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L'addict , portatore di un disturbo complesso.

L’addict si configura dunque come portatore di un disturbo complesso che si articola in sindromi psicofisiche dalla complessa natura, difficilmente interpretabili né per mezzo di modelli biologici lineari, meccanicistici, eziologici, né per mezzo di modelli esclusivamente psicologici.
Come afferma Gabbard (2000) «la polarizzazione della psichiatria fra aspetti biologici da una parte e aspetti psicosociali dall’altra ha promosso una forma di dualismo cartesiano. Le conoscenze attuali sull’interazione fra biologia e psicologia permettono invece di concepire l’approccio al trattamento in una prospettiva autenticamente integrata (...). I progressi della ricerca nelle neuroscienze hanno infatti permesso di comprendere in modo più accurato e preciso come la psicoterapia possa influenzare il cervello. Tali sviluppi indicano la strada verso una nuova era nella ricerca e nella pratica della psicoterapia, in cui si potranno sviluppare modalità psicoterapeutiche specifiche da indirizzare su aree specifiche del funzionamento cerebrale» (Gabbard, 2000).
I modelli epistemologici lineari sono, infatti, incompleti proprio in quanto privi della possibilità di feed-back che informino sulla loro reale efficacia. Fortunatamente gli studi di follow-up dei trattamenti, un tempo sconosciuti sia da pubblici che da privati, oggi si moltiplicano proprio per capire in che direzione stiamo andando e questo segnala un passaggio da un pensiero ideologico, assolutista, non riflessivo, autoreferenziale, chiuso, ad un pensiero più sollecito e attento agli esiti e ai confronti.
Certo la ricerca di strutture, o se si vuole di invarianti, di costanti, di a priori, ha in sé il rischio di ogni operazione logica consistente nel raggruppare fenomeni simili, ma non uguali in una classe. È il rischio di un intervento deduttivo dal generale al particolare lì dove la prassi ci suggerisce induttivamente, dal particolare al generale, di poter considerare simili i fenomeni osservati.
Dal punto di vista epistemologico, vi è un ritorno dell’interrogativo principe della scienza: si conosce la realtà per applicazione di modelli mentali a priori (modello deduttivo) o è dall’osservazione della realtà (modello induttivo-empirico) che si costruiscono modelli scientifici?
La tradizione ippocratica concepiva un continuum tra salute e malattia lungo determinate dimensioni: fu la rivale scuola platonica invece a postulare che le malattie potessero essere catalogate in tipi ideali e distinti l’uno dall’altro. Utilizzare categorie significa suddividere le malattie mentali appunto in categorie diagnostiche (in linea con la tradizione kraepeliniana). Utilizzare dimensioni significa distribuire le malattie seguendo variazioni di gravità, di personalità, d’umore, capacità cognitiva e percezione secondo un continuum che va fino alla normalità. In campo scientifico si è assistito ad un’evoluzione da modelli dicotomici categoriali (oggi diremmo digitali) a modelli dimensionali analogici in cui c’è un continuum di gradazioni della dimensione che indaghiamo. L’approccio categoriale rischia di ridurre la complessità (anzi è talvolta uno strumento per gestire l’ansia e le difficoltà della complessità semplificandola) e di reificare le categorie stesse dimenticando la differenza che esiste fra mappa e territorio e anzi pensando che la mappa sia ipso facto il territorio stesso.
D’altro canto stiamo attraversando un periodo storico di grandi cambiamenti tecnologici, politico-istituzionali, geografici, economici, scientifici e quindi è anche fisiologico attendersi una nostalgia dei concetti assoluti e le connesse critiche di relativismo. Quello in cui ci troviamo è un mondo globalizzato nel quale in pochissimo tempo ogni campo dell’attività umana si è trasformata. Il concetto stesso di identità cui è legato fin qui tanto del nostro sapere è scosso dalle fondamenta, anche l’identità dei pazienti e dei terapeuti. 
Il pensiero cibernetico stesso ha contribuito al mutamento del tradizionale uso dell’identità. Con l’avvento del web sono infatti cresciute esponenzialmente le possibilità di intercambiabilità dell’identità personale, di genere, sessuale: l’identità, come afferma Baumann (2000) si è fatta più liquida, più sfuggente e multiforme. Questa peculiare occasione culturale di revisione del limite identitario si presta ad essere interpretata in senso megalomanico, narcisistico. Non è un mistero che la cultura dominante sia infatti orientata all’onnipotenza, all’iperattività maniacale o al sospetto paranoideo: entrambi frutto di un’inflazione dell’Io e di un debole interesse nell’esistenza dell’altro che invece meglio si coglie nella riflessione sulla caducità, nel pensiero poetico, nel pensiero riflessivo che ci permette di non leggere alla lettera ciò che avviene in una relazione, ma di ipotizzare che dietro il comportamento dell’altro ci sono delle emozioni che lo spiegano, che lo fondano.
Questo momento storico e culturale pare invece favorire organizzazioni mentali più orientate alla difesa e alla scissione che alla consapevolezza dell’orizzonte esperienziale più ampio che il lavoro di mentalizzazione promette. Ci sono sempre più pazienti che non sanno che cosa sia la vita mentale, che la evacuano in comportamenti concreti. L’evacuazione è molto diffusa nella nostra cultura in cui sembra che il pensiero sia la ragione e la causa di tutti i problemi.
In questo mutato scenario oggi si trovano ad operare nuovi e vecchi professionisti, pubblici e privati con sempre meno certezze assolute e sempre più orizzonti nuovi da scoprire e nuove mappe da inventare per orientarsi.

Come affermano Gaburri e Ambrosiano (2003) è necessario, dunque, che i terapeuti abbiano fatto periodicamente il lutto delle proprie identificazioni per accettare periodicamente la caducità delle proprie teorie di riferimento, aprirsi al nuovo ed in tal modo, “Fare vera scienza".

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