la neutralità dell’ambiente soggetto alla interpretazione del paziente sotto le motivazioni patogene o del transfert stesso. (Weiss, 1999).

· La induzione di una nevrosi di transfert con la desiderata infantilizzazione del paziente è rivista come pericolosamente manipolatoria quanto inutile nell’aggiungersi al disagio proprio del paziente, ed andrebbe gestita come manifestazione attuale legata alle libere associazioni dipendenti dal setting e nella relazione col terapeuta.

· Contrariamente ai suoi primi convincimenti , Gill vede nella esperienza interpersonale la modalità di cura dell’analista, cui si aggiungono abilità interpretative.

Laplance e Pontalis, nella loro Enciclopedia della psicoanalisi (1993) ridefiniscono i contorni della modalità neutrale come

[…]una delle qualità che definiscono l’atteggiamento dell’analista nella cura. L’analista deve essere neutro quanto ai valori religiosi, morali e sociali, cioè non deve dirigere la cura in funzione di un qualsiasi ideale e deve astenersi da qualsiasi consiglio; neutro nei confronti delle manifestazioni di transfert, il che viene espresso abitualmente con la formula “non entrare nel gioco del paziente”; neutro infine, quanto al discorso dell’analizzato, cioè non deve privilegiare a priori, in base a pregiudizi teorici, un certo frammento o un certo tipo di significato.

Ciò non significa insensibile freddezza chirurgica, come Menninger aveva precisato nel 1973. Freud a questo riguardo era sempre rimasto indeciso tra la freddezza del chirurgo come sterile superficie speculare e l’atteggiamento umano con cui Egli stesso caratterizzò alcuni trattamenti.(Semi,1997)

L’ambivalenza di Freud sul criterio della neutralità si estende alle vicissitudini storiche della psicoanalisi su questo tema. La teoria delle relazioni oggettuali invoca un rapporto autentico dell’analista che aiuti il paziente ad evolvere ed in questa direzione l’applicazione pedissequa della tecnica sostenuta dalla teoria è insufficiente se non corredata da abilità della personalità del terapeuta che entri nella relazione con disponibilità personale.(Semi, 1997).

Progressivamente si abbandona la tecnica di base in favore della prospettiva relazionale per cui il setting si struttura come risultato di una negoziazione dei reciproci bisogni tra paziente ed analista.

Mitchell così si esprime:

Non esiste una tecnica o una soluzione generale, poiché ciascuna soluzione deve essere adattata al soggetto. Se il paziente sente che l’analista sta applicando una tecnica o mostra un atteggiamento o una posizione generica, l’analisi probabilmente non otterrà risultati.

Il concetto di osservazione partecipe di Sullivan è riassuntivo di questo genere di orientamento in cui l’analista pur essendo soggettivamente e personalmente coinvolto mantiene la sua neutralità oggettiva come strumento professionale.

Pine giunge alla conclusione che in psicoanalisi è neccessario avvalersi di strumenti che agiscano con molteplici meccanismi di azione personalizzandoli artigianalmente sulle caratteristiche dell’analista e del paziente.(Gabbard, 1999)

Il come ogni strumento analitico esplichi la sua azione riparatrice è oggetto degli attuali studi di psycotherapy research.

Gabbard(2004) individua almeno tre tipologie di interventi possibili: strategie volte a favorire l’insight come l’interpretazione e la libera associazione, l’intervento di aiuto cognitivo come problem solving o decision making, e la possibilità di self-disclosure, considerandoli rispettivamente interventi psicoanalitici e psicoterapeutici senza doverli necessariamente isolare gli uni dagli altri.

L’analista di oggi, sostiene Gabbard, è professionista attento ai comportamenti, ai desideri e sentimenti, ai pensieri dei suoi pazienti e, nel contesto di una relazione spontanea, dovrà astenersi dal giudizio espresso anche dalla gestualità, concetti riconducibili tanto al controtranfert quanto alla neutralità ed all’astinenza come meccanismo favorente una relazione di qualità rispetto ai traumi ed ai conflitti del paziente. Allo stesso tempo ciò implica quel complesso concetto di alleanza terapeutica

che negli ultimi anni ha centralizzato l’attenzione sul funzionamento della psicoterapia.

Studi sono stati condotti sulla interpretazione che il paziente dà ai comportamenti del medico, sui processi cognitivi che sviluppano una alleanza positiva col paziente, e non pochi studi sono stati condotti sui tratti di personalità degli analisti, che instaurano relazioni positive coi loro pazienti(Lingiardi,2008)

Come si concilia, dunque, il concetto di astinenza con una relazione positiva di un setting contemporaneo fino alla self-disclosure?

Nella accezione freudiana per astinenza

Non si deve intendere la privazione di ogni soddisfazione e neanche l’astensione dai rapporti sessuali, bensì qualche cosa di diverso, che ha molto di più a che fare con la dinamica della malattia e della guarigione. La causa della malattia del nevrotico, infatti, è stata proprio una frustrazione.

Non si deve intendere la privazione di ogni soddisfazione e neanche l’astensione dai rapporti sessuali, bensì qualche cosa di diverso, che ha molto di più a che fare con la dinamica della malattia e della guarigione. La causa della malattia del nevrotico, infatti, è stata proprio una frustrazione.

Freud aveva inteso frustrare i desideri del paziente piuttosto che soddisfarli per interrompere il ciclo della coazione a ripetere proprio attraverso l’analisi del desiderio e non il loro soddisfacimento. L’astinenza fa proprio riferimento a involontarie intrusioni economiche o sessuali o di altro genere nella vita dei pazienti, mentre per anonimato è da intendersi il riserbo sulla vita e sulle esperienze personali dell’analista, per cui self-disclosure, su cui si può facilmente scivolare nell’ottica relazionale(Gabbard,1999), possono rivelarsi dannose per il paziente, contaminando la sicurezza dell’ambiente setting (Jones, 2008). Concetti di neutralità, astinenza e anonimato sono strettamente connessi alla teoria dell’azione terapeutica e conservano tuttavia il loro valore.

Il termine self-disclosure, l’auto-rivelarsi, può essere attivamente agito dall’analista come atto cosciente e deliberatamente adoperato, restando ad un passo indietro all’enactment vero e proprio. L’astinenza, dunque è attentamente vigilata o lasciata andare, senza che risulti indifferenza o enactment.

La tensione consapevole ai concetti di neutralità, astinenza e anonimato, garantisce la messa in sicurezza dell’ambiente analitico.

Il maneggiare questi strumenti analitici nella stanza del setting rende efficace l’azione del terapeuta con l’intento di riattualizzare oggetti della esperienza passata del paziente. Il nuovo oggetto transferale emergerà dal setting quando l’oggetto del tranfert sarà stato ampiamente analizzato ed interpretato (Gabbard, 1999).

Anche sul concetto di self- disclosure vi sono controversie, sulla sua opportunità ed utilità nella azione terapeutica. Weiner (1972) argomenta sulle controindicazioni in caso di presenza di un’inadeguata alleanza terapeutica o di transfert negativo. L’autore consiglia piuttosto di analizzare la richiesta di self-disclosure al fine terapeutico di utilizzare la comprensione del paziente e del suo modo di leggere il terapeuta. .
Di parere totalmente opposto è Renik (1996) che ritiene inefficace l’azione della neutralità tecnica a sostegno del self-disclosure. L’autore è convinto che l’influenza personale dell’analista

[…]è irriducibilmente soggettivo nel setting clinico… e la natura e la piena dimensione della partecipazione della psicologia individuale dell’analista nel lavoro analitico non possono essere note all’analista in ogni singolo istante della sua attività.

Renik critica il concetto di neutralità ed invita alla riflessione sulla preziosità del materiale di lavoro transfert-controtransfert, unica opportunità di vigilanza proprio sui sentimenti dell’analista che invece potrebbero passare inosservati nella indifferenza neutrale.

L’oggetto di queste diverse vedute è il confine tra la relazione psicologica terapeutica e la relazione personale emotiva. Questo limite deve poter passare attraverso l’empatia, l’introiezione e la identificazione proiettiva senza il muro del rigore e della freddezza anche alla luce delle caratteristiche diagnostiche del paziente (Gabbard, 1999).

Ciò comporta un esercizio di evitamento di violazioni ed alterazioni del setting.

Greenson(1958)descrive almeno tre tipi di alterazioni del setting individuabili in variazioni apparentemente innocenti della banale quotidianità come piccoli ritardi, recuperi, doni, strette di mano, fragorose risate e via dicendo, non ascrivibili nelle trasgressioni, ma indizio di trasformazioni; modificazioni intese come modelli rituali diversi da quello modello classico(si pensi agli adattamenti in istituzioni o con particolari difficoltà dei pazienti stessi); deviazioni, fenomeni come acting-in e acting-out ed enactment.

Al concetto di alleanza terapeutica ed al suo utilizzo fa da contaltare lo studio delle rotture e delle riparazioni nel processo terapeutico il cui valore comunicativo attiene al fallimento della azione di sintonizzazione empatica col paziente, segno di azioni interpretative negative dagli imprevedibili scenari successivi, di difficile gestione se ci si attiene alla regola classica senza scampo sulla negoziazione. Invece l’interesse alla relazione nella sua bidirezionalità, ha fornito un contributo di incontro del piano della ricerca teorica con l’attività clinica vissuta sul campo(Safran e Muran, 2006).

Mitchell, che propone un modello psicoanalitico fondato sulla intersoggetività, che si discosta dal modello classico interpretativo, si avvicina alla visione di Ferro: per gli autori la variazione del setting deve esser vista nel suo valore comunicativo dell’evento e non necessariamente come attacco difensivo da interpretare.

Tutto ciò che si muove nel set relazionale ha valore relazionale tra terapeuta e paziente e dunque ogni variazione, o modificazione o deviazione, verrà accolta come principio organizzatore della vita psichica della coppia terapeutica.

In questa dimensione, le rotture rappresentano una grande opportunità di poter modificare l’esperienza conflittuale emotiva in tempo reale col terapeuta già sacrificata in passato con le figure di riferimento per la necessità di dover proteggere quelle relazioni di dipendenza(genitori). La riparazione, come un bagno caldo empatico nel gergo di Kohut, consente al paziente di poter ridisegnare oggettivamente il vissuto soggettivo, mentre la riflessione del paziente sulle tappe degli accadimenti è strumento di riassestamento del setting stesso.

Nell’ottica della infant research di Gergely e Watson(1999) con le osservazioni condotte sui bambini, il cervello-mente sarebbe impostato fin dalla nascita alla capacità di decodifica di un feed-back proveniente dall’altro(caregiver) sul quale poter modulare comportamenti di risposta in base al milieu interno suscitato. Verosimilmente, ciò condizionerà la regolazione auto ed etero-diretta di emozioni e comportamenti da allora in poi, caratterizzando lo stile relazionale dell’individuo(Lingiardi,Bei,2008). Al modulare va il riconoscimento di una funzione superiore che attiene il pensare le emozioni, intese tanto in senso squisitamente biologico che nel senso della accezione più ampia del termine. Identificare ed esprimere le emozioni(Fonagy,2002), attraverso una scala su cui poter sostenere diversi gradi di attivazione della intensità, è abilità degli esseri viventi dotati di coscienza allo scopo di innescare reazioni adattive che preservino le esigenze di sopravvivenza dell’individuo(Damasio, 1999). Nel setting questa attività di accesso alla emozione, pensata ed interpretata, sottratta all’azione, facilita il processo noto come mentalizzazione. Fonagy intende con questo termine una serie di attività della mente che la rende capace di riflettere ed ipotizzare stati della mente(desideri, pensieri, bisogni, intuizioni, impressioni, intenzioni, emozioni) propri ed altrui, desunti dal comportamento(basti pensare ad impercettibili movimenti della mimica del volto). Questa funzione in cui sono coinvolti i mirror neuron, accede alla dimensione non-verbale della comunicazione, con implicazioni non consapevoli, pre-riflessive, che ci permette di vivere ciò che l’altro sta vivendo non in una simulazione cognitiva sulla base di ipotesi logiche od esperienziali, ma come simulazione incarnata(Gallese, 2006) dello stato mentale altrui completamente e ragionevolmente inconscia. Il giuoco di rimandi di simulazione incarnata tra terapeuta e paziente nel setting dovrebbe avere la funzione di far vedere al paziente i suoi stati mentali e della relativa possibilità di modularli. Stern(2004) parla di qualcosa in più dell’interpretazione, che mette in discussione il luogo del setting ed i suoi contenuti, dove la relazione verbale prevalente attua una deprivazione di accessi comunicativi altri.

Attualmente si assiste ad un vasto sviluppo di un’ area di ricerca in neuroscienze attraverso metodiche di neuroimaging che apre un dialogo serrato tra neuroscienze e psicoanalisi nel discorso delle emozioni e della loro cognizione( basti pensare alla concetto di inconscio rimosso vs inconscio procedurale). (Lingiardi, Bei,2008)

Concetti a ponte tra l’uno e l’altro approccio di indagine dei circuiti emotivi dell’Uomo, lascia intravvedere percorsi condivisi sia dello studio dello sviluppo(Siegel,1999) che della funzione(Schore,1997) della linea mediana del cervello umano sede della elaborazione autoriferita del Se e riproiettata in un altrove, manifesta nella relazione(Panksepp,2014).

Gabbard e Western(2003) lanciano la sfida di un futuro modello unitario sovraordinato multidisciplinare di una psicoterapia come ambiente arricchito idoneo ad agire sulle reti associative consce ed inconsce del connettoma umano che governa tanto i segreti meccanismi della creatività, quanto gli stati disfunzionali.



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