Il DSM descrive un disturbo dipendente di personalità caratterizzato dalla necessità pervasiva ed eccessiva di essere accuditi, che determina comportamento sottomesso e dipendente e timore della separazione. Questa modalità compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti. Il comportamento dipendente e sottomesso è finalizzato a suscitare protezione, e nasce da una percezione di sé come incapace di funzionare adeguatamente senza l’aiuto di altri.
«La dipendenza è uno stile di personalità caratterizzato da quattro componenti principali: motivazionale (forte bisogno di ricevere guida, approvazione e sostegno dagli altri), cognitiva (percezione di sé come impotente e inefficace mentre gli altri sono potenti e sanno governare le situazioni), affettiva(ansia di fronte alla richiesta di funzionare in modo indipendente soprattutto quando i risultati di questo sforzo devono essere valutati dagli altri), comportamentale (tendenza a cercare aiuto, sostegno, approvazione e guida e a sottomettersi nelle relazioni interpersonali)» (Bornstein, 1993).
Il disturbo di personalità e la dipendenza da sostanze paiono condividere una comune eziologia nella cosiddetta relazione di spettro (Maffei, 2005). Lo spettro del disturbo degli impulsi, come abbiamo visto in precedenza, comprenderebbele le personalità borderline e quelle antisociali, il disturbo da sostanze e i disturbi dell’alimentazione, tutti accomunati tra loro dalla tendenza all’azione. Secondo Kernberg (1987) la dipendenza è un sintomo o una patologia che può indurre un funzionamento psicopatologico di tipo borderline caratterizzato dalla difficoltà a controllare gli impulsi, dalla scarsa tolleranza dell’ansia, dall’assenza di difese sublimatorie, dalla presenza di processi di pensiero primario di tipo magico-onnipotente, dalla prevalenza di meccanismi difensivi come la scissione, l’idealizzazione, la proiezione, la negazione, l’onnipotenza e la svalutazione, e da relazioni oggettuali patologiche e incostanti.
Il disturbo di personalità e la dipendenza contribuirebbero allo sviluppo l’una dell’altra nella cosiddetta relazione eziologica (Ttriebwasser, Shea, 1996). I due disturbi si influenzano reciprocamente per quanto riguarda l’emergere e la presentazione degli aspetti clinici nella cosiddetta relazione patoplastica. Questa relazione va intesa come bidirezionale. Il disturbo di personalità eserciterà un profondo effetto sulla modalità di presentazione del disturbo da sostanze, su come questo viene vissuto, sul suo decorso e sulla sua risposta al trattamento (Frances, 1980). Analogamente un effetto del genere sarà esercitato sulla personalità dal disturbo da sostanze (Widiger, Trull, 1993).
Stone (1989) ha cercato, successivamente, di definire il ruolo dei due disturbi come primario o secondario. Il disturbo di personalità può essere un fattore di rischio per l’esordio del disturbo da sostanze o può invece svolgere un ruolo più direttamente eziologico o patoplastico. Il disturbo da sostanze può, dal canto suo, influenzare notevolmente il manifestarsi del disturbo di personalità: la condotta tossicomanica impatterebbe così profondamente sul funzionamento psichico, oltre che comportamentale, dell’individuo da implicare importanti ripercussioni sulla personalità.
Secondo Khantzian (1997), la scelta di una data sostanza psicoattiva non è casuale, ma legata alle caratteristiche psichiche della persona. Rounsaville (1982) ha parlato di “self medication” da parte degli eroinomani degli stati emotivi dolorosi e intollerabili, mentre secondo Weiss (1993), invece, le alterazioni dell’umore depressive o maniacali spiegano il ricorso alla sostanza indipendentemente dalla sostanza di scelta primaria.
Il concetto di dipendenza ha avuto un grande spazio nel dibattito teorico psicoanalitico contemporaneo, anche se non sempre la psicoanalisi ha mostrato un analogo interesse terapeutico per i pazienti dipendenti, giustificando tale posizione con l’incapacità del paziente dipendente a saper rispettare le regole del setting, con la sua tendenza all’azione piuttosto che alla riflessione e con la sua scarsa motivazione alla cura.
La dipendenza dai genitori, secondo la teoria freudiana, è un fatto biologico responsabile della formazione della personalità normale o patologica. Il fattore biologico consiste nella protratta impotenza e dipendenza del bambino che nasce più incompleto di altri animali e per il quale quindi il valore dell’oggetto protettivo si accresce enormemente. Il timore di perdere i genitori ed il bisogno di essere amati, che non abbandonerà mai l’essere umano, produce la sottomissione educativa e la dipendenza, che in età adulta diventa sottomissione sociale, bisogno religioso, aspirazione etica e morale (Galimberti, 1992).
Come abbiamo visto nella prefazione a questo volume di Eugenio Gaburri «esiste una parola per esprimere un concetto che percorre ormai da cento anni la letteratura psicoanalitica, una parola che in lingua italiana prende un aspetto riduttivo: “l'impotenza”. Il suo corrispettivo nel lessico psicoanalitico freudiano è “hilflosigkeit” e sta a significare lo stato psico-fisico del lattante nella prima fase della vita.
Letteralmente “ilflosigkeit” significa mancanza di aiuto (hilfe), il concetto rinvia alla fisiologica impotenza, più marcata nel cucciolo umano che in altre specie. Con questo concetto la psicoanalisi cerca di esplorare la condizione (di dipendenza) che caratterizza la situazione somato/psichica del neonato del tutto impotente a provvedere alla sua sopravvivenza e alla sua crescita, impotenza evidente fin dal passaggio dall’ambiente originario al nuovo ambiente extrauterino, dove, da subito, dovrà imparare a respirare, mangiare, espellere e, soprattutto, a farsi capire (e ad essere capito) nei suoi bisogni elementari».
Nella psicoanalisi freudiana delle origini, la dipendenza nevrotica dell’adulto rimandava alla fissazione allo stadio orale come conseguenza di atteggiamenti frustranti o iperprotettivi dei genitori. La tossicomania veniva spiegata, all’inizio del ventesimo secolo, come un esempio di fissazione narcisistica allo stadio orale. La fase orale sarebbe stata caratterizzata da legami di tipo fusionale, da in- differenziazione fra il Sé e il Non- Sé e dalla prevalenza, come si diceva poc’anzi, del registro comportamentale su quello del pensiero. Le tossicomanie, così, parevano corrispondere ad una bramosia orale caratterizzata da tendenza alla passività, paura di restare soli, insaziabilità, ipersensibilità alla frustrazione e l’assunzione di droga veniva paragonata ad un atto magico con cui ci si procura un piacere pre-genitale.
In considerazione di tali motivi già allora si sosteneva, come bene sanno coloro che si occupano da anni di addiction, che non si può considerare guarito un tossicomane solo perchè si è potuto disintossicare o sottoporre a programmi pedagogici. Ciò che agli psicoanalisti appariva cruciale già nei primi decenni del secolo scorso era la necessità di svolgere un lavoro analitico teso a svelare e neutralizzare i veri motivi psichici del bisogno compulsivo delle droghe.
Gli sviluppi successivi della ricerca sottolinearono il carattere impulsivo del disturbo e questo permise di allargare l’osservazione a due disturbi confinanti con le tossicomanie: la bulimia e il gioco patologico.
Dobbiamo riconoscere, dunque, alla psicoanalisi, molto tempo prima che si sviluppasse l’attuale ricerca neuroscientifica, il grande merito di avere intuito per prima la fisionomia unitaria dell’addiction. La letteratura psicoanalitica giunse così a descrivere una personalità tipicamente dipendente caratterizzata da una fissazione allo stadio orale dello sviluppo psicosessuale che condiziona la ricerca compulsiva del piacere e la sua capacità di differirlo nel tempo, da una scarsa maturazione dell’io, dall’intolleranza alle frustrazioni e da una tendenza maniaco-depressiva.
Un altro concetto di grande rilevanza euristica e clinica per la psicoanalisi e per l’interpretazione psicologica delle dipendenze, andato affermandosi sin dai primi anni ‘30, fu quello di narcisismo: si incominciò a pensare che, al di là della pura e semplice bramosia orale, come la chiamava Abraham, la sostanza permetteva difensivamente di aumentare un’autostima deficitaria grazie all’effetto euforizzante che ricordava, per così dire, al Sé la sua dimensione narcisistica originaria, la cosiddetta beatitudine oceanica.
Questi concetti conseguentemente, a loro volta, promossero la ricerca sulla qualità fondante della relazione primaria madre-bambino nella costituzione della cosiddetta base sicura del sé degli umani. Gli studi sulla teoria dell’attaccamento hanno cercato di dimostrare come lo stile relazionale (sicuro/libero/autonomo, rifiutante, preoccupato/invischiato, irrisolto per trauma, inclassificabile) e l’organizzazione della personalità rispecchino il tipo di relazione che c’è stata fra madre e bambino. È intuibile dunque che certi disturbi si possono tramandare di generazione in generazione (Bowlby, 1983). Da questo punto di vista nei tossicomani sarebbero frequenti tratti di personalità iperdipendenti e immaturi, caratterizzati da uno stile di attaccamento ansioso-insicuro (rifiuto regole sociali, aggressività, sfiducia negli altri).
Olivenstein (1984) ha invece correlato la tossicomanìa al fallimento della fase dello “specchio infranto” (6-18 mesi): la madre, come uno specchio, dovrebbe rinviare un’immagine unitaria e differenziata da sé in modo da permettere al bambino di costituire un Io diverso da quello della madre. Se questo non si realizza si parla di fase dello “specchio infranto”. Il bambino è vissuto e si vive al posto di un altro (per es. di un fratello morto, del desiderio di una bambina se è maschio) in una specie di non identità. A differenza dalla psicosi, dove la fase dello specchio non si realizza, qui, appena ha luogo il riconoscimento, avviene anche la frattura: lo specchio si infrange rimandando un’immagine frammentata e incompleta che riporta al precedente stato di indifferenziazione. Contemporaneamente si ha la nostalgia per lo stato di fusione perduto e la malinconia di “essere e non essere” (sofferenza come misto fra rabbia e impotenza).
Green (1992) ha descritto nel dipendente un’organizzazione narcisistica caratterizzata dal “complesso della madre morta”. È assente in queste persone l’esperienza fisica e psichica di una relazione su cui ci si possa “appoggiare” e che permetta uno sviluppo narcisistico adeguato. La madre propone al figlio una relazione in cui il bambino non viene percepito in quanto portatore di specifici bisogni e desideri ed è pertanto da ritenersi una relazione oggettuale devitalizzata. In questo modo non si realizza, come ha indicato nella sua interpretazione dell’addiction Joyce McDougall (1990), l’esperienza transizionale (nè c’è, di conseguenza, la possibilità di introiettarla e di usarla quando è necessaria) e perché, con gli agiti compulsivi e ripetuti e con la difesa narcisistica che abbiamo delineato, non si può riuscire a costruire o a sviluppare l’oggetto transizionale, né quello interno né quello esterno. In questi casi il dolore psichico è tanto forte da arrivare a mettere in discussione il senso profondo di sé.
Le tossicomanie e il narcisismo
Gli studi sul narcisismo e sulle vicissitudini nella formazione del Sé sono stati molto importanti per l’interpretazione psicoanalitica di questi disturbi.
Kohut (1976) ha descritto i tossicomani come pazienti adulti con disturbi narcisistici caratterizzati da un Sé frammentato. La dipendenza da sostanze riflette un tentativo di ristabilire la coesione di un Sé poco coeso e difettoso nel suo funzionamento. L’origine di questa carenza strutturale sta nella mancanza di empatia nelle relazioni con i genitori che non ha permesso loro di rispecchiare il Sé del bambino. La scarsa stima di sé che ne deriva si tramuta reattivamente nel suo contrario: un Sé grandioso ed esibizionistico, che cerca la perfezione per ottenerne approvazione; la carenza di empatia dei genitori, e della madre in particolare, non permette al bambino di idealizzare i genitori e lo condanna a cercare senza sosta dei modelli genitoriali degni di essere idealizzati. Ovunque ci siano vulnerabilità si sviluppa un carattere compensatorio onnipotente, che al contrario rivela la vulnerabilità (Khantzian, 1997).
Kohut (1976) sposta il discorso dalla vulnerabilità al disturbo narcisistico e descrive la vulnerabilità come un difetto del sé che può manifestarsi nella tossicodipendenza: «L’individuo narcisisticamente disturbato desidera elogio e approvazione o la fusione con un altro idealizzato e supportivo perché non riesce a rifornirsi sufficientemente con l’autoapprovazione o con un senso di forza attraverso proprie fonti interne. Il tossicodipendente chiede insistentemente la droga perché gli sembra capace di curare il difetto centrale del suo sé (…) ingerendo la droga simbolicamente costringe l’oggetto sé riflettente ad amarlo, ad accettarlo, l’assunzione di droga gli fornisce l’autostima che non possiede. Attraverso l’incorporazione di droga supplisce da sé il sentimento di essere accettato e quindi di sentirsi bene con sé stesso, o determina l’esperienza di immergersi in una fonte di potenza che gli dà un vissuto di forza e di validità. Sono questi gli effetti della droga che tendono ad aumentare la certezza che egli esiste in questo mondo».
I tossicodipendenti sono vulnerabili nella capacità di accedere ai sentimenti, tollerare e regolare i sentimenti, sono vulnerabili di conseguenza nelle relazioni, nella capacità di stimarsi e prendersi cura di sé. Provano emozioni estremizzate, sentimenti troppo forti o troppo deboli. Questi pazienti vivono in uno stato di confusione dei sentimenti, nell’incapacità di esprimerli (alessitimia), o nella loro assenza (disaffettività). Essi spesso lottano difensivamente per non provare sentimenti. La droga da questo punto di vista è una protesi, dal greco stare al posto di, sostituire: un’autocura per angoscia, tensione, rabbia, vergogna, solitudine o per impulsività o inibizione. Spesso è stato osservato come i tossicodipendenti usino eroina per autocurare emozioni come la rabbia e la collera, o cocaina, anfetamina, per autocurare sottostanti stati depressivi, mentre le personalità contraddistinte da chiusura e controdipendenza si autocurano con alcol e sedativi (Khantzian, 1997).
Spesso i cocainomani compensano la scarsa autostima puntando molto sul risultato, la prestazione, l’azione e l’attività. La cocaina aiuta a superare gli stati di anergia e svuotamento associati alla depressione e alimenta uno stile di vita iperattivo e irrequieto, un esagerato bisogno di indipendenza. Per questo motivo sono egocentrici, controdipendenti e iperattivi.
Da un punto di vista eziologico Khantzian (1997) ritiene che un impoverimento evolutivo e strutturale ha intaccato la capacità del sé e la capacità di tollerare e regolare gli affetti, prendersi cura di sé e gestire bene le relazioni
Spesso questi pazienti mostrano come hanno fallito nell’internalizzare adeguatamente quella parte evolutiva che permette di tollerare le esperienze infantili dell’ammirare e essere ammirati.
Le prime esperienze danno la sensazione di sentirsi buoni o validi dal di dentro o di poter avvicinarsi facilmente agli altri, quanno necessario per ottenere nutrimento e conferma. Queste prime esperienze non sono state positive nei tossicodipendenti. Essi oscillano tra atteggiamenti seduttivi e manipolatori per ottenere soddisfacimento e posizioni di indipendenza e autosufficienza sdegnose e distanzianti che allontanano il bisogno degli altri. Il problema centrale è una sottostante organizzazione depressiva che si presenta con disforìa, rabbia, angoscia, sentimenti di vergogna, dubbio, colpa, noia, solitudine e vuoto basati sulla vulnerabilità narcisistica interna.
In questi pazienti c’è il desiderio di regredire ad un immagine di sé che può fare ed essere tutto, avere ogni cosa e non conoscere limiti e frustrazioni. Una forma illusoria di padronanza del controllo. I cocainomani possono sentirsi di conseguenza grandiosi e invincibili, ma sono impantanati nella ipomaniacalità che nasconde la sottostante depressione (Khantzian, 1997).
Zucca Alessandrelli (2002) ha sottolineato come «la relazione additiva si presenta fondata sul narcisismo, sul dover centrare cioè su di sé e sui propri bisogni di riconoscimento e di conferma ogni rapporto con gli affetti, i sentimenti e l’oggetto dell’investimento. Si tratta di una relazione narcisistica dove predomina il desiderio del non desiderio, il rifiuto degli affetti. Questi vengono sentiti come pericolosi, a causa del fragile assetto narcisistico di base. Sono minacciosi perché si rivolgono all’esterno, verso quell’oggetto che, indipendente, può ferire gravemente con il suo comportamento non adesivo ai bisogni. Il narcisismo patologico, il sé grandioso, servono come difesa rispetto al senso di fragilità e disvalore, ma hanno anche lo scopo di catturare l’oggetto per controllarlo e dominarlo, come necessario intermediario nel rapporto con la realtà. L’oggetto, quindi, è una funzione; serve da schermo protettivo, para-eccitamento verso l’interno e verso l’esterno e quindi come parte importante dell’identità». La dipendenza patologica corrisponde al «bisogno dell’altro o di qualcosa per avere un’identità, altrimenti non si riesce a sentire il proprio sé come fatto vitale e la propria vita istintuale come ricchezza interiore» (Zucca Alessandrelli, 2002).
Francois Ladame ha recentemente sottolineato che anche nei comportamenti di attacco al corpo e nei comportamenti di messa in pericolo di sé tipici delle dipendenze da sostanze o da cibo, ciò che bisogna sempre mettere in evidenza o, al contrario, escludere è la nozione di dipendenza (“addiction”), quindi di “asservimento”.
Un elemento fondamentale per dire che ci troviamo nella psicopatologia e non di fronte ad un fenomeno di moda consiste nell’assenza di scelta (absence de choix-perte de controle). Quando, ad esempio, qualcuno porta dei “piercing” e li rinnova continuamente fino a divenire simile ad un albero di Natale, ciò rappresenta un’assenza di scelta (“Io non posso impedire di farmi dei piercing” dicono tali ragazzi) e, quindi, la perdita di controllo sull'Io.
Ma cosa può essere sottostante a tutti questi comportamenti? Secondo Ladame a queste condotte soggiace il disturbo narcisistico o, in altri termini, un fallimento della costruzione d’identità, e qui troviamo una seconda complicazione perchè la costruzione dell’identità adulta è precisamente il compito dell’adolescenza (Ladame, 2004).
Bion (1971) ha per primo connesso il termine di dipendenza al funzionamento dei gruppi umani, attraverso il concetto degli assunti di base, una particolare organizzazione inconscia assunta da un gruppo il quale si riunisce ed opera allo scopo di essere sorretta da un capo dal quale dipendere per ricevere nutrimento e protezione. È una credenza collettiva nell’esistenza di un oggetto esterno la cui funzione è quella di dare sicurezza a un certo organismo immaturo; ciò significa che viene sempre attribuita a una persona la capacità di soddisfare i bisogni del gruppo, mentre tutti gli altri sono in attesa di vedere soddisfatti i loro bisogni. Il gruppo in assunto di base di dipendenza mostra subito che nella sua struttura è parte integrante il convincimento che un membro del gruppo sia onnisciente e onnipotente. In questo senso il suo potere non deriva dalla scienza, ma dalla magia. Una delle caratteristiche richieste al capo è che sia un mago e si comporti come tale. Questi fenomeni sono reazioni difensive di gruppo di fronte alle ansie psicotiche di annichilimento riattivate dallo stare in gruppo e della conseguente regressione difensiva al servizio del bisogno di sicurezza dell’individuo.
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