Il disturbo ossessivo si situa semanticamente nell’area del termine greco “anànke” (da cui il termine psichiatrico anancasmo). Da una parte “anànke” è il destino divino, la predestinazione, l’assoggettamento alla logica inflessibile del disegno divino. Dall’altro lato, come per esempio nell’etimologìa teologica, rappresenta la lucida possessione, lo stato d’assedio del soggetto alle lusinghe ed ai comandi del diavolo, il “daimòn”, demonio e genio che comanda a vivere secondo necessità, senza contraddizione o incoerenze nell’idea prevalente che affanna la mente e può poi congestionarsi fino ad arrivare all’idea dominante ed infine, per asfissia degli altri possibili pensieri, culminare nell’idea ossessiva.
I termini ossessione e compulsione hanno la loro derivazione etimologica dai sostantivi latini “obsessio” e “compulsio”, a loro volta derivanti dai verbi “obsidere”, l’assediare, l’occupare, il bloccare, e “compulsare”, lo spingere e la spinta a compiere un’azione.
Il termine “comportamento impulsivo” sta per un processo dinamico consistente in una spinta che fa tendere l’organismo verso una meta/oggetto e che ha la sua fonte in una eccitazione somatica. Secondo De Clérembault (1992) l’impulsività è «un’emozione intensa, prolungata, stenica, che tende a passare all’atto».
Oggi nella moderna accezione del termine psichiatrico il termine “disturbo del controllo degli impulsi” sta per un disturbo soggettivo caratterizzato dalla perdita di controllo sul comportamento in senso impulsivo con una vasta gamma di espressioni psicosociali: piromania, serial raping, serial killing, parafilie “attive”, onanismo-masturbazione compulsiva, gambling patologico, abuso di sostanze, tricotillomania, autolesionismo, bulimia, cleptomania, compulsive buying.
I disturbi del controllo degli impulsi possono quindi intendersi:
come entità autonoma;
come appartenenti ad uno spettro a cui appartengono diversi disturbi accomunati fra loro da una diatesi impulsiva (la cosiddetta “multiple addictive sindrome”): uso di sostanze, personalità antisociale, tratti borderline, gambling, binge-purge behaviors, compulsive buying;
come fenomeni caratterizzati dalla presenza del fenomeno del craving, un bisogno impellente (urgenza) che comporta la perdita del controllo sul comportamento appetitivo con la conseguente azione tesa alla sua soddisfazione tramite la conquista di un oggetto.
Nell’ossessività il soggetto tenta di allontanare dalla propria mente, senza riuscirvi, un pensiero o un’immagine assillante, in qualche modo “sgradevole” o che crea del “malessere”.
Nella compulsione il soggetto crede e si sente spinto, mediante un altro pensiero o un’azione, di “vincere” o controllare la sensazione di disagio o di malessere che si era prodotta a seguito di quel pensiero assillante, notando però anche che, nonostante gli sforzi, ciò non sortisce l’effetto sperato poiché lo stato di malessere perdura. Solo in una seconda fase, quasi coincidente alla “sensazione di controllo” del disagio percepita in un primo istante, si è inserita la “spinta automatica” e non facile da reprimere, di “ripetizione”, che non ha comunque condotto al risultato creduto e sperato.
È stata la scuola francese dell'Ottocento, unitamente alle scuole tedesca, inglese e italiana, a contribuire allo studio e all'approfondimento del disturbo ossessivo compulsivo (DOC).
La prima descrizione viene attribuita ad Esquirol, che nel 1838 definì il disturbo giust’appunto, come una forma di monomania, un delirio parziale “delire partiel”, nel quale un'attività involontaria, irresistibile e istintiva spingeva il paziente a compiere azioni che la coscienza respingeva, ma che la volontà non riusciva a sopprimere; l’autore giunse alla conclusione che a determinare il disturbo fosse un deficit della volontà e solo secondariamente un disturbo intellettivo.
Esquirol (1838) affermava che la monomania era «essenzialmente la malattia della sensibilità; essa poggia interamente sui nostri affetti, il suo studio è inseparabile dalla conoscenza delle passioni; è nel cuore degli uomini ch’essa ha il suo luogo, è là che bisogna frugare per afferrarne tutte le sfumature».
Già Pinel nel 1801, nel suo Traité médico-philosophique sur l'alienation mentale, aveva descritto forme di pazzia non accompagnate da allucinazioni – “manie sans délire”, “folie raisonnante”. Ciò che risultava difficile da concepire e spiegare a quell’epoca era la presenza di pensieri persistenti e disturbanti che non fossero definiti deliri, poiché nelle manifestazioni del disturbo si manteneva una sorta di coscienza. In seguito furono coniate altre definizioni per identificare il disturbo come “follia lucida”, “pseudo-monomania”, “follia del dubbio”, “lesione della volontà”, “delirio emotivo”, “vertigine mentale”, “impulsività intellettuale”, “stigmate psichiche dei degenerati”, “paranoia rudimentaria”, “idee fisse”, “idea incoercibile”, “diatesi d'incoercibilità”, “idee imperative”, “anancasmus”, “psicastenia”.
Le teorie che spiegavano la genesi del disturbo ossessivo-compulsivo erano tre: quella emotiva, quella volitiva e quella intellettiva, che chiamavano in causa rispettivamente “debolezze” o dell'emotività, o della volontà e del carattere, o del pensiero.
Tra la seconda metà dell'Ottocento ed i primi del Novecento si assiste dapprima ad un progressivo e netto distacco concettuale del disturbo ossessivo dalle forme deliranti, per giungere poi alla composizione del quadro delle nevrosi, suddivisa nelle forme di nevrastenia, isteria, psicastenia.
Anche la psicoanalisi ha dato un importante contributo nell’assegnare un ruolo importante al rapporto fra compulsione e dipendenza. L’impulsività e la tendenza alla compulsione sono accomunati tra loro dalla presenza di una comune struttura e organizzazione interna: ogni comportamento usato per produrre gratificazione e fuggire da stati interni di angoscia può diventare compulsivo e trasformarsi in un disturbo da dipendenza.
Va detto che, sebbene in termini maggiormente fenomenologico descrittivi, l’approccio unitario al problema della compulsione/impulsività è stato condiviso anche in ambienti non psicoanalitici. Hollander (1996), che si richiama a paradigmi di ispirazione biologica, ha proposto un modello unitario che richiama alcune delle condotte additive nel continuum clinico del disturbo ossessivo compulsivo: la compulsività e l’impulsività rappresentano gli estremi di un continuum che va da una tendenza alla sovrastima del pericolo ed all’evitamento del rischio da un lato, ad una ridotta percezione della pericolosità di determinati comportamenti e ad una elevata ricerca del pericolo dal lato opposto.
I disturbi compulsivi si caratterizzano fenomenologicamente per un’elevata tendenza all’evitamento del pericolo, una spiccata avversione del rischio ed alti livelli di ansia anticipatoria. Questi disturbi includono il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo da dismorfismo corporeo, l’anoressia nervosa, il disturbo da depersonalizzazione, l’ipocondria, la sindrome di Gilles de la Tourette. In questi disturbi comportamenti ritualistici vengono spesso assunti nel tentativo di ridurre l’ansia e diminuire magicamente il senso di pericolo o di rischio. Al contrario i disturbi impulsivi si caratterizzano per la presenza di comportamenti volti alla ricerca del rischio, con ridotta capacità di evitamento del pericolo e scarsa ansia anticipatoria. Questi disturbi includono i disturbi di personalità del cluster B secondo il DSM-IV (borderline, antisociale, istrionico e narcisistico), i disturbi del controllo degli impulsi (disturbo esplosivo intermittente, piromania, cleptomania, gioco d’azzardo patologico e tricotillomania) e le parafilie. Questi disturbi sono caratterizzati da comportamenti che inducono piacere anche se le conseguenze di tali comportamenti possono essere dolorose.
Entrambe le classi di disturbi hanno però lo stesso nucleo centrale: l’incapacità di ritardare o di inibire la messa in atto di comportamenti che tendono comunque ad essere ripetitivi. Nei disturbi compulsivi tali condotte sono ripetitive a causa delle resistenze del soggetto e hanno la funzione principale di ridurre l’ansia e la tensione; i comportamenti impulsivi, sebbene meno ripetitivi, sono invece principalmente vissuti come fortemente piacevoli e perciò tendono a essere rimessi più volte in atto. La caratteristica comune rimane comunque una certa ripetitività dei comportamenti e la difficoltà di inibirli. Spesso non è possibile una netta distinzione tra i due tipi di disturbi: alcuni disordini possono avere sia aspetti impulsivi che aspetti compulsivi o essere a metà tra i due poli estremi. Così pazienti con tricotillomania e gioco d’azzardo patologico possono avere sia sintomi impulsivi che compulsivi in quanto il loro comportamento può sia soggiacere all’impulso di ridurre una tensione sottostante, sia di indurre il soddisfacimento di un piacere. La compulsività e l’impulsività possono rappresentare differenti dimensioni psicopatologiche e tali dimensioni si possono intersecare o essere ortogonali l’una con l’altra. Anche se i sintomi compulsivi sono generalmente considerati egodistonici, legati ad una sopravvalutazione della minaccia, laddove i sintomi impulsivi sono considerati egosintonici e legati ad una sottovalutazione della minaccia, vi sono numerosi elementi comuni fra i due disturbi quali la riduzione dell’ansia, la presenza di risposte perseveranti che ostacolano il raggiungimento di obiettivi e l’effettiva compresenza in entrambi i tipi di disturbi di elementi egodistonici ed egosintonici.
Cloninger (1993), proponendo un modello dimensionale psicologico-etologico, ha così distinto l’impulsività dalla compulsività. La compulsività consiste nella perdita della capacità di scegliere liberamente un comportamento, di scegliere se fermarsi o continuare quel dato comportamento, mentre l’impulsività rappresenta la perdita della capacità di inibire comportamenti e reazioni dalle conseguenze dannose per il soggetto e per gli altri. La perseverazione del comportamento consiste nella sua continuazione nonostante le conseguenze negative come malattie fisiche, perdita del lavoro, del matrimonio o della libertà.
Questo ampio spettro di disturbi può manifestarsi, come si può vedere nella tabella 1, con espressioni diverse a seconda del sesso, in coincidenza o meno con i disturbi dell’umore, e può coincidere con una serie di osservazioni tratte da studi di neurochimica e neurofisiologia.
Se nei disturbi di tipo impulsivo prevale il comportamento di ricerca del rischio e di minimizzazione del rischio o ridotta stima del pericolo, nei disturbi di tipo compulsivo prevale invece il comportamento di aumento di stima del pericolo, di avversione al rischio e di evitamento dell’ansia. Questi comportamenti sono molto persistenti e vengono continuamente rafforzati dalla ricompensa, dalla gratificazione.
Mentre nei maschi paiono più frequenti gambling, disturbo esplosivo intermittente, piromania, comportamento sessuale compulsivo, nelle femmine sono più diffuse la cleptomania, la tricotillomania, il comportamento automutilante, le spese eccessive di tipo compulsivo ed il disturbo da abbuffate.
Tab.1 – Impulsività/compulsività
IMPULSIVITÀ COMPULSIVITÀ
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ricerca della novità + -
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evitamento dell’ansia - +
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persistenza - +
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dipendenza dalla ricompensa
- +
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IMPULSIVITÀ COMPULSIVITÀ
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disturbo esplosivo intermittente, disturbo ossessivo, ipocondria,
tricotillomania, gioco d’azzardo, disturbo dismorfofobico
anorressia
compulsionisessuali,
disturbo borderline e antisociale
depersonalizzazione
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Bipolarità disturbi dell’umore unipolarità dei
disturbi dell’umore
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ipofunzionamento
del lobo frontale del cervello
iperfunzionamento
del lobo frontale del
cervello
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ipofunzionalità serotoninergica iperfunzione
serotoninergica
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disinibizione dell’aggressività inibizione
dell’aggressività
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Secondo Cloninger (1993) la dimensione temperamentale novelty seeking caratterizzata da bassi livelli di evitamento del danno, condotte impulsive e violente, associata al sistema dopaminergico, sovrapposta spesso al disturbo da sostanze, può predire il disturbo da sostanze ed è spesso associata a giovani abusatori con tratti antisociali. Questo tratto personologico secondo Cloninger (1987) è fondamentale per distinguere l’alcolismo di tipo II, prevalentemente maschile, a elevata ereditarietà, a esordio precoce, più grave dall’alcolismo di tipo I.
Insieme al tratto di personalità novelty seeking c’è il tratto sensation seeking che è ritenuto un marker personologico di rischio per le condotte sociopatiche e per il disturbo da sostanze (Zuckerman, Neeb, 1979; Zuckerman, 1988): esso è associato alla ricerca di sensazioni forti e insolite, a comportamenti trasgressivi, all’esposizione a rischi, all’intolleranza alla noia.
Secondo Canali (2002) «la compulsione alla ricerca e all'uso della sostanza, è stata la caratteristica fondamentale della dipendenza secondo tutti gli standard diagnostici attuali e secondo la stessa tradizione, che ha portato alla definizione della dipendenza come malattia. L' ICD-10 equipara la compulsione al consumo a un “forte desiderio di assumere la sostanza”. Una definizione tutt’altro che scientifica o positiva. Quanto forte deve essere il desiderio per trasformarsi in compulsione? E in che modo deve misurarsi la sua forza? Attraverso ciò che riportano i soggetti o dall'osservazione del loro comportamento? E come inquadrare la non infrequente situazione di forte e persistente desiderio di assumere una sostanza che non dà luogo all'effettivo consumo? Non si guadagna in coerenza e chiarezza anche se si cerca di capire cosa intenda per compulsione il DSM-IV consultando altri criteri diagnostici correlati. Il manuale definisce la compulsione come parte del disturbo ossessivo-compulsivo. La compulsione è così descritta: “Un comportamento ripetitivo (per esempio lavarsi, mettere in ordine, controllare) o un atto mentale (per esempio pregare, contare, ripetere parole in silenzio) il cui fine è prevenire o ridurre l’ansia o l’angoscia, non per portare piacere o gratificazione. Nella gran parte dei casi, la persona si sente costretta a porre in atto la compulsione per ridurre l'inquietudine che accompagna un’ossessione oppure per prevenire eventi o situazioni temute. Per definizione la compulsione è allo stesso tempo eccessiva e non connessa in una maniera realistica a ciò che invece dovrebbe neutralizzare o prevenire. Nella dipendenza, la ricerca e il consumo di sostanze possono senz’altro essere eccessive ma sono sicuramente -anzi oggettivamente- collegate alla riduzione dell’ansia, all’evitamento della tangibile e dolorosa sindrome d’astinenza, e associate a forte piacere e gratificazione.
La categoria del disturbo del controllo degli impulsi è l’altro quadro nosografico legato a tratti comportamentali in qualche modo riferibili alla compulsione. Secondo il DSM-IV, la caratteristica diagnostica fondamentale per questo disturbo è l’incapacità di resistere all’impulso, alla pulsione, alla tentazione di compiere un atto pericoloso per se stessi o per gli altri. Questa descrizione non chiarisce se l’incapacità di resistere all’impulso sia radicabile inabilità a far fronte a questo tipo di spinta emotiva e motivazionale o il risultato di una resa deliberata» (Canali, 2003).
Il “craving” come fenomeno impulsivo-compulsivo
Craving (desiderare ardentemente, bramare) è un altro termine ormai molto comune nella descrizione del fenomeno della dipendenza, tant’è che anch’esso, per estensione, ha finito per essere usato ed abusato per descrivere il comportamento dipendente patologico. Come si diceva in precedenza, il carattere dell’eccessività implicito nel termine mania era già etimologicamente connesso all’ossessività. Bramare non è lo stesso di desiderare. Bramare già descrive la passivizzazione che subisce il soggetto nei confronti dell’oggetto bramato e la sua perdita di libertà (obsidere è assediare, occupare, bloccare).
Janiri (2000) ha contribuito a divulgare con una recente revisione della letteratura la connessione del termine craving, cruciale per la comprensione dei fenomeni di dipendenza, alla dimensione impulsivo-compulsiva. «Alcuni autori suggeriscono che il craving condivida alcune specifiche caratteristiche con il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Secondo questi studiosi la presenza del craving dipende dalla presenza di pensieri ossessivi relativi al bere. Il comportamento compulsivo che si manifesta nel bere sarebbe generato dal tentativo di neutralizzare tali pensieri ossessivi opponendovi delle resistenze. I disturbi da uso di sostanze sono stati tradizionalmente considerati come manifestazioni di un ridotto controllo degli impulsi. I criteri per l’abuso e la dipendenza da sostanze includono items che si riferiscono a comportamenti come: assumere quantità di una sostanza maggiori di quanto si intendeva, provare ripetutamente e con insuccesso a interrompere l’uso, usare la sostanza in situazioni pericolose e usare una sostanza pur sapendo che provoca problemi sociali, psicologici e fisici. Tutti questi comportamenti certamente suggeriscono una ridotta capacità di controllo dell’impulso ad assumere la sostanza in questione. Tuttavia la definizione di “dipendenza da sostanze psicoattive” ha subito profonde modificazioni nel DSM-III-R e poi nel DSM-IV, rispetto alle precedenti edizioni del manuale nelle quali gli aspetti psico-sociali venivano considerati come distinti dai fenomeni di tolleranza e di astinenza che contrassegnavano la dipendenza. E ciò con la sola eccezione, non a caso, della dipendenza da alcol e da cannabis, nelle quali la modalità patologica di uso e la compromissione delle attività sociali o lavorative dovute all’uso sono parte integrante della definizione di dipendenza.
Nella nuova definizione di dipendenza si enfatizza “la natura compulsiva dell’assunzione della sostanza” che si associa a “l’inadeguato controllo dell’uso della sostanza stessa”. I concetti di compulsività ed impulsività si vengono quindi a sovrapporre, o meglio a confondere: il comportamento compulsivo può essere visto come una perdita del controllo in relazione all’uso della sostanza o, al contrario, un ridotto controllo degli impulsi si può manifestare con comportamenti compulsivi.
Appare necessario a questo punto tentare di definire il contesto fenomenologico del craving tra impulsività e compulsività, tenendo presente che esso può situarsi in ben differenti posizioni dello spettro a seconda della sostanza che ne è l’oggetto. In base ad alcuni studi il craving per l’alcol potrebbe essere visto come un segnale associato a un comportamento automatico. Implicita in questo concetto è l’idea che il craving esista ad un livello non cosciente (impulso), con una possibile origine sottocorticale, ed a questo venga a sovrapporsi un craving di origine anche corticale, cognitivo, cosciente, che si manifesta in pensieri persistenti e ricorrenti legati all’alcol (ossessioni), comportamenti ripetitivi volti ad assumere l’alcol (compulsioni) e nello sforzo di controllare sia i pensieri che le azioni. Costituiscono comportamenti potenzialmente addictive tutti gli atti ripetitivi la cui sospensione provoca l’accumulo di una tensione crescente e la cui esecuzione produce piacere e sollievo. Il craving sarebbe pertanto un segnale associato al raggiungimento di una soglia di tensione e alla memoria delle precedenti esperienze di gratificazione. I comportamenti addictive tendono quindi ad automantenersi nonostante gli sforzi di interromperli o moderarli, e spesso producono effetti deleteri sulla salute o sulla sfera relazionale e sociale del soggetto. Lo spettro degli addictive disorders/behaviors include comportamenti ai limiti della normalità (le cosiddette “dipendenze socialmente condivise”, quali quelle da stress, da lavoro, da esercizio fisico), comportamenti francamente patologici (anche se non nosograficamente individuabili), e disturbi veri e propri. Tutti sono caratterizzati da un insufficiente o problematico controllo degli impulsi, da un’inadeguata autoregolazione del funzionamento individuale, nonché da fenomeni comuni a tutte le condizioni di addiction» (Janiri, 2000).