“Purtroppo non sei
stupida”… donna che alzi la testa sotto la scure di una ingiustizia.
Un
messaggio vergato, verrebbe da dire, giacchè digitato suona meno importante del
peso del segno. Un ‘purtroppo’ di troppo, pronunciato dall’inconscio che lavora
al di là delle intenzioni e si palesa in tutto il suo risentimento da parte di
un uomo che, evidentemente, ha perso il controllo su una donna che avrebbe
preferito ‘stupida’. Si, stupida , meno intelligente, meno attenta, meno
critica, meno acuta, meno presente, scoordinata, smemorata, distratta,
controllabile, piegata, obbediente, meno vivace, meno capace di importunare
poteri assodati. Un messaggio valido tutte le volte che il soggetto della contenuta
invettiva comprometta, con la sua intelligenza,
l’esercizio di un indisturbato potere: un uomo sano su un uomo malato, un
adulto su un bambino, un prepotente su un mite, un potente su un uomo comune,
un uomo su una donna, piu difficile una donna su un uomo.
Dà fastidio la protesta.
“
Le ingiustizie esistono, fattene una ragione”, e chi le subisce ha esattamente
quel ruolo, deve restare in quel ruolo: vittima. Se esce dal ruolo, la vittima
passa al ruolo di ‘ribelle’, fa la guerra alla forza come diritto, priva del
potere chi lo esercita.
Orientiamoci,
che siamo disorientati.
Orientarsi, ha la stessa radice di Oriente, di
etimologia latina proviene da orior,
ossia nascere, sorgere, andare dove sorge il sole, portarsi verso la luce, alle
origini, perchè siamo al buio.
Dunque,
cosa lega o slega gli esseri umani tra
loro? Cosa stabilisce le reciproche forze? Chi comanda su chi? Chi ha potere su
chi? Chi garantisce chi?
L’uomo
è animale politico, sosteneva
Aristotele, e vive nella polis e nella polis intrattiene relazioni. Ciò
sembrerebbe spinta innata così come lo è il sentimento di giustizia. Se ad un
bambino viene tolto un suo giocattolo è facile che se ha voce, si ribelli col pianto, con le
urla, lo rivendichi con forza sentendo
il gesto ingiusto. Eppure nessuno gli ha fatto scuola sul senso della giustizia:
quel giocattolo è suo e gli è stato sottratto. Ma la giustizia non può essere
solo soggettiva, necessariamente deve porsi in relazione al senso di giustizia
di altri, deve oggettivarsi. Per regolamentare i rapporti tra gli esseri umani
vi è la Legge. Ecco: il Diritto lega gli
uomini gli uni agli altri, e la comunità non può che essere legata da norme. Ma la
legge non è necessariamente “giusta”, e peraltro non si riesce ad immaginare un
mondo senza diritto. Quale sarebbe, dunque, la norma principale in un mondo senza legge? Esiste una Legge Naturale:
la Legge del più Forte, quindi colui che detiene il potere di poter esercitare
quella legge è titolare di quella legge, esercita un diritto, che sia equo oppure
no rispetto alle istanze reciproche. Né più né meno che la legge della giungla,
tra branchi di animali, pur rispettabili animali.
Ci
sentiamo offesi da questa connotazione? Allora bisognerebbe invocare un
concetto superiore: l’Uomo viene fuori dallo stato di animale e riconosce la
Dignità di se stesso e del suo simile. L’Uomo, quando si dà il Diritto, tende
ad andare verso di sé, ossia al suo essere Uomo. Dignità e Diritto a tutela
della condizione umana, della considerazione in cui l’uomo tiene se stesso e
gli altri. Manca dignità quando viene meno la considerazione di se stesso e
dell’altro, dunque. Quando la componente animale aggressiva prevarica la
dignità, si fa spazio la incapacità di farsi carico della sofferenza dell’altro
ed il ‘narcisismo’ indifferente, insano amor proprio, diventa prepotenza,
forza, fino alla violenza, alla guerra.
La guerra come istinto, senza ipocrisie
semantiche. La parola violenza suggerisce una immagine interiore, senza mezzi
termini, del dolore inferto a qualcuno a causa della nostra forza.
Vorremmo volare alto? Vorremmo spiccare il
volo oltre il volo radente degli istinti animali? Dignità, rispetto, lealtà, cooperazione,
comunicazione, dialogo, solidarietà, partecipazione, sostegno: un vocabolario molto pronunciato , ma poco
sentito dagli istinti.
Tante
cose non si dovrebbero fare : non si dovrebbe danneggiare la faccia della
Terra,non si dovrebbero maltrattare gli animali, non si dovrebbero abbandonare
i bambini, non si dovrebbero abbandonare gli anziani, non si dovrebbero
violentare le donne, e noi come cittadini della polis, animali politici,
dovremmo essere portatori di una etica seria, regolata da norme come
riferimenti stabili del proprio se.
E cosa sta accadendo a questo animale
politico, perché “uccide” le donne?
Tutti pronti a
scandalizzarci sul piano civile politico, ma la parola animale incombe se
facciamo riferimento alla biologia. E’ ineliminabile come Legge della Natura
cui obbediamo, e che non possiamo
controllare totalmente, ci appartiene in diversa misura, quanto più ci si
avvicina alla natura animale.
Allora perché ci indigniamo? Ci indigniamo
perche’ non possiamo farne a meno, scriveva Freud.
Se
si slatentizza la componente animale
della specie umana deprivata della “educazione”, il Diritto soccombe alla Forza,
essendo il Diritto una modificazione evolutiva della vita pulsionale e tutte le
volte che l’ammaestramento educativo, la civilizzazione viene meno, la violenza
prende piede. Per estremizzare: persino l’indignazione potrebbe contenere a sua
volta un desiderio belligerante contro la violenza stessa.
Dignità, Diritto e Forza legati
ragionevolmente dall’utilizzo della Intelligenza.
Tutte
le volte che la forza antropologica dell’uomo prevarica la sua intelligenza, il
diritto di ‘essere’ della donna si allontana nel divenire.
Le
ragioni storiche.
“Donna
non si nasce, si diventa”, le ragioni storiche in un classico aforisma della
letteratura femminista nello scandaloso libro di Simone de Beauvoir , in cui la
donna deve cimentarsi in una ardua
impresa per trascendere se stessa dal concetto di ‘femminilità’ che presuppone
un non-riconoscimento del suo farsi Soggetto. In ciò, secondo l’autrice,
risiederebbe una delle cause storiche della subordinazione della donna come Oggetto e non di Altro Assoluto oltre l’uomo.
Come, grazie a chi, grazie a che cosa si
diventa donne? L’affermazione suona
sibillina come una sentenza . Una rivoluzione ancora in corso d’opera od una
contro-rivoluzione?
Donne dalla A alla Z, in lungo ed in largo, a
dritta ed a manca, nel tempo verticale e nello spazio orizzontale, in una
disamina di aspetti biologici, storici,
culturali, sociali, dalla pubblicazione della de Beauvoir ad ora, in un martellamento
continuo come insistente ronzio nelle orecchie cosmiche. Le donne persistentemente sotto i
riflettori di una inefficace quanto
abusata azione di ciò che avrebbe dovuto
esser un dato acquisito nel bilancio
complessivo della Storia, ancora un divenire lontano, in continuo rimaneggiamento, non esente da
responsabilità declinate al femminile. Dovrebbe risultare pleonastica la sottolineatura del bisogno-desiderio della
persona-donna del diritto ai diritti civili, politici e sociali, della sua
parità come individuo facente parte della specie umana, della sua realizzazione
nei diversi ambiti della vita, ed invece il dato appare acquisito nella sua
forma di espressione verbale, ma non nella sua prassi agìta del vissuto
percepito da uomo e donna. Un asincronismo storico che stenta a portare il
passo del ritmo della trasformazione: se da un lato milioni di parole scritte e
pronunciate hanno portato in occidente, dopo quasi un secolo e più di lotte, al raggiungimento di
una coscienza sociale istituzionalizzata
della Parità sul piano del Diritto, dall’altro lato le donne sono già oltre o,
paradossalmente, in retrocessione. Gli uomini, a nostro modo di vedere,
immobili.
Perchè
tanto parlare? Dove sono nascosti i perché? Cosa ci anima?
Il
disagio storico cui assistiamo da protagonisti e da spettatori
contemporaneamente, funge da pungolo. Esso preme contro le nostre coscienze di
uomini e donne nel tentativo ancestrale di sottrarsi al dolore. La ricerca di
risposte diventa urgente. La svolta stabilizzante auspicata si palpa, mentre ancora si attraversa il nodo
della trasformazione. Siamo, a parere
degli studiosi, di fronte a ciò che potremmo definire la Terza Rivoluzione Femminile(Jole
Baldaro Verde)e, consapevolmente o meno, l’umore collettivo ne risente. La vita
dell’individuo scandita a tappe demarcate è tranquillizzante, stenta a trovare
la sua fluidità nelle trasformazioni. A ciò si aggiunga che la nostra era reca
con se il fattore ‘velocità’ che non consente tempi di recupero fisiologici, ma
trasformazioni subentranti senza tempi di refrattarietà. Una sorta di
sollecitazione ‘neurologica’ continua fino alla anestesia morale, un sentire
sopito, abituato, rassegnato, indifferente. I tempi di lady Caroline Norton
(1808-1887), quando le donne venivano
equiparate ai minori o a soggetti malati di mente, per cui era negato loro il
diritto di presenziare ai processi in cui erano imputate, sono davvero lontani e
trapassati remoti sono i tempi della coniugazione del verbo “emanciparsi”.
‘Emancipazione Femminile’ connota, a tutt’oggi , una espressione moderata
dell’abbattimento delle barriere legali e sociali che in qualche misura
relegavano la donna ad una condizione di sudditanza verso l’uomo, fosse egli il
padre, il fratello, od il marito, e che si frapponevano al suo accesso a stili
di vita, professioni e privilegio sociale squisitamente maschili. E’ diffusa
l’idea che le profonde e repentine modificazioni sociali e politiche, messe in
atto dalle Suffragette nel mondo del
lavoro e della istruzione, abbiano
impresso conseguenze di non poco conto sui costumi della intera società detta
occidentale. L’individuo che può vivere dei suoi stessi guadagni gode non solo
di autonomia economica, ma beneficia della libertà interiore che sostiene il
senso del potere personale. Pertanto l’aspetto economico personale si fa sociale, di costume. Fece eco alla
suffragette , dopo circa mezzo secolo, una definizione della donna ancora più
densa e radicale con i movimenti femministi di “liberazione”, per cui alla
richiesta di uguaglianza con gli uomini
sul piano del Diritto, delle
opportunità, della dignità, si sommava una modificazione inedita della società
occidentale in cui la donna avanzava
nella affermazione della Identità propria, non subordinata a quella maschile sul piano
personale. Non può mancare il riferimento alla “Rivoluzione sessuale” della fine degli anni ’60, un vero coming out della dimensione sessuale
della donna, accompagnato dal concomitante progresso scientifico sul controllo
della fertilità e la commercializzazione della “pillola”, ad esclusivo uso e consumo
delle donne, che assurge a significato simbolico di controllo personale della
capacità riproduttiva di cui ne acquistano il pieno potere. Potere, questo, che
probabilmente ha amplificato le ambivalenti sensazioni della donna, depositaria
della procreazione che genera, ma che può togliere la vita. Umberto
Galimberti-“I miti del nostro tempo”- infatti, invita alla rilettura in chiave
schietta del mito dell’amore materno, gravido, è il caso di dirlo, di tale
ambivalenza fino a condurre ai gesti estremi di infanticidio o di abbandono o
di maltrattamenti delle prole, sempre più spesso riportati nelle cronache , che
spaventano, scandalizzano, angosciano la
comune fantasia romantica sulle donne, leziosi “oggetti” del focolare, figure depositarie esclusive dei valori della
pace, comodo riferimento alla univoca sfera della vita privata. Ed invece, la violenza
emerge dal femminile al pari del maschile con l’esercizio della forza.
Dalla iniziazione femminile alla sessualità
con lo Ius prime noctis di feudale
memoria, passato poi attraverso il sacro diritto alla deflorazione dopo il rito
matrimoniale , si giunge con un rapido rivolgimento, al diritto delle donne
alla erotizzazione. Per le donne incalza, con nuova consapevolezza, la ricerca
e l’espressione della sessualità come componente della propria carta di
identità personale, irrinunciabile aspetto della relazione di coppia in cui si
embricano, inscindibili, sesso e amore. Si apre lo scenario dei rapporti
sessuali liberi, completi, precoci, prematrimoniali, col diritto al piacere
delle donne. Va comunque detto che il
riappropriarsi del proprio corpo, a lungo imprigionato dalla “cultura” mortificante
gli istinti femminili, non ha però
allontanato dalla sfera emozionale delle donne l’investimento affettivo che esse operano nel rapporto di coppia,
essendo quest’ultima verisimilmente istanza autoctona della natura femminile. Permane
un equivoco di fondo nel dialogo inter-genere amplificato o perseguito, dove il
maschio, in qualche misura incoraggiato ad agire la sessualità totalmente
svincolata dal coinvolgimento affettivo, si contrappone ad una femmina addomesticata alla ricerca del
principe Azzurro, relegata in un ruolo preconfezionato, sbavatura del femminile o della femminilità
appresa. Due modalità di ricerca della propria identità che non trovano un modo
di dialogare comune, in qualche misura artatamente separate. Nel contesto della
stessa rivoluzione culturale l’uomo “scopre” la paternità, oggi ritenuta dagli
studiosi(Luigi Zoja) una acquisizione culturale più che autentico impulso
biologico della assistenza alla prole dopo averla generata. Nel volgere di un secolo, un soffio di tempo nelle ere
evoluzionistiche, il lavoro e il potere economico prima, l’istruzione e
contemporaneamente il rivoluzionario potere sessuale indipendente poi, cambiano profondamente lo status delle
donne occidentali nelle diverse componenti relazionali pubblica e privata. In realtà, in
Europa quanto in America, nonostante l’incedere a piccoli passi verso ciò che
apparentemente assume l’aspetto di una visione “democratica” della società
civile con doppia componente maschile-femminile, dove quest’ultima sembrerebbe
poter accedere ai concetti di presenza, espressione, partecipazione, intrisa di
Diritto formale, si ribadisce una restaurazione storica di ritorno. La ‘simpatia’ con cui la
causa femminile viene condivisa nella ammissione delle donne alla Cosa Pubblica, trova un ostacolo nella Unità Familiare per cui la visione della via democratica
e della via liberale all’approccio della questione femminile, finiscono per
coincidere su un motivo dominante: la famiglia( Giovanna Zincone), che in
controtendenza rispetto alla tutela ed allo stesso tempo con una logica
sequenziale stringente, si disgrega. Si apre dolorosamente un conflitto di
interessi ‘paternalista- maternalista’ proprio in seno alla famiglia. Il
dilemma si incupisce: proteggere il lavoro(
welfare state paternalista legato alle dinamiche economiche)o
proteggere la Persona( welfare state maternalista legato alla
salvaguardia dei figli dello Stato)? La Parità ottenuta sul piano del Diritto
confligge con la tutela e le donne sono costrette
a presentarsi al lavoro in abiti da
uomo, rammarico tanto maschile quanto
femminile.
A meno che non si instauri una protesta
teorica nei confronti di un incontestabile organizzazione della Natura sulla
pertinenza squisitamente uterina della conduzione della gravidanza, la
maternità ed i suoi “effetti collaterali” rappresentano, alla stato dell’arte,
non solo uno svantaggio che richiederebbe protezione differenziata, ma un peso
politico-sociale che si tende ad evitare, a non vedere: non piace.
Sicchè, le conquiste ottenute ci si rivoltano
contro. Congedi speciali, orari di lavoro femminili , maternità, malattia, nido
ed asili sono desiderata per “fannullone”
e la fatica della Parità una restaurazione ideologica attualmente ineluttabile,
restando il lavoro di cura parentale non solo a carico delle donne, ma
misconosciuto e non retribuito, coronato dallo squilibrio di potere nei fatti.
La domesticità-dipendenza-bellezza-dolcezza-procreazione delle donne garantisce una piena cittadinanza
maschile, che esclude la piena cittadinanza femminile: un circolo ingannevole
da interrompere, perché in dietro non si ritorna, ferme restando le
acquisizioni consapevoli delle Differenze. Non incapaci, ma incapacitate a
sostenere la compatibilità carriera-famiglia
(work-life balance). Anne
Marie Slaughter, super professoressa di Princeton ed ex consigliera di Obama, il 17 luglio dello
scorso anno si dimette dall’incarico annunciando al mondo:” Smettiamola di
desiderare la parità dei sessi, non la avremo mai”. Sfiancata più nello spirito
che nel corpo motiva la sua scelta, che risuona grave in tutto il mondo femminile
attento, per amore di suo figlio, adolescente in crisi, e svela al mondo che
una falsità enorme si lascia serpeggiare
nella psiche femminile: “Farcela nel lavoro e nella famiglia dipende più di
ogni altra cosa dalla caparbietà personale”. Il suo verdetto finale, nonostante
gli elogi al marito per la strenua collaborazione, è che per una donna è
impossibile farcela nel lungo periodo se il lavoro passa attraverso una agenda
al maschile. Il prezzo da pagare alla carriera è l’acquisizione incondizionata
delle “palle”, ossia di uno stile di comportamenti e scelte operate da una analitica
mente mascolinizzata tutte le mattine, possibilmente
evitando lo specchio o la ciclicità lunare, vera Potenza della Natura che le
donne portano dentro con tutti quei valori che le sono connaturati. Stride e
soffre, per la forzatura indotta, sia la identità maschile che quella femminile
della specie umana, alla ricerca di se stessa nelle sue due componenti
complementari.
L’adattamento, ancora
in corso, non è stato indolore nello scuotere alla radice un sistema di relazione tra i sessi che
non trova pace, una stabile definizione
e vaga nella confusione. Carol Pateman auspica: “un ordine sociale differenziato in cui le varie
dimensioni siano distinte, ma non separate od opposte, e che si fondi su una
concezione sociale dell’individualità che includa gli uomini e le donne come
creature biologicamente differenziate, ma non ineguali”. E dunque, se donna non
si nasce, ma si diventa, cosa siamo diventate o cosa la Storia ci ha permesso
di diventare?! Una “evoluzione” in corso d’opera ed ulteriori pagine dovranno
essere scritte da auspicabile Ministero delle Diverse Opportunità.
Le ragioni biologiche
Le
ragioni storiche non possono e non devono prescindere dalle ragioni biologiche
ancora più intrise di affascinanti quanto complesse differenze.
Pare
che l’emozione ‘amore’ sia condivisa da
Uomo e Donna.
Curioso
a dirsi, ancora una volta, resta dolcemente materno per le donne, carnale per
gli uomini nella cultura corrente. Fino a che punto questa realtà sia biologica
e totalizzante non siamo in grado di
dirlo. Resta il fatto che si
celebra l’istinto materno e la parola
istinto suona non solo accettabile, ma musicale e sublime, mentre la stessa
parola risulta disdicevole se si accompagna all’aggettivo ‘sessuale’ nei
confronti della stessa donna. Ci si interroga negli ambienti scientifici sul
significato del piacere femminile, sulla sua funzione nella economia della
riproduzione, essendo di tutta evidenza che il piacere maschile risulta
necessitato ai fini della continuità della specie, al pari ciò non trova
riscontro nel sesso femminile che, secondo le attuali conoscenze, avrebbe significato prevalentemente “ludico” nella
specie umana. Non di poco conto la possibilità per le femmine della specie
umana di essere libere dalla necessità, ma potenti nella volontà. Pertanto, una
apparente subordinazione anatomica che si arrende, ‘mancante’ della potenza
coeundi, finisce per evolvere in un concedere, con investimento nelle attese, verso
la ‘potenza’ maschile, e diventa subliminarmente dominante sul piano della
relazione strettamente sessuale. In sintesi in ambito etologico, la volontà
femminile condurrebbe il giuoco nella scelta ( selezione intersessuale), e il
maschio competerebbe per aggiudicarsela(selezione
intrasessuale), fermo restando la necessità della dimostrazione della potentia coeundi.
Procedendo oltre nella antropologia, il potere
del grembo materno grande impatto deve aver avuto, e conserva ancora, sulla
origine della oppressione sulle donne per l’indiscusso fenomeno della volontà
di controllo dei processi riproduttivi da parte dell’uomo. La questione della
oppressione femminile si giuoca con molta probabilità sul tavolo della
procreazione, tra volontà dell’accoppiamento del femminile e volontà di
controllo del maschile. Resterebbe da spiegare il perché di questa volontà di
controllo, supportata dalla maggiore forza anatomica del maschio rispetto alla
femmina, ed istituzionalizzata nei poteri sociali. Le tesi si avvicendano
numerose, ma ancora nessuna risposta certa sulle motivazioni antropologiche,
storiche e culturali risulta soddisfacente alla domanda : perché l’uomo risulta
dominante sulla donna invece che complementare? Grace Atkinson parla di
“cannibalismo metafisico” per cui l’appropriarsi della identità della vittima
ci rende forti, sicuri di esistere. Secondo la studiosa l’uomo approfitterebbe
dello stato di ‘debolezza’ in cui le donne si trovano durante la gravidanza ed il parto, che
impongono ‘dipendenza’, per accrescere
il suo senso del potere sottratto del
potere di partorire, di dare alla luce, e quindi la ragione ultima risiederebbe nella
diversa fisiologia dei generi. A
sua volta il farsi vittima potrebbe essere un desiderio rassicurante: il dominio
può essere praticabile se c’è chi accetta di subirlo per un ipotetico vantaggio.
Scaturisce un interrogativo: la donna è portata naturalmente al lasciarsi
guidare? Il nodo della questione sul buon funzionamento di un gruppo sociale
sta nell’equilibrio del benessere dei suoi membri. Se il ruolo della donna e
quello dell’uomo fossero accettati ed accettabili, nella loro dimensione di
equa diversità per entrambi, non si porrebbe il problema del diritto e del suo
rispetto per la tutela del gruppo
sociale femminile. Evidentemente, se il malessere è oggettivabile per una
condizione non accettata e non accettabile, deve pur esser vero che non rientra
nella natura femminile il farsi vittima, piuttosto la “oblatività”,
risulterebbe una prassi e non una pulsione intrinseca del femminile(Piera
Zumaglino).
Alla
fisiologia zoologica fa riferimento anche Luigi Zoja: egli sostiene che
nell’evoluzione dei mammiferi si può facilmente apprezzare quanto le stesse
dimensioni del maschio e della femmina siano diverse e, entrando ancora di più nella specializzazione
dei generi, vi sia una continuità naturale
ed istintuale nel rapporto madre/figlio, mentre ciò deve essere appreso
culturalmente dal maschio, la cui primigenia istanza è di fecondatore e non di
padre, genitore in quanto donatore di geni, non necessariamente padre. Di ciò è
prolifica la mitologia.
Alle
mille esasperazioni osservazionali sulle
donne fa da contraltare un Uomo.
“Eclissi” di un Uomo che reagisce collettivamente,
come fosse inconscio epidemico, con rabbia, con violenza verso la donna della quale percepisce
una perdita del controllo che si esprime come metafora nell’ambito del lavoro,
con l’accrescimento della autonomia e del potere della donna, divenendo femminicidio,
stalking. Scrive Zoja: “ Credo che questo sia il
passaggio fondamentale. Il maschile non paterno(il maschio che compete per la fecondazione ) ha natura
animale, ed è per questo che ritorna prepotentemente sulla scena tutte le volte
che l’educazione culturale si sfalda. L’identità maschile paterna(
identificabile nel ruolo familiare) è squisitamente culturale e va insegnata,
ritualizzata, trasmessa; altrimenti si perde facilmente.” Una rievocazione che
egli stesso definisce Centaurismo, dove il processo di umanizzazione rimane
incompleto in un maschio predatore che conserva intatta la sua natura animale. Erik
Erikson sostiene che se vacilla l’aspetto maschile civile, quello del padre
culturalmente appreso, la separatezza tra maschile e femminile si esaspera ed
il femminile diviene talmente lontano dalla propria specie da essere percepito
come nemico incontrollabile da cui difendersi, cadendo, in tal modo,
l’inibizione ad uccidere in senso allegorico e non. Queste le ragioni
attualmente dibattute su un fenomeno spaventoso per la società civile, meno
sorprendente per la natura umana. Le ragioni della subordinazione femminile
nelle ipotesi analizzate contengono la risoluzione. Forza da una parte e
conoscenza dall’altra come espressioni del Potere, della egemonia. Se il passo deve
essere rivolto nella direzione del rispetto della Dignità dell’essere umano “colto”, si deve considerare l’attacco complessivo alle
strutture sociali, né solo maschile né solo femminile della crescita culturale.
L’azione
deve essere volta a coinvolgere la Persona in un processo di riflessione
intelligente(non stupido, né desiderato tale) sugli istinti, pur sempre di
natura vitale, alimentando il senso di giustizia, pur sempre innata.
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