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La mente può trovarsi in stati diversi , il sonno ,il sogno, la trance,l'ipnosi,l'attenzione fluttuante,
l'estasi,la preghiera,la meditazione,la creatività artistica e scientifica,
l'esplorazione dello spazio e degli abissi marini,l'agonismo sportivo.

Stati della mente pubblica lavori originali o già pubblicati con il consenso degli autori, interviste e recensioni di libri e promuove eventi culturali e scientifici.

PSICOANALISI DELL'ARTE di Claudio Crialesi




Il titolo di questa comunicazione preliminare allude sia alla creazione di un gruppo di studio e ricerca volto ad intrecciare la psicoanalisi ed alcuni prodotti artistici, sia alla ricerca di un’amicizia con l’arte per nutrire e proteggere le funzioni personali necessarie a svolgere il lavoro clinico.
Non si vuole dar vita ad un lavoro di “applicazione” delle conoscenze. 

Vorrei essere il promotore di un gruppo che intenda esplorare e descrivere processi creativi.
Quando ho pensato a tale possibilità, dopo l’entusiasmo, mi sono sentito smarrito davanti ad un compito difficile e forse insolubile.
 Ho iniziato a pensare a delle opere che mi hanno affascinato, ma questo non mi aiutava nel precisare un metodo di lavoro. Scrutavo la mia libreria, ho sfogliato alcuni libri, ma non trovavo idee.
Un’edizione dei “Sei personaggi in cerca d’autore” si apre con una riflessione di L. Pirandello sulla scrittura. Possiamo ammirare la bellezza delle descrizioni eppure sfugge il processo che conduce alla creazione.
“E’ da tanti anni a servizio della mia arte (ma come fosse da jeri) una servetta sveltissima e non per tanto nuova sempre del mestiere. Si chiama fantasia.    E si diverte a portarmi in casa, perché io ne tragga novelle e romanzi e commedie, la gente più scontenta del mondo…       Quale autore potrà mai dire come e perché un personaggio gli sia nato in fantasia? Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale.”
Cosa poter aggiungere?
Ho iniziato a sfogliare un altro libro. L’intervista, svolta nell’arco degli anni, da F. Truffaut al grande A. Hitchcock.  “… la casa di Rebecca non aveva alcuna collocazione geografica, era completamente isolata e questo si ritrova negli Uccelli. E’ istintivo da parte mia: devo tenere questa casa isolata, per essere sicuro che la paura sarà senza possibili vie d’uscita. La casa, in Rebecca, è lontana da tutto, non si sa neanche quale sia la città più vicina.”
“La signora Danvers quasi non camminava, non la si vedeva mai muoversi, da un posto all’altro… Era un mezzo per mostrare la situazione dal punto di vista della protagonista: non sapeva mai dove era la signora Danvers e così era più terrificante; vedere camminare la signora Danvers l’avrebbe umanizzata”
Bellissimi dialoghi  e retroscena dei films del regista inglese, ma troviamo solo la descrizione dei risultati di un percorso che rimane oscuro.
Poco utile pensare alle vite drammatiche di tanti artisti per egemonizzarle con argute interpretazioni intorno ai motivi di una scelta o di una fine tragica.
Ho pensato che solo la mia ignoranza impediva di scorgere una soluzione. Bastava immergersi in uno studio “matto e disperatissimo”? O frequentare un corso universitario di arte?
Eppure perché non illuminare qualche tratto di questo sentiero e affrontare una ricerca qualitativa intorno al pensiero produttivo (creativo) con l’ausilio di altri colleghi interessati!
Vorrei procedere con un breve racconto relativo agli antecedenti di questa mia iniziativa; seguirà un sintetico riferimento ai rapporti tra psicoanalisi ed arte; poi una digressione nel campo di studi sul pensiero. Infine una sintesi con la speranza di rendere utili e comprensibili le mie idee.

§ 1   Durante le mie vacanze invernali ho incontrato nella mia città natale un fraterno amico; un professore di lettere di un liceo che tempo fa ha rinunciato ad una possibile carriera universitaria. In questo momento è anche uno stimato critico di musica jazz. Mi aveva chiesto un parere professionale intorno alle brevi biografie che aveva composto su due cantanti: Billie Holliday e Bessie Smith. Nel corso dei nostri dialoghi era emerso in modo prepotente il desiderio di dare vita ad una ricerca intorno alla creazione artistica ed alla sua fruizione.
La biografia drammatica delle due cantanti ed il loro essere parte di una comunità marginale rendeva sin troppo agevole costruire delle ipotesi relative ad alcuni dinamismi psicologici (le biografie ed un mio commento sono reperibili sul sito Roma injazz). Ancor più affascinante poteva essere la riflessione relativa all’uso della voce, del respiro, del silenzio (le pause) come mezzi implicati nel cantare (anche se lontani dal “bel canto”). Il suono appartiene al corpo e coinvolge esecutori e ascoltatori.
Daniel Barenboim nel suo libro “La musica sveglia il tempo” (edito da Feltrinelli nel 2007) esordisce con la frase paradossale: “sono fermamente convinto che sia impossibile parlare della musica”. Eppure cerca di tradurre con le parole quanto risulta effimero e potente. Effimero perché il suono compare e scompare incessantemente; scrive: “la musica è lo specchio della vita: entrambe cominciano dal nulla e finiscono nel nulla”. Eppure questi suoni organizzati entrano nel nostro corpo attraverso le orecchie e possono stimolare risonanze emotive, immagini, ricordi o alterare il ritmo cardiaco e il respiro.
La musica può esser percepita e apprezzata ad ogni latitudine e questa esperienza ha sollecitato il grande direttore d’orchestra, nonché pianista, a dare vita insieme all’intellettuale palestinese, emigrato negli Stati Uniti, E. Said ad un’iniziativa considerata impossibile. Un’orchestra che facesse incontrare giovani musicisti del medio-oriente di fede islamica ed ebraica!  
Passiamo alle osservazioni dello psicologo scozzese C. Trevarthen che in un suo lavoro sul ruolo giocato delle emozioni intuitive nella comunicazione precoce tra madre e bambino (pubblicato nel testo a cura di M. Ammaniti e N. Dazzi edito da Laterza, nel 1990,  titolato “Affetti”) rilevava che il canto spontaneo di molte madri partiva da un centro tonale per allontanarsi da questo con intervalli di terza e quinta (con delle modifiche sono gli intervalli tipici di molte strutture del jazz; le cosiddette “blue note”).
Un’altra sollecitazione viene dal ricordo di una rilettura del testo di H. Rosenfeld “Comunicazione e interpretazione”. L’autore esprime il suo dispiacere per come non sia preso in considerazione il ruolo giocato dal tono di voce dell’analista nella comunicazione col paziente.
Un gruppo di studio potrebbe approfondire e integrare queste informazioni. Cosa suscita un tipo di musica (o canzone o opera lirica), cosa suggerisce? Dal canto gregoriano monofonico alla melodia popolare sino alle atmosfere rarefatte della musica classica contemporanea. E di seguito cosa ci suggerisce la pittura: da un quadro di Giotto alla scomposizione formale sino all’astrattismo. Parimenti la produzione di films o lavori teatrali.
Nella mia esperienza clinica ho notato in diverse persone, quando il lavoro d’introspezione si consolida e diviene anche un piacere, l’avvio di interessi culturali (scrivere, leggere, la musica). Questi fenomeni assumono un valore ancor più significativo se ad operare tali scelte siano individui che per estrazione sociale ed immersione nel concreto sembravano ben lontani da un’attività creativa e simbolica. In altri casi rileviamo il venir meno di inibizioni durature e la ripresa di interessi ed attività artistiche.
Quanto detto sino ad ora sono delle allusioni, eppure possono trasformarsi in sentieri per intrecciare la vita, l’arte e la psicoanalisi. Pretesti associativi per avviare una riflessione intorno alla creatività nella pratica analitica (duale e di gruppo). Una creatività necessaria per avvicinare il disagio contemporaneo nelle sue forme più tenaci e non come vezzo anticonformista.
Terminate le vacanze ho pensato di non far cadere nell’oblio queste impressioni e di avviare un lavoro di gruppo su questi temi per sfruttarne le potenzialità di condivisione e  apprendimento.


 2  Il  rapporto storico tra arte e psicoanalisi.

I misteriosi oggetti detti arte presuppongono un desiderio, sono costruiti grazie ad atti creativi e necessitano della costruzione di legami. Chi li produce connette dentro se stesso idee, sentimenti, competenze. Quanto creato si connette al pubblico che definirà un consenso o dissenso.
I prodotti artistici danno voce a desideri, fantasie, angosce. La psicoanalisi si occupa di aspetti analoghi del soggetto.  
Il sogno e il motto di spirito venivano considerati residui del raziocinio e proprio in quei luoghi Freud intravide dei sentieri da percorrere per raggiungere nuove verità. Questo è già un esempio di processo creativo in quanto implica la competenza nel riconoscere problemi dove altri non ne vedevano.
Freud ha sovente indicato come la produzione artistica riuscisse a cogliere aspetti dell’uomo che erano raggiunti dalla psicoanalisi con un lavoro tortuoso e incerto (i suoi scritti sono punteggiati da citazioni della letteratura classica).
Importante che il gruppo di studio sappia utilizzare questa eredità. Tornare a frequentare i maestri per imparare come costruivano la teoria piuttosto che applicare dei contenuti o spiegazioni. La grandezza di quanto ricevuto riposa nella complessità del procedere di Freud; pur animato dal desiderio scientista ritrovava l’uomo e se stesso. Pensiamo al suo visitare per giorni la statua di Mosè per osservarla e utilizzare le proprie impressioni.
Nella prospettiva freudiana avvicinarsi ai prodotti artistici aveva diversi scopi. Una interpretazione di significati per suffragare la capacità esplicativa della psicoanalisi (la sua applicazione); mettere alla prova il suo metodo (le associazioni verbali guiderebbero necessariamente verso le origini dei complessi ideativi); corroborare le teorie e ripensarle tornando al contesto clinico. In taluni casi fornire una spiegazione dei dinamismi inconsci che rendevano comprensibile la vita di un personaggio insigne.
In questo procedere troviamo il ricorso al pensare associativo, oggi diremmo analogico, che meriterà più avanti una precisazione.
Ricordiamo il V° capitolo dell’Interpretazione dei Sogni (dove la tragedia di Edipo viene collegata al dramma di Amleto). “Il delirio e i sogni nella Gradiva di Jensen” (1906) per descrivere riscontri, in tale opera letterarie, alla teoria del sogno.
Ne “Il poeta e la fantasia” (1907) viene posta una relazione tra gioco infantile, fantasia e creazione poetica. Tali temi saranno ripresi nel saggio teorico “Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico” (1911) per delineare la differenza tra principio di piacere e di realtà. Altri esempi di una decodifica di significati li abbiamo in: “Il motivo della scelta degli scrigni” (1913); “Il Mosè di Michelangelo” (1913); “L’umorismo” (1927).
“Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci” (1910) e “Dostoevskij e il parricidio” (1927) sono due esempi di esplorazione delle biografie di personaggi insigni per rintracciare dinamismi inconsci. L’intento era quello di presentare come potente e risolutivo il metodo della psicoanalisi.
In sintesi Freud considerava le produzioni artistiche (soprattutto letterarie) il compromesso ben riuscito, e sancito da convenzioni sociali, di un conflitto inconscio. L’artista sarebbe nell’intimo una persona che non avrebbe mai ben accettato il principio di realtà e le rinunce ad esso correlate. La sua rigogliosa fantasia (la veste di desideri più o meno accettabili) sarebbe associata ad una serie di mezzi espressivi (scrittura, pittura, ecc) che per via di un consenso sociale permetterebbero di ricavare fama ed ammirazione, per l’artista, e al suo pubblico di identificarsi con le sue creazioni e di vivere in forma vicaria quanto viene narrato.
Importante cogliere l’intento di corroborare o rimaneggiare delle teorie. Le attività dell’artista davano vigore al concetto di sublimazione. L’articolo sull’umorismo riprendeva le idee espresse nel Motto di spirito e le collegava alla teoria strutturale. Un ricordo d’infanzia di Leonardo conteneva riflessioni su omosessualità, identificazione e narcisismo. Il lavoro sulle memorie del “presidente Schreber” (1910), per oscuri motivi considerato un caso clinico, conteneva le prime riflessioni sul narcisismo.
L’ambizione insita nella mia proposta, in attesa di una messa alla prova della realtà, è quella di imparare insieme.
Perché non rileggere l’Edipo di Sofocle piuttosto che il solo V° capitolo dell’Interpretazione dei Sogni? Perché non rivisitare la mitologia relativa all’anatema lanciato su Laio? In questo modo i temi del complesso familiare, delle identificazioni, della colpa e responsabilità potrebbero ricevere  nuove suggestioni. Rintracciare poi tali temi nella letteratura o nelle arti figurative con lo spirito di ricevere senso piuttosto che darne.
Aggiungiamo un’altra ambizione. Fortificare la consapevolezza che la psicoanalisi, in quanto procedere empirico, generi delle congetture. In ogni incontro clinico si costruiscono “comprensioni” (una connessione di stati motivazionali come afferma Heidegger nei Seminari di Zollikon) e non spiegazioni per come sono intese dalle scienze dette naturali. La genuina “formazione” poggia sulla capacità di convivere col dubbio e l’incertezza, per lasciare che nel tempo necessario si definisca una “gestalt”: un sentire-pensare che sia poi comunicato ai nostri pazienti.
Con M. Klein e i suo collaboratori mutano i vertici d’osservazione verso le opere artistiche, ma permane una fedeltà nel modo di pensarle. Si tende ad applicare le spiegazioni tratte dalla pratica clinica (“Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo” M. Klein 1929).
Si deve riconoscere la fecondità delle riflessioni relative alla capacità simbolica come competenza costitutiva e supportiva delle funzioni egoiche (“L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’Io” M. Klein 1930) . La possibilità di maneggiare simboli, il linguaggio o il gioco, permette di integrare le rappresentazioni degli oggetti e di prendere distanza dalla concretezza dei vissuti.
Vale la pena ricordare un lavoro di H. Segal del 1947: “Un approccio psicoanalitico all’estetica”. In questo articolo l’allieva di Klein vede nel desiderio di integrazione e riparazione della posizione depressiva la base necessaria per le sublimazioni e la creatività. Per attingere a tali possibilità sarebbe necessaria la capacità di tollerare l’angoscia e la colpa. Questi dinamismi troverebbero espressione simbolica nel mondo creato dall’artista: sia esso pittore, scrittore o musicista. Personaggi insigni e particolarmente ammirati costruiscono dei mondi attraverso il loro stile e le ambizioni (porta l’esempio di M. Proust che vuole ricordare e ricomporre la sua vita). Il “piacere estetico” provato dai fruitori sarebbe un’esperienza globale, la capacità/possibilità di cogliere come un tutto gli aspetti formali e di contenuto espressi da una certa opera. Il pubblico si identificherebbe empaticamente col mondo affettivo trasmesso dall’oggetto artistico; sia sul versante delle angosce contenute che dal lato della definizione di un’armonia possibile.
L’autrice si propone di rendere comprensibile sia l’arte detta classica che privilegia l’armonia e la buona proporzione (possibile vicinanza all’ideale); sia le espressioni più avanzate dell’arte moderna che cercano di dare espressione anche a quanto risulti dissonante (il “bello” e il “brutto”).
Pensiamo  poi al Winnicott dei “fenomeni transizionali”. Citiamo solamente altri psicoanalisti che hanno dato contributi al tema arte/creatività. Chasseguet-Smirgel; Marion Milner e il nostro Franco Fornari con l’importante puntualizzazione relativa al ruolo della “innovazione” nella creatività artistica e scientifica e non alla semplice sterilizzazione di destini pulsionali.
Personalmente sono riconoscente verso un volume curato da Pier Francesco Galli, edito da Einaudi col titolo “Preconscio e creatività” (1999), contenente articoli di psicoanalisti afferenti alla cosiddetta “psicologia dell’io”composti tra il 1952 e il 1979. Tra i lavori presenti sono interessanti quelli di E. Kris intorno all’ispirazione e ai processi pre-consci. La loro fedeltà alla meta-psicologia mostra come lo sforzo di spiegare dei dinamismi psicologici conduca a descrizioni antropomorfe della mente. Si presuppone un “centro” che sovrintenda e controlli (una sorta di mente nella mente); mentre oggi è la stessa psicologia accademica a indicare che l’auto-coscienza è una costruzione utile all’adattamento, ma priva di qualsiasi regia.


 3  Definizioni di  creatività, creazione.

Dal Dizionario della Lingua italiana Devoto-Oli edizione 2007/2008.
Creare: a) far esistere, generare dal nulla (in ambito religioso); b) fondare, istituire; c) porre, stabilire; d) causare, determinare.
Creatività: capacità della ragione o della fantasia di produrre idee nuove o di individuare soluzioni originali.
Creativo: a) che si riferisce alla progettazione o realizzazione di qualcosa; b) ricco di fantasia.
Dal Dizionario di Psicologia del Prof. U. Galimberti edizione 2006.
Creatività: carattere saliente del comportamento umano, particolarmente evidente in alcuni individui capaci di riconoscere, tra pensieri e oggetti, nuove connessioni che portano a innovazioni e a cambiamenti.
Dal Dizionario “Psiche” ediz. Einaudi 2009 a cura di Barale, Bertani, Gallese, Mistura, Zamperini.
Creatività: l’abilità degli individui di creare qualcosa che attualmente non esiste, di innovare un prodotto o un oggetto o una forma esistente, di produrre qualcosa mediante l’abilità immaginativa. Tale capacità si estende a due ambiti: la soluzione di problemi e la scoperta di problemi.
Pensiamo all’esistenza di un problema per il soggetto, un problema posto dal vivere o da lui sentito come tale. Possiamo intuire come l’esperienza analitica si muova sul confine di tale processo. Una persona vive una questione che pare irrisolvibile e chiede l’aiuto ad un professionista. Ogni seduta è un incontro-scontro ed implica dei problemi emotivi: delle esperienze valutate per il grado di piacere-dolore che vi è associato. Ci si attende che tali problemi siano affrontati e non più evitati.
Gli psicologi della gestalt hanno dato dei contributi ancora utili: il pensiero produttivo di M. Wertheimer e gli studi da parte di K. Duncker. Polemizzando con le visioni associazioniste e del comportamentismo consideravano l’apprendimento e la risoluzione di problemi frutto di una ristrutturazione del campo percettivo, oggi diremmo cognitivo. Parlavano di “insight”, termine a noi familiare (in verità usavano il termine della lingua tedesca: einsicht). Un “vedere dentro”, un’illuminazione o intuizione per cui un insieme di oggetti o un contesto venivano colti in modo nuovo, e ciò conduceva alla soluzione di un problema. W. Khoeler vedeva all’opera lo stesso processo anche negli animali antropomorfi. Anche se la descrizione dei suoi esperimenti non sembra escludere la presenza di prove ed errori anche se non rilevabili da comportamenti espliciti.
Gli psicologi della gestalt non prendevano in considerazione la motivazione, né dei processi mentali inconsapevoli. Due elementi centrali e nel contesto clinico e nel campo artistico. Rimane l’utilità e suggestione delle loro ipotesi per quanto riguarda l’idea di una ristrutturazione delle mappe interiori: la sensazione di sorpresa e la capacità di vedere in modo diverso quanto prima sembrava caotico.
L’analista G. Muraro ha costruito una metateoria sul senso dell’analisi ricorrendo al termine “sorpresa” (mutuato da T. Reik).
Lo psicologo cognitivista P. Johnson-Laird nel volume “Pensiero e Ragionamento” (2006) illustra i diversi percorsi per acquisire conoscenze e risolvere problemi.
A volte si può ricorrere a procedure prestabilite e sicure (ad esempio con la matematica o quando devo avviare un’automobile, ecc.). Ma quando non si possono seguire tali procedure ci si deve affidare a “soluzioni euristiche”: la soluzione non è chiara sin dall’inizio e risulterà soddisfacente, ma non ottimale perché si devono ricavare nuovi dati. Facile cogliere come quel soddisfacente sia legato alla soggettività. Per le scienze matematiche  viene definito euristico un procedimento approssimativo, non rigoroso.
Pensiamo ad un incontro analitico, all’enigmaticità di una seduta. Esistono delle intenzioni, ma non possiamo programmare in anticipo cosa si dirà e come lo si dirà, né come andrà a finire.
Pensiamo a dei frammenti di vita. Un lungo percorso di studi in vista di un progetto professionale; una storia sentimentale; ecc.
Pensiamo ad uno scrittore con la sua pagina o a un pittore davanti alla sua tela.
Johnson-Laird utilizza il termine creativo per individuare un tipo di ragionamento che non utilizzi delle regole consolidate. Tale lavoro mentale non sarebbe deterministico, ma possiede vincoli impliciti definiti dal tipo di problema da risolvere, dalle conoscenze possedute e dalle tradizioni. Questo lavoro interiore avviene in modo inconsapevole, né si dovrebbe considerare la mente come il territorio di un “centro” che governi e sovrintenda; seppur risulti funzionale all’adattamento ricorrere a delle strategie.
Per questo autore l’inconscio non è certo quello psicoanalitico, ma un regno di nudi meccanismi, comunque convinto che la consapevolezza non potrà mai conoscere e descrivere cosa la determini.
Davanti a un problema, per ricavare ed organizzare informazioni, si ricorrerebbe a tre tipi di ragionamento. Deduzioni: si giunge ad affermazioni vere a partire da certe premesse e date delle congiunzioni o disgiunzioni tra proposizioni. Di fatto non ci sono nuove conoscenze, solo la certezza intorno ad alcune affermazioni. Induzioni: si producono informazioni prima non possedute, si va oltre quanto è disponibile; le induzioni sono necessarie perché è raro avere informazioni sufficienti. Abduzioni: quando si cerca di spiegare un’induzione, una generalizzazione, si opera per abduzione. Viene introdotto un concetto non contemplato nelle premesse; produciamo delle spiegazioni possibili che si prestano ben poco ad controllo scientifico. Le induzioni infatti possono essere vere, ma nulla lo garantisce.
Molte delle spiegazioni date con induzioni e abduzioni sono attinte dalla memoria  a lungo termine e  sono debitrici di esperienze, conoscenze pregresse o semplici credenze.
Francesco Corrao utilizzava il termine abduzione per cogliere la specificità del lavoro analitico.
Per Johnson-Laird  quando le spiegazioni per induzione e abduzione non risultano soddisfacenti ne vanno costruite di nuove. Per tale compito si ricorre sovente al ragionamento per analogia.
L’analogia però non è lì pronta ad attenderci va trovata! Una psicologia accademica e sperimentale che persegue la definizione univoca dei propri concetti approda a percorsi ed esperienze regno della soggettività.
Gli elementi dell’analogia vengono trasferiti al problema da risolvere ed in questo modo rendiamo conoscibile quanto si presentava oscuro. Ricaviamo nuove idee o la convinzione soggettiva di aver trovato una spiegazione, ma tale procedere può indurre in errore in quanto riconduce al già conosciuto! Il ragionamento per analogia sintetizza quanto appariva non unitario e si collega al senso emotivo delle esperienze. Per questo svolge un ruolo centrale la sensazione o convinzione soggettiva di aver trovato la soluzione.
Trovare l’analogia implica un lavoro mentale inconsapevole che poi appare come un dato immediato. Un lavoro interiore viene svolto e solo alcune propaggini ne vengono colte o possono essere descritte: il pre-conscio (concetto caduto in disuso) si correla in modo intimo al pensare associativo e creativo.
Accedere al pre-conscio è la condizione assunta dall’analista (attenzione uniformemente distribuita) e auspicabile nel paziente (invito ad associare liberamente). Non è un caso che molti soggetti immersi nel concreto non riescano a lasciare la presa di un pensare iper-trofico quanto inconcludente.
Ricordo ancora un uomo di circa cinquanta anni che conviveva da tempo con stati depressivi. Si perpetuavano assenze dal lavoro e malumore. Le sedute erano grigie e monotone. Dopo circa due anni dall’inizio del trattamento, e in modo imprevedibile, all’inizio di una seduta la persona cominciò a fissare il calendario appeso alla parete e poi a verbalizzare apprezzamento per le figure, dando vita per la prima volta ad una produzione “gratuita” di idee (col nuovo anno chiese se potesse avere in regalo il vecchio calendario!).



 4  Sintesi

Psicoanalisi ed arte possono essere intrecciate perché in tali ambiti coesistono percorsi creativi. La pratica clinica è una psicologia empirica che incontra il soggetto e tale incontro è segnato da desideri e valutazioni incessanti della qualità dell’esperienza.
Vengono posti problemi là dove non ne venivano colti attraverso l’incessante attività di interrogazione svolta dall’analista e poi acquisita dal paziente.
Nella produzione artistica ritroviamo una necessità e impellenza soggettiva di produrre oggetti attraverso una peculiare tecnica.
Non si vuole attingere alla critica d’arte o all’estetica, ma come fruitori  si desidera approssimarsi ad un compito disarmante: rendere meno oscuri dei percorsi mentali detti creativi.
Bion nel suo lavoro “Il cambiamento catastrofico” ripreso in seguito come capitolo del libro “Attenzione e interpretazione” si occupa dell’idea messianica e di come possa essere trattata o non trattata da un gruppo o istituzione. Avviene l’incontro-scontro tra un soggetto o un’idea portatori di “verità” e un contesto che incarna la tradizione. Un’istituzione svolge il compito di rendere trasmissibile tali verità. Si costruisce una negoziazione tra idea messianica e istituzione dove l’una e l’altra possono vivere il timore di distruggere o essere distrutti, ma esiste la possibilità di un accrescimento reciproco.
Tale opera può esser letta come un’analogia per indicare cosa potrebbe accadere e dentro un gruppo organizzato e dentro ognuno di noi. Esistono dei processi mentali e interpersonali a lenta evoluzione, che assumono il ruolo di strutture, e possono nascere nuove esigenze percepite come dissonanti. Come saranno maneggiate?
Sovente il soggetto che produce arte è animato da esigenze sentite come irrinunciabili. Vuole, deve, dipingere, scrivere, suonare, cantare, ecc. Come ha conosciuto queste esigenze? Come ha costruito il proprio stile? Come o cosa sente-pensa mentre è immerso nel suo lavoro? Come ha trovato alcune soluzioni?
Un aspetto centrale della produzione artistica è proprio la possibilità di costruire grazie alle tecniche (scrittura, dipingere, ecc.) e allo stile un mondo tangibile ed evanescente; reale eppure inventato. Una realtà di confine capace di trasformare idee e vissuti. Un campo mentale segnato dal procedere analogico e dall’integrazione di processi inconsci e pre-consci.
Utile attingere a delle fonti scritte e alla testimonianza di operatori creativi che potranno essere intervistati per conoscere e apprendere.


 PERCORSI del LAVORO di GRUPPO
    (A)
- Aneddoti clinici con la presenza esplicita di oggetti artistici (di paziente o analista)
- Definire alcune ipotesi relative a tale avvenimento
- Espansione di queste ipotesi con esclusivo riferimento all’opera artistica
- Verificare se tale approfondimento illumina in modo nuovo i percorsi dell’analisi
    (B)
Partire da lavoro e/o vita di alcuni artisti per poi avvicinarsi alla pratica clinica:

“Lezioni americane” di I. Calvino
Films:  “Vivere” di A. Kurosawa; “La pelle che abito” di P. Almodovar
Pittura: Caravaggio – Hopper; Balla -  Mondrian –  O’ Keeffe.
Musica: Miles Davis
Poesia: Dino Campana;  T. S. Eliot;  E. Dickinson




Quando l'insegnante picchia un disabile di Guglielmo Campione .






Barbiano e Barbarano : solo due vocali e una consonante a diversificare due nomi di paesi della provincia italiana che paiono quasi identici.
Una differenza abissale , invece, nel loro significato sociale , pedagogico e psicopatologico.
A Barbiana in provincia di Firenze Don Milani fondò una Scuola di grande significato simbolico e sociale ispirata da un principio sintetizzato nel motto I care, in inglese "mi sta a cuore". Barbiana  fu un atto d'accusa nei confronti della scuola tradizionale, definita "un ospedale che cura i sani e respinge i malati", in quanto non si impegnava a recuperare e aiutare i ragazzi in difficoltà, mentre valorizzava quelli che già avevano un retroterra familiare positivo, esemplificando questo genere di allievi con il personaggio di "Pierino del dottore" (cioè Pierino, figlio del dottore, che sa già leggere quando arriva alle elementari).
A Barbarano ,in provincia di Vicenza, invece  i carabinieri hanno arrestato in flagranza di reato e  trasportate in carcere a Verona, una professoressa di sostegno Mariapia Piron, insegnante e un'operatrice socio assistenziale Oriana Montesin per maltrattamenti nei confronti di un ragazzo autistico di quattordici anni . Denunciata anche una bidella
Nella scuola media, da alcune settimane, erano state piazzate telecamere e microfoni, posizionati anche sul corpo del ragazzo, con il benestare della famiglia. Con questi strumenti gli investigatori hanno registrato numerosi episodi di violenza fisica e verbale, messi in atto  senza alcuna ragione e logica .Si parla di sistematicita delle violenze fino a 15 episodi al giorno , scene definite «insopportabili» dagli investigatori che hanno sequestrato alcuni oggetti delle presunte sevizie: una bacchetta di legno, un righello, una forbice. In una registrazione si vede la bidella che si è avvicinata alla vittima e, come facevano le due insegnanti, lo ha picchiato senza motivo.
L’adolescente, per il suo stato di disabilità, non è stato in grado di raccontare ciò che subiva, ma ne porta e porterà chi sa per quanto tempo i segni .
Il padre del ragazzo racconta che quando lo portava a scuola lui mostrava paura nei confronti di quella insegnante, si pietrificava»: fin da ottobre il ragazzo ha cominciato a manifestare sofferenza, poi a presentare dei segni, dei lividi sulle orecchie. Il padre si reca  dal pediatra prima e poi in pronto soccorso. Alla fine chiede aiuto ai carabinieri, dopo essere stato anche a scuola a chiedere spiegazioni ricevendo stizzosi dinieghi dalle insegnanti e dal dirigente scolastico .
Il Giudice ha dichiarato che non si comprende  il motivo di tanto accanimento  nè se vi sia stato un episodio di innesco della violenza».
L’insegnate di sostegno pare si sia  resa conto di aver travalicato, ma dice di essere stata esasperata da quel ragazzo.
Questo gravissimo episodio mette in luce l’esistenza nella classe docente di forme di sofferenza psicopatologica , già descritte e analizzate nel 2005, insieme a Vittorio Lodolo Doria  , il sottoscritto, la prof.Anna di Gennaro, e i colleghi Iossa e Tripeni, nel libro “Scuola di Follia” Armando Editore .
Da un punto di vista epidemiologico psichiatrico nulla di strano purtroppo: la sofferenza psicopatologica è ubiquitaria nella popolazione generale con diverse incidenze a secondo della fascia sociale  economica e culturale e quindi è possibile che anche un insegnante soffra di disturbi psicopatologici ,ma certamente ciò che preoccupa sono le conseguenze collettive di questi disturbi in un età in cui i ragazzi sono piu indifesi e non in grado di elaborare traumi con strumenti mentali adeguati( per quanto possano esserci adeguati mezzi per rendere ragione di atti violenti irrazionali !).
La capacita di attribuire ad un comportamento altrui, come ci ha insegnato Fonagy, un emozione, un pensiero, una motivazione psicologica ( lei si comporta cosi perché è delusa, perché è arrabbiata, è arrabbiata perché è delusa, ecc) è una conquista evolutiva resa possibile da un buon rapporto con genitori e insegnanti, sufficientemente sani e non certo una funzione mentale presente in tutte le persone e in tutte le età.
Una delle conseguenze delle percosse fisiche ad un bambino o ad un ragazzo di quattordici anni ,libero da disturbi psicopatologici,  è che ,non disponendo di queste capacità , possa sviluppare dissociazione della personalità e /o attribuire a sé la colpa : se mi picchia vuol dire che ho fatto qualcosa di sbagliato anche se non so cosa.
In un ragazzo autistico,il cui stato dissociativo è la regola e  le cui marcate difficoltà relazionali con l’altro rappresentano l’essenza del disturbo , è inimmaginabile quali , quante e quanto durature  possano essere le conseguenze in termini di gravi peggioramenti del comportamento socio relazionale.
Il ragazzo subiva percosse illogiche e , chiuso nella sua “bolla autistica”, non poteva dirlo ai genitori . Come abbiamo visto il padre racconta che quando lo portava a scuola il ragazzo si “pietrificava”. Con il linguaggio del corpo comunicava il suo terrore , contraendo e irrigidendo la sua corazza muscolare erta a difesa estrema ma, ahinoi, insufficiente della sua dignità, del suo corpo e della sua mente .
Mi chiedo quali possano essere state le conseguenza sulla classe ? Di questo nessuno parla .Cosa penseranno i compagni di queste violenze ? che un disabile le merita facendo spazientire gli adulti ? che gli adulti sono pazzi e e violenti soprattutto quando detengono un potere ? che detenere un potere autorizza a schiacciare gli altri ?  o che altro ?
I genitori sempre devono prestare attenzione ,oltre che alle parole , al linguaggio non verbale dei ragazzi perché dove non ci sono parole per esprimere la vergogna  e il dolore lì c’è il corpo a parlare , con il ripiegamento , la testa bassa, il mutismo,gli incubi ,l’insonnia , l’assenza di appetito, l’abulia, la tristezza stabile,la regressione a comportamenti piu infantili, la perdita di controllo sfinterico.
Ma cosa puo essere successo a queste tre donne,due insegnanti e una bidella ?
Quello che colpisce in questo e altri episodi è il comportamento psicopatologico di gruppo . Cosa ha accomunato queste tre donne nella violenza ripetuta , cosa le ha coalizzate ? Come puo essere possibile per una donna che dona la vita , accudisce, comprende , conforta i propri figli, picchiare un ragazzo ?
L’impotenza a farsi capire , a comunicare ? la scarsa responsività del ragazzo ha messo duramente alla prova la loro scarsa autostima professionale e personale ? ritengo di si .
E’difficile , qui  ,non avendo visionato i video dell’inchiesta e non conoscendo il profilo psicologico delle imputate , compito dei consulenti psichiatri del giudice e degli avvocati della difesa, ipotizzare l’esistenza di pur possibili perverse dinamiche psicopatologiche fra le imputate che paiono essersi coperte e rinforzate una con l’altra .
Mi chiedo quali fantasmi psichici inconsci individuali ha evocato la relazione con questo ragazzo se l’insegnante di sostegno parlava di esasperazione ? Gli abbandoni formano persone che spesso abbandoneranno a loro volta, la violenza subita forma persone che saranno violente a loro volta. Il Trauma non elaborato conduce ad una ripetizione coatta dello stesso dolore subito ma inflitto ad altri, questa volta . Queste donne insegnanti sono state oggetto di traumi a loro volta ? O, come diceva Hanna Arendt , analizzando le motivazioni del nazismo, sono state mosse solo dalla " banalità del male " ?
La relazione e la comunicazione con le persone autistiche è difficile per antonomasia e richiede conoscenza e formazione adeguata di cui le persone accusate non disponevano .
Quel che è grave è che l’insegnante di sostegno ( il termine assume alla luce di questi eventi un significato quanto meno sarcastico e pradossale), cui è fin troppo ampiamente delegata da molti insegnanti titolari l’intera gestione dell’alunno disabile ,( fino a  configurarsi molto spesso come un vero e proprio scarica barile che ricrea le vecchie e apparentemente chiuse scuole differenziali dentro la scuola ordinaria), non aveva né conoscenza adeguata sul disturbo autistico né alcuno strumento di auto osservazione e consapevolezza di sé.
Capacita di autoosservazione e consapevolezza di sè che, nel terzo millennio, sono da considerarsi, a mio parere, strumenti curricolari fondamentali e obbligatori per qualsiasi insegnante e addetto ad help professions.
Certi episodi fanno pensare alla fenomenologia del raptus ripetuto : in questi casi il controllo corticale degli impulsi sede della tappa finale dell’evoluzione filogenetica viene sequestrato dal cervello rettile , violento e reattivo rappresentato dal circuito dell’amigdala. Ne deriva un comportamento violento impulsivo in cui non c’è pensiero e consapevolezza ma solo agito, quasi l’evacuazione di un impulso fisico, seguito talvolta persino da amnesia del fatto accaduto.
Ho tenuto seminari di formazione per presidi e insegnanti molte volte sui temi dell’esaurimento emotivo e motivazionale alla professione docente ed in tema di intelligenza emotiva : sono stati seminari affollatissimi all’inverosimile. L’interesse da parte degli insegnanti è alto.
Ma dall’altra parte , diversamente da altri paesi europei come la Francia dove periodicamente la salute degli insegnanti viene monitorata, in italia nonostante il ministero sia stato stimolato e informato su questo fenomeni, poco è stato fatto sia per prevenire , sia per formare adeguatamente.
Molto si puo e si deve fare e molto fanno da anni , per esempio Anna di Gennaro e Vittorio Lodolo Doria sul burn out degli insegnanti con seminari di formazione, saggi, counseling on line  e tante altre attività.
Per quel che mi riguarda ho ideato e organizzato un master sull’intervento clinico pedagogico multidisciplinare per la persona con disabilità che intende colmare questa grave lacuna . Il master è pensato e organizzato dall’istituto italiano di psicoanalisi di gruppo di cui sono docente in partnership con la cattedra di Pedagogia speciale del Prof Nicola Cuomo del Dipartimento di scienze dell’educazione dell’universita di Bologna  . Gli iscritti al master quest’anno son stati tutti insegnanti a dimostrazione del bisogno formativo riconosciuto.
Temple Grandin, famosa persona autistica americana e docente di zoologia in università americane(gli autistici e i disabili non sono infatti come la maggior parte delle persone credono, alcuni insegnanti compresi, dei deficienti ma persone che hanno diverse forme di intelligenza dalla nostra che richiede d’essere conosciuta e annessa all’umana varietà ) ha scritto un libro dal titolo”La macchina degli abbracci” che invito tutti  a leggere.
In questo libro spiega che quando andava in crisi dissociativa e di terrore senza nome , si rifugiava in un luogo stretto che fungesse da abbraccio e la contenesse fisicamente e questo la aiutava a calmarsi : probabilmente il terrore periodico cui andava incontro era quello psicotico della perdita dei confini, quasi un perdere la pelle che ci separa dal mondo e impedisce ad esso di invaderci nullificandoci.
Invece di abbracci il ragazzo di Barabiano ha ricevuto percosse che rappresentano il simbolo piu perverso e al contempo impotente del comportamento umano invadente , simbolo di guerra e morte.
 I danni di questo comportamento sono  incalcolabili .
Ma poiché nelle varie circostanze della vita dinanzi ad una frustrazione personale e professionale isolata o ripetuta tutti possiamo essere violenti  o subire violenza dobbiamo imparare  ad esserne maggiormente consapevoli e imparare a comprendere quanto questi comportamenti possono essere sempre devastanti..
Per la psicoanalisi è infatti fondamentale riconoscere anche gli aspetti negativi di sè per poterli gestire bene e non solo attribuirli agli altri come male esterno ed estraneo a noi .
Questa è anche la base psichica su cui è possibile ottenere la pace fra gli individui prima e i popoli dopo. 

Centauri e femminicidio di Stella Morgese












“Purtroppo non sei stupida”… donna che alzi la testa sotto la scure di una ingiustizia.

Un messaggio vergato, verrebbe da dire, giacchè digitato suona meno importante del peso del segno. Un ‘purtroppo’ di troppo, pronunciato dall’inconscio che lavora al di là delle intenzioni e si palesa in tutto il suo risentimento da parte di un uomo che, evidentemente, ha perso il controllo su una donna che avrebbe preferito ‘stupida’. Si, stupida , meno intelligente, meno attenta, meno critica, meno acuta, meno presente, scoordinata, smemorata, distratta, controllabile, piegata, obbediente, meno vivace, meno capace di importunare poteri assodati.  Un messaggio valido  tutte le volte che il soggetto della contenuta invettiva comprometta, con la sua intelligenza, l’esercizio di un indisturbato potere: un uomo sano su un uomo malato, un adulto su un bambino, un prepotente su un mite, un potente su un uomo comune, un uomo su una donna, piu difficile una donna su un uomo.
Dà  fastidio la protesta.
“ Le ingiustizie esistono, fattene una ragione”, e chi le subisce ha esattamente quel ruolo, deve restare in quel ruolo: vittima. Se esce dal ruolo, la vittima passa al ruolo di ‘ribelle’, fa la guerra alla forza come diritto, priva del potere chi lo esercita.

Orientiamoci, che siamo disorientati.
 Orientarsi, ha la stessa radice di Oriente, di etimologia latina proviene da orior, ossia nascere, sorgere, andare dove sorge il sole, portarsi verso la luce, alle origini, perchè siamo al buio.
Dunque, cosa lega o slega gli esseri umani  tra loro? Cosa stabilisce le reciproche forze? Chi comanda su chi? Chi ha potere su chi? Chi garantisce chi?
L’uomo è animale politico, sosteneva Aristotele, e vive nella polis e nella polis intrattiene relazioni. Ciò sembrerebbe spinta innata così come lo è il sentimento di giustizia. Se ad un bambino viene tolto un suo giocattolo è facile che  se ha voce, si ribelli col pianto, con le urla, lo rivendichi  con forza sentendo il gesto ingiusto. Eppure nessuno gli ha fatto scuola sul senso della giustizia: quel giocattolo è suo e gli è stato sottratto. Ma la giustizia non può essere solo soggettiva, necessariamente deve porsi in relazione al senso di giustizia di altri, deve oggettivarsi. Per regolamentare i rapporti tra gli esseri umani vi è la Legge. Ecco:  il Diritto lega gli uomini gli uni agli altri, e la comunità  non può che essere legata da norme. Ma la legge non è necessariamente “giusta”, e peraltro non si riesce ad immaginare un mondo senza diritto. Quale sarebbe, dunque,  la norma principale in un  mondo senza legge? Esiste una Legge Naturale: la Legge del più Forte, quindi colui che detiene il potere di poter esercitare quella legge è titolare di quella legge, esercita un diritto, che sia equo oppure no rispetto alle istanze reciproche. Né più né meno che la legge della giungla, tra branchi di animali, pur rispettabili animali.
Ci sentiamo offesi da questa connotazione? Allora bisognerebbe invocare un concetto superiore: l’Uomo viene fuori dallo stato di animale e riconosce la Dignità di se stesso e del suo simile. L’Uomo, quando si dà il Diritto, tende ad andare verso di sé, ossia al suo essere Uomo. Dignità e Diritto a tutela della condizione umana, della considerazione in cui l’uomo tiene se stesso e gli altri. Manca dignità quando viene meno la considerazione di se stesso e dell’altro, dunque. Quando la componente animale aggressiva prevarica la dignità, si fa spazio la incapacità di farsi carico della sofferenza dell’altro ed il ‘narcisismo’ indifferente, insano amor proprio, diventa prepotenza, forza, fino alla violenza, alla guerra.
 La guerra come istinto, senza ipocrisie semantiche. La parola violenza suggerisce una immagine interiore, senza mezzi termini, del dolore inferto a qualcuno a causa della nostra forza.
 Vorremmo volare alto? Vorremmo spiccare il volo oltre il volo radente degli istinti animali? Dignità, rispetto, lealtà, cooperazione, comunicazione, dialogo, solidarietà, partecipazione, sostegno: un  vocabolario molto pronunciato , ma poco sentito dagli istinti.
Tante cose non si dovrebbero fare : non si dovrebbe danneggiare la faccia della Terra,non si dovrebbero maltrattare gli animali, non si dovrebbero abbandonare i bambini, non si dovrebbero abbandonare gli anziani, non si dovrebbero violentare le donne, e noi come cittadini della polis, animali politici, dovremmo essere portatori di una etica seria, regolata da norme come riferimenti stabili del proprio se.
E cosa sta accadendo a questo animale politico, perché “uccide” le donne?
Tutti pronti a scandalizzarci sul piano civile politico, ma la parola animale incombe se facciamo riferimento alla biologia. E’ ineliminabile come Legge della Natura cui obbediamo,  e che non possiamo controllare totalmente, ci appartiene in diversa misura, quanto più ci si avvicina alla natura animale.
 Allora perché ci indigniamo? Ci indigniamo perche’ non possiamo farne a meno, scriveva Freud.
Se si slatentizza la componente animale della specie umana deprivata della “educazione”, il Diritto soccombe alla Forza, essendo il Diritto una modificazione evolutiva della vita pulsionale e tutte le volte che l’ammaestramento educativo, la civilizzazione viene meno, la violenza prende piede. Per estremizzare: persino l’indignazione potrebbe contenere a sua volta un desiderio belligerante contro la violenza stessa.
 Dignità, Diritto e Forza legati ragionevolmente dall’utilizzo della Intelligenza.
Tutte le volte che la forza antropologica dell’uomo prevarica la sua intelligenza, il diritto di ‘essere’ della donna si allontana nel divenire.

Le ragioni storiche.
“Donna non si nasce, si diventa”, le ragioni storiche in un classico aforisma della letteratura femminista nello scandaloso libro di Simone de Beauvoir , in cui la donna deve cimentarsi in  una ardua impresa per trascendere se stessa dal concetto di ‘femminilità’ che presuppone un non-riconoscimento del suo farsi Soggetto. In ciò, secondo l’autrice, risiederebbe una delle cause storiche della subordinazione della donna  come Oggetto e non di Altro Assoluto oltre l’uomo.
 Come, grazie a chi, grazie a che cosa si diventa donne? L’affermazione  suona sibillina come una sentenza . Una rivoluzione  ancora in corso d’opera od una contro-rivoluzione?
 Donne dalla A alla Z, in lungo ed in largo, a dritta ed a manca, nel tempo verticale e nello spazio orizzontale, in una disamina  di aspetti biologici, storici, culturali, sociali, dalla pubblicazione  della de Beauvoir ad ora, in un martellamento continuo come insistente ronzio nelle orecchie  cosmiche. Le donne persistentemente sotto i riflettori di una  inefficace quanto abusata  azione di ciò che avrebbe dovuto esser un  dato acquisito nel bilancio complessivo della Storia, ancora un divenire lontano,  in continuo rimaneggiamento, non esente da responsabilità declinate al femminile. Dovrebbe risultare pleonastica  la sottolineatura del bisogno-desiderio della persona-donna del diritto ai diritti civili, politici e sociali, della sua parità come individuo facente parte della specie umana, della sua realizzazione nei diversi ambiti della vita, ed invece il dato appare acquisito nella sua forma di espressione verbale, ma non nella sua prassi agìta del vissuto percepito da uomo e donna. Un asincronismo storico che stenta a portare il passo del ritmo della trasformazione: se da un lato milioni di parole scritte e pronunciate hanno portato in occidente, dopo quasi un  secolo e più di lotte, al raggiungimento di una  coscienza sociale istituzionalizzata della Parità sul piano del Diritto, dall’altro lato le donne sono già oltre o, paradossalmente, in retrocessione. Gli uomini, a nostro modo di vedere, immobili.
Perchè  tanto parlare?  Dove sono nascosti i perché? Cosa ci anima?
Il disagio storico cui assistiamo da protagonisti e da spettatori contemporaneamente, funge da pungolo. Esso preme contro le nostre coscienze di uomini e donne nel tentativo ancestrale di sottrarsi al dolore. La ricerca di risposte diventa urgente. La svolta stabilizzante auspicata  si palpa, mentre ancora si attraversa il nodo della trasformazione.  Siamo, a parere degli studiosi, di fronte a ciò che potremmo definire la Terza Rivoluzione Femminile(Jole Baldaro Verde)e, consapevolmente o meno, l’umore collettivo ne risente. La vita dell’individuo scandita a tappe demarcate è tranquillizzante, stenta a trovare la sua fluidità nelle trasformazioni. A ciò si aggiunga che la nostra era reca con se il fattore ‘velocità’ che non consente tempi di recupero fisiologici, ma trasformazioni subentranti senza tempi di refrattarietà. Una sorta di sollecitazione ‘neurologica’ continua fino alla anestesia morale, un sentire sopito, abituato, rassegnato, indifferente. I tempi di lady Caroline Norton (1808-1887),  quando le donne venivano equiparate ai minori o a soggetti malati di mente, per cui era negato loro il diritto di presenziare ai processi in  cui erano imputate, sono davvero lontani e trapassati remoti sono i tempi della coniugazione del verbo “emanciparsi”. ‘Emancipazione Femminile’ connota, a tutt’oggi , una espressione moderata dell’abbattimento delle barriere legali e sociali che in qualche misura relegavano la donna ad una condizione di sudditanza verso l’uomo, fosse egli il padre, il fratello, od il marito, e che si frapponevano al suo accesso a stili di vita, professioni e privilegio sociale squisitamente maschili. E’ diffusa l’idea che le profonde e repentine modificazioni sociali e politiche, messe in atto dalle Suffragette nel mondo del lavoro e della istruzione,  abbiano impresso conseguenze di non poco conto sui costumi della intera società detta occidentale. L’individuo che può vivere dei suoi stessi guadagni gode non solo di autonomia economica, ma beneficia della libertà interiore che sostiene il senso del potere personale.  Pertanto  l’aspetto economico personale  si fa sociale, di costume. Fece eco alla suffragette , dopo circa mezzo secolo, una definizione della donna ancora più densa e radicale con i movimenti femministi di “liberazione”, per cui alla richiesta di uguaglianza con gli uomini  sul  piano del Diritto, delle opportunità, della dignità, si sommava una modificazione inedita della società occidentale in cui la donna avanzava  nella affermazione della Identità propria,  non subordinata a quella maschile sul piano personale. Non può mancare il riferimento alla “Rivoluzione  sessuale” della fine degli anni ’60, un vero coming out della dimensione sessuale della donna, accompagnato dal concomitante progresso scientifico sul controllo della fertilità e la commercializzazione  della “pillola”, ad esclusivo uso e consumo delle donne, che assurge a significato simbolico di controllo personale della capacità riproduttiva di cui ne acquistano il pieno potere. Potere, questo, che probabilmente ha amplificato le ambivalenti sensazioni della donna, depositaria della procreazione che genera, ma che può togliere la vita. Umberto Galimberti-“I miti del nostro tempo”- infatti, invita alla rilettura in chiave schietta del mito dell’amore materno, gravido, è il caso di dirlo, di tale ambivalenza fino a condurre ai gesti estremi di infanticidio o di abbandono o di maltrattamenti delle prole, sempre più spesso riportati nelle cronache , che spaventano, scandalizzano,  angosciano la comune fantasia romantica sulle donne, leziosi “oggetti” del focolare,  figure depositarie esclusive dei valori della pace, comodo riferimento alla univoca sfera della vita privata. Ed invece, la violenza emerge dal femminile al pari del maschile con l’esercizio della forza.
 Dalla iniziazione femminile alla sessualità con lo Ius prime noctis di feudale memoria, passato poi attraverso il sacro diritto alla deflorazione dopo il rito matrimoniale , si giunge con un rapido rivolgimento, al diritto delle donne alla erotizzazione. Per le donne incalza, con nuova consapevolezza, la ricerca e l’espressione della sessualità come componente della propria carta di identità personale, irrinunciabile aspetto della relazione di coppia in cui si embricano, inscindibili, sesso e amore. Si apre lo scenario dei rapporti sessuali liberi, completi, precoci, prematrimoniali, col diritto al piacere delle donne.  Va comunque detto che il riappropriarsi del proprio corpo, a lungo imprigionato dalla “cultura” mortificante  gli istinti femminili, non ha però allontanato dalla sfera emozionale delle donne  l’investimento affettivo  che esse operano nel rapporto di coppia, essendo quest’ultima verisimilmente istanza autoctona della natura femminile. Permane un equivoco di fondo nel dialogo inter-genere amplificato o perseguito, dove il maschio, in qualche misura incoraggiato ad agire la sessualità totalmente svincolata dal coinvolgimento affettivo,  si contrappone ad una  femmina addomesticata alla ricerca del principe Azzurro, relegata in un ruolo preconfezionato,  sbavatura del femminile o della femminilità appresa. Due modalità di ricerca della propria identità che non trovano un modo di dialogare comune, in qualche misura artatamente separate. Nel contesto della stessa rivoluzione culturale l’uomo “scopre” la paternità, oggi ritenuta dagli studiosi(Luigi Zoja) una acquisizione culturale più che autentico impulso biologico della assistenza alla prole dopo averla generata. Nel volgere di un  secolo, un soffio di tempo nelle ere evoluzionistiche, il lavoro e il potere economico prima, l’istruzione e contemporaneamente il rivoluzionario potere sessuale indipendente  poi, cambiano profondamente lo status delle donne occidentali nelle diverse componenti  relazionali pubblica e privata. In realtà, in Europa quanto in America, nonostante l’incedere a piccoli passi verso ciò che apparentemente assume l’aspetto di una visione “democratica” della società civile con doppia componente maschile-femminile, dove quest’ultima sembrerebbe poter accedere ai concetti di presenza, espressione, partecipazione, intrisa di Diritto formale, si ribadisce una restaurazione  storica di ritorno. La ‘simpatia’ con cui la causa femminile viene condivisa nella ammissione delle donne alla Cosa Pubblica, trova un ostacolo nella  Unità Familiare per cui la visione della via democratica e della via liberale all’approccio della questione femminile, finiscono per coincidere su un motivo dominante: la famiglia( Giovanna Zincone), che in controtendenza rispetto alla tutela ed allo stesso tempo con una logica sequenziale stringente, si disgrega. Si apre dolorosamente un conflitto di interessi ‘paternalista- maternalista’ proprio in seno alla famiglia. Il dilemma si incupisce: proteggere il lavoro( welfare state paternalista legato alle dinamiche economiche)o proteggere  la Persona( welfare state maternalista legato  alla salvaguardia dei figli dello Stato)? La Parità ottenuta sul piano del Diritto confligge con la tutela e le donne sono costrette  a presentarsi al lavoro in abiti da uomo, rammarico tanto maschile  quanto femminile.
 A meno che non si instauri una protesta teorica nei confronti di un incontestabile organizzazione della Natura sulla pertinenza squisitamente uterina della conduzione della gravidanza, la maternità ed i suoi “effetti collaterali” rappresentano, alla stato dell’arte, non solo uno svantaggio che richiederebbe protezione differenziata, ma un peso politico-sociale che si tende ad evitare, a non vedere: non piace.
 Sicchè, le conquiste ottenute ci si rivoltano contro. Congedi speciali, orari di lavoro femminili , maternità, malattia, nido ed asili sono desiderata per “fannullone” e la fatica della Parità una restaurazione ideologica attualmente ineluttabile, restando il lavoro di cura parentale non solo a carico delle donne, ma misconosciuto e non retribuito, coronato dallo squilibrio di potere nei fatti. La domesticità-dipendenza-bellezza-dolcezza-procreazione  delle donne garantisce una piena cittadinanza maschile, che esclude la piena cittadinanza femminile: un circolo ingannevole da interrompere, perché in dietro non si ritorna, ferme restando le acquisizioni consapevoli delle Differenze. Non incapaci, ma incapacitate a sostenere la compatibilità carriera-famiglia  (work-life balance). Anne Marie Slaughter, super professoressa di Princeton  ed ex consigliera di Obama, il 17 luglio dello scorso anno si dimette dall’incarico annunciando al mondo:” Smettiamola di desiderare la parità dei sessi, non la avremo mai”. Sfiancata più nello spirito che nel corpo motiva la sua scelta, che risuona grave in tutto il mondo femminile attento, per amore di suo figlio, adolescente in crisi, e svela al mondo che una falsità enorme si lascia  serpeggiare nella psiche femminile: “Farcela nel lavoro e nella famiglia dipende più di ogni altra cosa dalla caparbietà personale”. Il suo verdetto finale, nonostante gli elogi al marito per la strenua collaborazione, è che per una donna è impossibile farcela nel lungo periodo se il lavoro passa attraverso una agenda al maschile. Il prezzo da pagare alla carriera è l’acquisizione incondizionata delle “palle”, ossia di uno stile di comportamenti e scelte operate da una analitica mente mascolinizzata  tutte le mattine, possibilmente evitando lo specchio o la ciclicità lunare, vera Potenza della Natura che le donne portano dentro con tutti quei valori che le sono connaturati. Stride e soffre, per la forzatura indotta, sia la identità maschile che quella femminile della specie umana, alla ricerca di se stessa nelle sue due componenti complementari.
L’adattamento, ancora in corso, non è stato indolore nello scuotere alla  radice un sistema di relazione tra i sessi che non trova pace, una  stabile definizione e vaga nella confusione. Carol Pateman auspica: “un ordine sociale differenziato in cui le varie dimensioni siano distinte, ma non separate od opposte, e che si fondi su una concezione sociale dell’individualità che includa gli uomini e le donne come creature biologicamente differenziate, ma non ineguali”. E dunque, se donna non si nasce, ma si diventa, cosa siamo diventate o cosa la Storia ci ha permesso di diventare?! Una “evoluzione” in corso d’opera ed ulteriori pagine dovranno essere scritte da auspicabile Ministero delle Diverse Opportunità.
Le ragioni biologiche
Le ragioni storiche non possono e non devono prescindere dalle ragioni biologiche ancora più intrise di affascinanti quanto complesse differenze.
Pare  che l’emozione ‘amore’ sia condivisa da Uomo e Donna. 
Curioso a dirsi, ancora una volta, resta dolcemente materno per le donne, carnale per gli uomini nella cultura corrente. Fino a che punto questa realtà sia biologica e  totalizzante non siamo in grado di dirlo.  Resta il fatto che si celebra  l’istinto materno e la parola istinto suona non solo accettabile, ma musicale e sublime, mentre la stessa parola risulta disdicevole se si accompagna all’aggettivo ‘sessuale’ nei confronti della stessa donna. Ci si interroga negli ambienti scientifici sul significato del piacere femminile, sulla sua funzione nella economia della riproduzione, essendo di tutta evidenza che il piacere maschile risulta necessitato ai fini della continuità della specie, al pari ciò non trova riscontro nel sesso femminile   che, secondo le attuali conoscenze, avrebbe  significato prevalentemente “ludico” nella specie umana. Non di poco conto la possibilità per le femmine della specie umana di essere libere dalla necessità, ma potenti nella volontà. Pertanto, una apparente subordinazione anatomica che si arrende, ‘mancante’ della potenza coeundi, finisce per evolvere in un concedere, con investimento nelle attese, verso la ‘potenza’ maschile, e diventa subliminarmente dominante sul piano della relazione strettamente sessuale. In sintesi in ambito etologico, la volontà femminile condurrebbe il giuoco nella scelta ( selezione intersessuale), e il maschio competerebbe  per aggiudicarsela(selezione intrasessuale), fermo restando la necessità della dimostrazione della  potentia coeundi.  
 Procedendo oltre nella antropologia, il potere del grembo materno grande impatto deve aver avuto, e conserva ancora, sulla origine della oppressione sulle donne per l’indiscusso fenomeno della volontà di controllo dei processi riproduttivi da parte dell’uomo. La questione della oppressione femminile si giuoca con molta probabilità sul tavolo della procreazione, tra volontà dell’accoppiamento del femminile e volontà di controllo del maschile. Resterebbe da spiegare il perché di questa volontà di controllo, supportata dalla maggiore forza anatomica del maschio rispetto alla femmina, ed istituzionalizzata nei poteri sociali. Le tesi si avvicendano numerose, ma ancora nessuna risposta certa sulle motivazioni antropologiche, storiche e culturali risulta soddisfacente alla domanda : perché l’uomo risulta dominante sulla donna invece che complementare? Grace Atkinson parla di “cannibalismo metafisico” per cui l’appropriarsi della identità della vittima ci rende forti, sicuri di esistere. Secondo la studiosa l’uomo approfitterebbe dello stato di ‘debolezza’ in cui le donne  si trovano durante la gravidanza ed il parto, che impongono  ‘dipendenza’, per accrescere il suo senso del potere  sottratto del potere di partorire, di dare alla luce,  e quindi la ragione ultima risiederebbe nella diversa fisiologia dei generi. A sua volta il farsi vittima potrebbe essere un desiderio rassicurante: il dominio può essere praticabile se c’è chi accetta di subirlo per un ipotetico vantaggio. Scaturisce un interrogativo: la donna è portata naturalmente al lasciarsi guidare? Il nodo della questione sul buon funzionamento di un gruppo sociale sta nell’equilibrio del benessere dei suoi membri. Se il ruolo della donna e quello dell’uomo fossero accettati ed accettabili, nella loro dimensione di equa diversità per entrambi, non si porrebbe il problema del diritto e del suo rispetto  per la tutela del gruppo sociale femminile. Evidentemente, se il malessere è oggettivabile per una condizione non accettata e non accettabile, deve pur esser vero che non rientra nella natura femminile il farsi vittima, piuttosto la “oblatività”, risulterebbe una prassi e non una pulsione intrinseca del femminile(Piera Zumaglino).
  Alla fisiologia zoologica fa riferimento  anche Luigi Zoja: egli sostiene che nell’evoluzione dei mammiferi si può facilmente apprezzare quanto le stesse dimensioni del maschio e della femmina siano diverse e,  entrando ancora di più nella specializzazione dei generi,  vi sia una continuità naturale ed istintuale nel rapporto madre/figlio, mentre ciò deve essere appreso culturalmente dal maschio, la cui primigenia istanza è di fecondatore e non di padre, genitore in quanto donatore di geni, non necessariamente padre. Di ciò è prolifica la mitologia.

Alle mille esasperazioni  osservazionali sulle donne  fa da contraltare un Uomo. “Eclissi” di  un Uomo che reagisce collettivamente, come fosse inconscio epidemico, con rabbia, con  violenza verso la donna della quale percepisce una perdita del controllo che si esprime come metafora nell’ambito del lavoro, con l’accrescimento della autonomia e del potere della donna, divenendo  femminicidio, stalking.  Scrive Zoja: “ Credo che questo sia il passaggio fondamentale. Il maschile non paterno(il maschio che  compete per la fecondazione ) ha natura animale, ed è per questo che ritorna prepotentemente sulla scena tutte le volte che l’educazione culturale si sfalda. L’identità maschile paterna( identificabile nel ruolo familiare) è squisitamente culturale e va insegnata, ritualizzata, trasmessa; altrimenti si perde facilmente.” Una rievocazione che egli stesso definisce Centaurismo, dove il processo di umanizzazione rimane incompleto in un maschio predatore che conserva intatta la sua natura animale. Erik Erikson sostiene che se vacilla l’aspetto maschile civile, quello del padre culturalmente appreso, la separatezza tra maschile e femminile si esaspera ed il femminile diviene talmente lontano dalla propria specie da essere percepito come nemico incontrollabile da cui difendersi, cadendo, in tal modo, l’inibizione ad uccidere in senso allegorico e non. Queste le ragioni attualmente dibattute su un fenomeno spaventoso per la società civile, meno sorprendente per la natura umana. Le ragioni della subordinazione femminile nelle ipotesi analizzate contengono la risoluzione. Forza da una parte e conoscenza dall’altra come espressioni del Potere, della egemonia. Se il passo deve essere rivolto nella direzione del rispetto della Dignità dell’essere umano “colto”,  si deve considerare l’attacco complessivo alle strutture sociali, né solo maschile né  solo femminile della crescita culturale.
L’azione deve essere volta a coinvolgere la Persona in un processo di riflessione intelligente(non stupido, né desiderato tale) sugli istinti, pur sempre di natura vitale, alimentando il senso di giustizia, pur sempre innata.