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La dipendenza nella cultura occidentale e orientale


La dipendenza è una modalità di relazione in cui un soggetto si rivolge continuamente ad altri per essere aiutato, guidato e sostenuto (Galimberti, 1992).
Questo è il significato del termine nella cultura occidentale in cui il termine “dipendenza” è quasi sempre negativo. Nella cultura indiana, invece, per esempio, l’atteggiamento nei confronti del termine è più positivo e conciliante. Lo dimostra anche la parola “asrayana” che significa “cercare appoggio in”, “riposarsi su”, “cercar rifugio e sicurezza in”.
Parallelamente dal punto di vista psicologico il modello educativo occidentale è teso a promuovere l’autonomia del bambino, il distacco, l’indipendenza personale è una virtù apprezzata come segno di maturità. In occidente il neonato, dopo la nascita, viene allontanato dalla madre e riportato a lei solo per la poppata anche se questo atteggiamento sta radicalmente mutando. Man mano che cresce il bambino viene incoraggiato a costruire e mantenere una cerchia di amici che frequenta senza i genitori. Allo stesso modo quando gli anziani non sono più autonomi vengono, in genere, allontanati dalla famiglia e ricoverati in apposite strutture dove qualcuno si occupi di loro. Nella cultura giapponese esiste, al riguardo, un concetto fondamentale quello di amae (Takeo Doi, 1991), tipico della cultura giapponese, ma intraducibile e assente nel mondo occidentale. La traduzione italiana di amae può essere quella di “dipendenza”: dipendenza affettiva o, in termini psicoanalitici, “amore passivo di oggetto”. L’esempio più pregnante di amae è quello dei rapporto che il bambino instaura con la madre a partire dal primo anno di vita: il bambino comincia a vedere la madre come un qualcosa di separato da sé, ma anche come qualcuno che gli è indispensabile. L’imponenza di questo concetto, secondo l’autore, risiede nel fatto che «l’amore passivo, amae, contraddistingue la natura specifica della società e della cultura giapponesi». Un altro esempio tipico di amae riguarda la figura dell’imperatore: «l'imperatore si aspetta che quanti lo circondano si occupino di ogni cosa, compreso, ovviamente, il governo dei paese. Per un verso egli dipende completamente da loro, ma dal punto di vista gerarchico è superiore a tutti. Quanto a dipendenza, non è diverso da un lattante, e tuttavia il suo è il rango più elevato del paese, prova innegabile dei rispetto accordato in Giappone alla dipendenza infantile».
Nella cultura indiana si valorizza colui che si prende carico di altri ed è poco sentita la spinta all’autonomia strenua dei bambini e alla loro emancipazione dal contesto familiare. Non viene esercitata alcuna spinta per accelerare lo svezzamento e l’anziano non più indipendente viene “inglobato” nel gruppo familiare che si prende cura di lui. Si tratta di gruppi familiari ampi, allargati, in cui i bambini di varie madri stanno insieme e in cui varie madri si occupano dei bambini delle altre, insieme a nonne e zie non ancora maritate. In un simile modello l’individuo è portato anche da adulto a privilegiare i rapporti affettivi. D’altro canto, come sottolinea Lingiardi (2005), «un’indipendenza autentica poggia sulla capacità di dipendere. Più che di una polarità dipendenza-indipendenza sarebbe meglio parlare di un continuum dipendenza sana/patologica o sicura/insicura, definendo insicure le forme eccessive di dipendenza o, in senso controfobico, d’indipendenza (…) una ricerca disperata dell’altro, visto come unico regolatore del sé o una fuga atterrita dall’altro, visto come una minaccia». In effetti, definire a priori la dipendenza come sempre negativa ci impedisce di verificare se ne esista anche una “buona” o normale e cosa la differenzi da quella “artificiale” o provocata e sempre patologica. I significati di “dipendenza”, propri del linguaggio comune, sembrerebbero accogliere due accezioni antitetiche:
la dipendenza fa parte dell’essere dell’uomo per cui non è possibile non essere dipendenti. Il problema che si pone è sapere quali dipendenze aiutino il soggetto ed il suo gruppo sociale e quali dipendenze, al contrario, assumano forme e contenuti, finalità e conseguenze che minacciano la sua stessa vita;
la dipendenza non fa parte dell’essere proprio dell’uomo, è una condizione artificiale totalmente altra. Se si considera il polo estremo della dipendenza, l’essere ridotti e costretti ad una relazione duale esclusiva, allora è difficile sostenere che la dipendenza faccia parte dell’essere umano come una sua qualità. Ma se questa affermazione è plausibile, è indubbio che la dipendenza non fa che portare alle estreme conseguenze premesse ed organizzazioni cognitive ed affettive già funzionanti nel quotidiano e nei processi di crescita di ognuno.


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