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Centauri e femminicidio di Stella Morgese












“Purtroppo non sei stupida”… donna che alzi la testa sotto la scure di una ingiustizia.

Un messaggio vergato, verrebbe da dire, giacchè digitato suona meno importante del peso del segno. Un ‘purtroppo’ di troppo, pronunciato dall’inconscio che lavora al di là delle intenzioni e si palesa in tutto il suo risentimento da parte di un uomo che, evidentemente, ha perso il controllo su una donna che avrebbe preferito ‘stupida’. Si, stupida , meno intelligente, meno attenta, meno critica, meno acuta, meno presente, scoordinata, smemorata, distratta, controllabile, piegata, obbediente, meno vivace, meno capace di importunare poteri assodati.  Un messaggio valido  tutte le volte che il soggetto della contenuta invettiva comprometta, con la sua intelligenza, l’esercizio di un indisturbato potere: un uomo sano su un uomo malato, un adulto su un bambino, un prepotente su un mite, un potente su un uomo comune, un uomo su una donna, piu difficile una donna su un uomo.
Dà  fastidio la protesta.
“ Le ingiustizie esistono, fattene una ragione”, e chi le subisce ha esattamente quel ruolo, deve restare in quel ruolo: vittima. Se esce dal ruolo, la vittima passa al ruolo di ‘ribelle’, fa la guerra alla forza come diritto, priva del potere chi lo esercita.

Orientiamoci, che siamo disorientati.
 Orientarsi, ha la stessa radice di Oriente, di etimologia latina proviene da orior, ossia nascere, sorgere, andare dove sorge il sole, portarsi verso la luce, alle origini, perchè siamo al buio.
Dunque, cosa lega o slega gli esseri umani  tra loro? Cosa stabilisce le reciproche forze? Chi comanda su chi? Chi ha potere su chi? Chi garantisce chi?
L’uomo è animale politico, sosteneva Aristotele, e vive nella polis e nella polis intrattiene relazioni. Ciò sembrerebbe spinta innata così come lo è il sentimento di giustizia. Se ad un bambino viene tolto un suo giocattolo è facile che  se ha voce, si ribelli col pianto, con le urla, lo rivendichi  con forza sentendo il gesto ingiusto. Eppure nessuno gli ha fatto scuola sul senso della giustizia: quel giocattolo è suo e gli è stato sottratto. Ma la giustizia non può essere solo soggettiva, necessariamente deve porsi in relazione al senso di giustizia di altri, deve oggettivarsi. Per regolamentare i rapporti tra gli esseri umani vi è la Legge. Ecco:  il Diritto lega gli uomini gli uni agli altri, e la comunità  non può che essere legata da norme. Ma la legge non è necessariamente “giusta”, e peraltro non si riesce ad immaginare un mondo senza diritto. Quale sarebbe, dunque,  la norma principale in un  mondo senza legge? Esiste una Legge Naturale: la Legge del più Forte, quindi colui che detiene il potere di poter esercitare quella legge è titolare di quella legge, esercita un diritto, che sia equo oppure no rispetto alle istanze reciproche. Né più né meno che la legge della giungla, tra branchi di animali, pur rispettabili animali.
Ci sentiamo offesi da questa connotazione? Allora bisognerebbe invocare un concetto superiore: l’Uomo viene fuori dallo stato di animale e riconosce la Dignità di se stesso e del suo simile. L’Uomo, quando si dà il Diritto, tende ad andare verso di sé, ossia al suo essere Uomo. Dignità e Diritto a tutela della condizione umana, della considerazione in cui l’uomo tiene se stesso e gli altri. Manca dignità quando viene meno la considerazione di se stesso e dell’altro, dunque. Quando la componente animale aggressiva prevarica la dignità, si fa spazio la incapacità di farsi carico della sofferenza dell’altro ed il ‘narcisismo’ indifferente, insano amor proprio, diventa prepotenza, forza, fino alla violenza, alla guerra.
 La guerra come istinto, senza ipocrisie semantiche. La parola violenza suggerisce una immagine interiore, senza mezzi termini, del dolore inferto a qualcuno a causa della nostra forza.
 Vorremmo volare alto? Vorremmo spiccare il volo oltre il volo radente degli istinti animali? Dignità, rispetto, lealtà, cooperazione, comunicazione, dialogo, solidarietà, partecipazione, sostegno: un  vocabolario molto pronunciato , ma poco sentito dagli istinti.
Tante cose non si dovrebbero fare : non si dovrebbe danneggiare la faccia della Terra,non si dovrebbero maltrattare gli animali, non si dovrebbero abbandonare i bambini, non si dovrebbero abbandonare gli anziani, non si dovrebbero violentare le donne, e noi come cittadini della polis, animali politici, dovremmo essere portatori di una etica seria, regolata da norme come riferimenti stabili del proprio se.
E cosa sta accadendo a questo animale politico, perché “uccide” le donne?
Tutti pronti a scandalizzarci sul piano civile politico, ma la parola animale incombe se facciamo riferimento alla biologia. E’ ineliminabile come Legge della Natura cui obbediamo,  e che non possiamo controllare totalmente, ci appartiene in diversa misura, quanto più ci si avvicina alla natura animale.
 Allora perché ci indigniamo? Ci indigniamo perche’ non possiamo farne a meno, scriveva Freud.
Se si slatentizza la componente animale della specie umana deprivata della “educazione”, il Diritto soccombe alla Forza, essendo il Diritto una modificazione evolutiva della vita pulsionale e tutte le volte che l’ammaestramento educativo, la civilizzazione viene meno, la violenza prende piede. Per estremizzare: persino l’indignazione potrebbe contenere a sua volta un desiderio belligerante contro la violenza stessa.
 Dignità, Diritto e Forza legati ragionevolmente dall’utilizzo della Intelligenza.
Tutte le volte che la forza antropologica dell’uomo prevarica la sua intelligenza, il diritto di ‘essere’ della donna si allontana nel divenire.

Le ragioni storiche.
“Donna non si nasce, si diventa”, le ragioni storiche in un classico aforisma della letteratura femminista nello scandaloso libro di Simone de Beauvoir , in cui la donna deve cimentarsi in  una ardua impresa per trascendere se stessa dal concetto di ‘femminilità’ che presuppone un non-riconoscimento del suo farsi Soggetto. In ciò, secondo l’autrice, risiederebbe una delle cause storiche della subordinazione della donna  come Oggetto e non di Altro Assoluto oltre l’uomo.
 Come, grazie a chi, grazie a che cosa si diventa donne? L’affermazione  suona sibillina come una sentenza . Una rivoluzione  ancora in corso d’opera od una contro-rivoluzione?
 Donne dalla A alla Z, in lungo ed in largo, a dritta ed a manca, nel tempo verticale e nello spazio orizzontale, in una disamina  di aspetti biologici, storici, culturali, sociali, dalla pubblicazione  della de Beauvoir ad ora, in un martellamento continuo come insistente ronzio nelle orecchie  cosmiche. Le donne persistentemente sotto i riflettori di una  inefficace quanto abusata  azione di ciò che avrebbe dovuto esser un  dato acquisito nel bilancio complessivo della Storia, ancora un divenire lontano,  in continuo rimaneggiamento, non esente da responsabilità declinate al femminile. Dovrebbe risultare pleonastica  la sottolineatura del bisogno-desiderio della persona-donna del diritto ai diritti civili, politici e sociali, della sua parità come individuo facente parte della specie umana, della sua realizzazione nei diversi ambiti della vita, ed invece il dato appare acquisito nella sua forma di espressione verbale, ma non nella sua prassi agìta del vissuto percepito da uomo e donna. Un asincronismo storico che stenta a portare il passo del ritmo della trasformazione: se da un lato milioni di parole scritte e pronunciate hanno portato in occidente, dopo quasi un  secolo e più di lotte, al raggiungimento di una  coscienza sociale istituzionalizzata della Parità sul piano del Diritto, dall’altro lato le donne sono già oltre o, paradossalmente, in retrocessione. Gli uomini, a nostro modo di vedere, immobili.
Perchè  tanto parlare?  Dove sono nascosti i perché? Cosa ci anima?
Il disagio storico cui assistiamo da protagonisti e da spettatori contemporaneamente, funge da pungolo. Esso preme contro le nostre coscienze di uomini e donne nel tentativo ancestrale di sottrarsi al dolore. La ricerca di risposte diventa urgente. La svolta stabilizzante auspicata  si palpa, mentre ancora si attraversa il nodo della trasformazione.  Siamo, a parere degli studiosi, di fronte a ciò che potremmo definire la Terza Rivoluzione Femminile(Jole Baldaro Verde)e, consapevolmente o meno, l’umore collettivo ne risente. La vita dell’individuo scandita a tappe demarcate è tranquillizzante, stenta a trovare la sua fluidità nelle trasformazioni. A ciò si aggiunga che la nostra era reca con se il fattore ‘velocità’ che non consente tempi di recupero fisiologici, ma trasformazioni subentranti senza tempi di refrattarietà. Una sorta di sollecitazione ‘neurologica’ continua fino alla anestesia morale, un sentire sopito, abituato, rassegnato, indifferente. I tempi di lady Caroline Norton (1808-1887),  quando le donne venivano equiparate ai minori o a soggetti malati di mente, per cui era negato loro il diritto di presenziare ai processi in  cui erano imputate, sono davvero lontani e trapassati remoti sono i tempi della coniugazione del verbo “emanciparsi”. ‘Emancipazione Femminile’ connota, a tutt’oggi , una espressione moderata dell’abbattimento delle barriere legali e sociali che in qualche misura relegavano la donna ad una condizione di sudditanza verso l’uomo, fosse egli il padre, il fratello, od il marito, e che si frapponevano al suo accesso a stili di vita, professioni e privilegio sociale squisitamente maschili. E’ diffusa l’idea che le profonde e repentine modificazioni sociali e politiche, messe in atto dalle Suffragette nel mondo del lavoro e della istruzione,  abbiano impresso conseguenze di non poco conto sui costumi della intera società detta occidentale. L’individuo che può vivere dei suoi stessi guadagni gode non solo di autonomia economica, ma beneficia della libertà interiore che sostiene il senso del potere personale.  Pertanto  l’aspetto economico personale  si fa sociale, di costume. Fece eco alla suffragette , dopo circa mezzo secolo, una definizione della donna ancora più densa e radicale con i movimenti femministi di “liberazione”, per cui alla richiesta di uguaglianza con gli uomini  sul  piano del Diritto, delle opportunità, della dignità, si sommava una modificazione inedita della società occidentale in cui la donna avanzava  nella affermazione della Identità propria,  non subordinata a quella maschile sul piano personale. Non può mancare il riferimento alla “Rivoluzione  sessuale” della fine degli anni ’60, un vero coming out della dimensione sessuale della donna, accompagnato dal concomitante progresso scientifico sul controllo della fertilità e la commercializzazione  della “pillola”, ad esclusivo uso e consumo delle donne, che assurge a significato simbolico di controllo personale della capacità riproduttiva di cui ne acquistano il pieno potere. Potere, questo, che probabilmente ha amplificato le ambivalenti sensazioni della donna, depositaria della procreazione che genera, ma che può togliere la vita. Umberto Galimberti-“I miti del nostro tempo”- infatti, invita alla rilettura in chiave schietta del mito dell’amore materno, gravido, è il caso di dirlo, di tale ambivalenza fino a condurre ai gesti estremi di infanticidio o di abbandono o di maltrattamenti delle prole, sempre più spesso riportati nelle cronache , che spaventano, scandalizzano,  angosciano la comune fantasia romantica sulle donne, leziosi “oggetti” del focolare,  figure depositarie esclusive dei valori della pace, comodo riferimento alla univoca sfera della vita privata. Ed invece, la violenza emerge dal femminile al pari del maschile con l’esercizio della forza.
 Dalla iniziazione femminile alla sessualità con lo Ius prime noctis di feudale memoria, passato poi attraverso il sacro diritto alla deflorazione dopo il rito matrimoniale , si giunge con un rapido rivolgimento, al diritto delle donne alla erotizzazione. Per le donne incalza, con nuova consapevolezza, la ricerca e l’espressione della sessualità come componente della propria carta di identità personale, irrinunciabile aspetto della relazione di coppia in cui si embricano, inscindibili, sesso e amore. Si apre lo scenario dei rapporti sessuali liberi, completi, precoci, prematrimoniali, col diritto al piacere delle donne.  Va comunque detto che il riappropriarsi del proprio corpo, a lungo imprigionato dalla “cultura” mortificante  gli istinti femminili, non ha però allontanato dalla sfera emozionale delle donne  l’investimento affettivo  che esse operano nel rapporto di coppia, essendo quest’ultima verisimilmente istanza autoctona della natura femminile. Permane un equivoco di fondo nel dialogo inter-genere amplificato o perseguito, dove il maschio, in qualche misura incoraggiato ad agire la sessualità totalmente svincolata dal coinvolgimento affettivo,  si contrappone ad una  femmina addomesticata alla ricerca del principe Azzurro, relegata in un ruolo preconfezionato,  sbavatura del femminile o della femminilità appresa. Due modalità di ricerca della propria identità che non trovano un modo di dialogare comune, in qualche misura artatamente separate. Nel contesto della stessa rivoluzione culturale l’uomo “scopre” la paternità, oggi ritenuta dagli studiosi(Luigi Zoja) una acquisizione culturale più che autentico impulso biologico della assistenza alla prole dopo averla generata. Nel volgere di un  secolo, un soffio di tempo nelle ere evoluzionistiche, il lavoro e il potere economico prima, l’istruzione e contemporaneamente il rivoluzionario potere sessuale indipendente  poi, cambiano profondamente lo status delle donne occidentali nelle diverse componenti  relazionali pubblica e privata. In realtà, in Europa quanto in America, nonostante l’incedere a piccoli passi verso ciò che apparentemente assume l’aspetto di una visione “democratica” della società civile con doppia componente maschile-femminile, dove quest’ultima sembrerebbe poter accedere ai concetti di presenza, espressione, partecipazione, intrisa di Diritto formale, si ribadisce una restaurazione  storica di ritorno. La ‘simpatia’ con cui la causa femminile viene condivisa nella ammissione delle donne alla Cosa Pubblica, trova un ostacolo nella  Unità Familiare per cui la visione della via democratica e della via liberale all’approccio della questione femminile, finiscono per coincidere su un motivo dominante: la famiglia( Giovanna Zincone), che in controtendenza rispetto alla tutela ed allo stesso tempo con una logica sequenziale stringente, si disgrega. Si apre dolorosamente un conflitto di interessi ‘paternalista- maternalista’ proprio in seno alla famiglia. Il dilemma si incupisce: proteggere il lavoro( welfare state paternalista legato alle dinamiche economiche)o proteggere  la Persona( welfare state maternalista legato  alla salvaguardia dei figli dello Stato)? La Parità ottenuta sul piano del Diritto confligge con la tutela e le donne sono costrette  a presentarsi al lavoro in abiti da uomo, rammarico tanto maschile  quanto femminile.
 A meno che non si instauri una protesta teorica nei confronti di un incontestabile organizzazione della Natura sulla pertinenza squisitamente uterina della conduzione della gravidanza, la maternità ed i suoi “effetti collaterali” rappresentano, alla stato dell’arte, non solo uno svantaggio che richiederebbe protezione differenziata, ma un peso politico-sociale che si tende ad evitare, a non vedere: non piace.
 Sicchè, le conquiste ottenute ci si rivoltano contro. Congedi speciali, orari di lavoro femminili , maternità, malattia, nido ed asili sono desiderata per “fannullone” e la fatica della Parità una restaurazione ideologica attualmente ineluttabile, restando il lavoro di cura parentale non solo a carico delle donne, ma misconosciuto e non retribuito, coronato dallo squilibrio di potere nei fatti. La domesticità-dipendenza-bellezza-dolcezza-procreazione  delle donne garantisce una piena cittadinanza maschile, che esclude la piena cittadinanza femminile: un circolo ingannevole da interrompere, perché in dietro non si ritorna, ferme restando le acquisizioni consapevoli delle Differenze. Non incapaci, ma incapacitate a sostenere la compatibilità carriera-famiglia  (work-life balance). Anne Marie Slaughter, super professoressa di Princeton  ed ex consigliera di Obama, il 17 luglio dello scorso anno si dimette dall’incarico annunciando al mondo:” Smettiamola di desiderare la parità dei sessi, non la avremo mai”. Sfiancata più nello spirito che nel corpo motiva la sua scelta, che risuona grave in tutto il mondo femminile attento, per amore di suo figlio, adolescente in crisi, e svela al mondo che una falsità enorme si lascia  serpeggiare nella psiche femminile: “Farcela nel lavoro e nella famiglia dipende più di ogni altra cosa dalla caparbietà personale”. Il suo verdetto finale, nonostante gli elogi al marito per la strenua collaborazione, è che per una donna è impossibile farcela nel lungo periodo se il lavoro passa attraverso una agenda al maschile. Il prezzo da pagare alla carriera è l’acquisizione incondizionata delle “palle”, ossia di uno stile di comportamenti e scelte operate da una analitica mente mascolinizzata  tutte le mattine, possibilmente evitando lo specchio o la ciclicità lunare, vera Potenza della Natura che le donne portano dentro con tutti quei valori che le sono connaturati. Stride e soffre, per la forzatura indotta, sia la identità maschile che quella femminile della specie umana, alla ricerca di se stessa nelle sue due componenti complementari.
L’adattamento, ancora in corso, non è stato indolore nello scuotere alla  radice un sistema di relazione tra i sessi che non trova pace, una  stabile definizione e vaga nella confusione. Carol Pateman auspica: “un ordine sociale differenziato in cui le varie dimensioni siano distinte, ma non separate od opposte, e che si fondi su una concezione sociale dell’individualità che includa gli uomini e le donne come creature biologicamente differenziate, ma non ineguali”. E dunque, se donna non si nasce, ma si diventa, cosa siamo diventate o cosa la Storia ci ha permesso di diventare?! Una “evoluzione” in corso d’opera ed ulteriori pagine dovranno essere scritte da auspicabile Ministero delle Diverse Opportunità.
Le ragioni biologiche
Le ragioni storiche non possono e non devono prescindere dalle ragioni biologiche ancora più intrise di affascinanti quanto complesse differenze.
Pare  che l’emozione ‘amore’ sia condivisa da Uomo e Donna. 
Curioso a dirsi, ancora una volta, resta dolcemente materno per le donne, carnale per gli uomini nella cultura corrente. Fino a che punto questa realtà sia biologica e  totalizzante non siamo in grado di dirlo.  Resta il fatto che si celebra  l’istinto materno e la parola istinto suona non solo accettabile, ma musicale e sublime, mentre la stessa parola risulta disdicevole se si accompagna all’aggettivo ‘sessuale’ nei confronti della stessa donna. Ci si interroga negli ambienti scientifici sul significato del piacere femminile, sulla sua funzione nella economia della riproduzione, essendo di tutta evidenza che il piacere maschile risulta necessitato ai fini della continuità della specie, al pari ciò non trova riscontro nel sesso femminile   che, secondo le attuali conoscenze, avrebbe  significato prevalentemente “ludico” nella specie umana. Non di poco conto la possibilità per le femmine della specie umana di essere libere dalla necessità, ma potenti nella volontà. Pertanto, una apparente subordinazione anatomica che si arrende, ‘mancante’ della potenza coeundi, finisce per evolvere in un concedere, con investimento nelle attese, verso la ‘potenza’ maschile, e diventa subliminarmente dominante sul piano della relazione strettamente sessuale. In sintesi in ambito etologico, la volontà femminile condurrebbe il giuoco nella scelta ( selezione intersessuale), e il maschio competerebbe  per aggiudicarsela(selezione intrasessuale), fermo restando la necessità della dimostrazione della  potentia coeundi.  
 Procedendo oltre nella antropologia, il potere del grembo materno grande impatto deve aver avuto, e conserva ancora, sulla origine della oppressione sulle donne per l’indiscusso fenomeno della volontà di controllo dei processi riproduttivi da parte dell’uomo. La questione della oppressione femminile si giuoca con molta probabilità sul tavolo della procreazione, tra volontà dell’accoppiamento del femminile e volontà di controllo del maschile. Resterebbe da spiegare il perché di questa volontà di controllo, supportata dalla maggiore forza anatomica del maschio rispetto alla femmina, ed istituzionalizzata nei poteri sociali. Le tesi si avvicendano numerose, ma ancora nessuna risposta certa sulle motivazioni antropologiche, storiche e culturali risulta soddisfacente alla domanda : perché l’uomo risulta dominante sulla donna invece che complementare? Grace Atkinson parla di “cannibalismo metafisico” per cui l’appropriarsi della identità della vittima ci rende forti, sicuri di esistere. Secondo la studiosa l’uomo approfitterebbe dello stato di ‘debolezza’ in cui le donne  si trovano durante la gravidanza ed il parto, che impongono  ‘dipendenza’, per accrescere il suo senso del potere  sottratto del potere di partorire, di dare alla luce,  e quindi la ragione ultima risiederebbe nella diversa fisiologia dei generi. A sua volta il farsi vittima potrebbe essere un desiderio rassicurante: il dominio può essere praticabile se c’è chi accetta di subirlo per un ipotetico vantaggio. Scaturisce un interrogativo: la donna è portata naturalmente al lasciarsi guidare? Il nodo della questione sul buon funzionamento di un gruppo sociale sta nell’equilibrio del benessere dei suoi membri. Se il ruolo della donna e quello dell’uomo fossero accettati ed accettabili, nella loro dimensione di equa diversità per entrambi, non si porrebbe il problema del diritto e del suo rispetto  per la tutela del gruppo sociale femminile. Evidentemente, se il malessere è oggettivabile per una condizione non accettata e non accettabile, deve pur esser vero che non rientra nella natura femminile il farsi vittima, piuttosto la “oblatività”, risulterebbe una prassi e non una pulsione intrinseca del femminile(Piera Zumaglino).
  Alla fisiologia zoologica fa riferimento  anche Luigi Zoja: egli sostiene che nell’evoluzione dei mammiferi si può facilmente apprezzare quanto le stesse dimensioni del maschio e della femmina siano diverse e,  entrando ancora di più nella specializzazione dei generi,  vi sia una continuità naturale ed istintuale nel rapporto madre/figlio, mentre ciò deve essere appreso culturalmente dal maschio, la cui primigenia istanza è di fecondatore e non di padre, genitore in quanto donatore di geni, non necessariamente padre. Di ciò è prolifica la mitologia.

Alle mille esasperazioni  osservazionali sulle donne  fa da contraltare un Uomo. “Eclissi” di  un Uomo che reagisce collettivamente, come fosse inconscio epidemico, con rabbia, con  violenza verso la donna della quale percepisce una perdita del controllo che si esprime come metafora nell’ambito del lavoro, con l’accrescimento della autonomia e del potere della donna, divenendo  femminicidio, stalking.  Scrive Zoja: “ Credo che questo sia il passaggio fondamentale. Il maschile non paterno(il maschio che  compete per la fecondazione ) ha natura animale, ed è per questo che ritorna prepotentemente sulla scena tutte le volte che l’educazione culturale si sfalda. L’identità maschile paterna( identificabile nel ruolo familiare) è squisitamente culturale e va insegnata, ritualizzata, trasmessa; altrimenti si perde facilmente.” Una rievocazione che egli stesso definisce Centaurismo, dove il processo di umanizzazione rimane incompleto in un maschio predatore che conserva intatta la sua natura animale. Erik Erikson sostiene che se vacilla l’aspetto maschile civile, quello del padre culturalmente appreso, la separatezza tra maschile e femminile si esaspera ed il femminile diviene talmente lontano dalla propria specie da essere percepito come nemico incontrollabile da cui difendersi, cadendo, in tal modo, l’inibizione ad uccidere in senso allegorico e non. Queste le ragioni attualmente dibattute su un fenomeno spaventoso per la società civile, meno sorprendente per la natura umana. Le ragioni della subordinazione femminile nelle ipotesi analizzate contengono la risoluzione. Forza da una parte e conoscenza dall’altra come espressioni del Potere, della egemonia. Se il passo deve essere rivolto nella direzione del rispetto della Dignità dell’essere umano “colto”,  si deve considerare l’attacco complessivo alle strutture sociali, né solo maschile né  solo femminile della crescita culturale.
L’azione deve essere volta a coinvolgere la Persona in un processo di riflessione intelligente(non stupido, né desiderato tale) sugli istinti, pur sempre di natura vitale, alimentando il senso di giustizia, pur sempre innata.

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