Giulio Castellano ha cominciato a occuparsi di tarantismo almeno dai tempi della tesi in antropologia culturale discussa all’università di Genova. Attualmente risiede in Brasile dove sta per tenere un seminario sul tarantismo presso l’università Federale di Natal.
In passato il tarantismo si delineava come un sistema culturalmente elaborato di liberazione dall’angoscia, un efficace processo di risoluzione dei conflitti psichici individuali e delle tensioni sociali. Il tarantismo offriva un preciso rituale terapeutico che prevedeva l’intervento della danza, della musica e dei colori. Il tarantato, incalzato dal potente simbolismo del ragno che morde, veniva accompagnato dai musicisti-terapeuti e dalla comunità tutta attraverso un violento quanto risolutore stato alterato di coscienza, momento cruciale del rito.
Il fenomeno del tarantismo riguardava quasi esclusivamente il mondo rurale salentino, ma si inseriva nel più ampio contesto di pratiche magico-prottettive che caratterizzava le civiltà contadine dell’intero Sud Italia (1) .
Già nel 1959 Ernesto De Martino intravide la profonda disgregazione culturale verso cui si avviava quello che lui definiva “esorcismo musicale-coreutico-cromatico”. L’antropologo napoletano imputava questo declino soprattutto all’azione omologante della religione cattolica, che, nel tentativo di sottomettere a sé forme di religiosità considerate pagane, aveva finito per frantumare “il tarantismo in una serie di grotteschi ibridismi senza avvenire, e soprattutto in una serie di crisi senza orizzonte”. Durante il culto cristianizzato della taranta San Paolo nella cappella di Galatina “il tarantismo si spogliava di ogni dignità culturale, di ogni efficacia simbolica [...]” (2) .
Anche quel tarantismo, già profondamente disgregato agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo, è oggi del tutto scomparso.
Le motivazioni che hanno trascinato questo ultimo tarantismo ad una rapida e totale estinzione sono da iscrivere anche nel quadro degli impressionanti mutamenti socio-culturali degli ultimi decenni del XX secolo.
Le spiegazioni popolari (degli attori sociali che agivano nel tarantismo) ovviamente non fanno alcun riferimento all’analisi dei fattori di natura economica, storica e sociale che possono aver portato all’estinzione del tarantismo; esse sono piuttosto la logica conseguenza della convinzione, antica e indiscutibile, dell’esistenza della “famigerata” taranta. Alcune testimonianze raccolte non più di quindici anni fa mostrano come la scomparsa del tarantismo venisse imputata al fatto che la taranta non risultasse più nociva all’uomo perché i “veleni” contenuti nei moderni concimi avevano alterato l’equilibrio della fauna. Ancora nel 1993, il contadino novantenne Luigi di Acaya (intervistato dallo studioso Maurizio Nocera) affermava con convinzione: “Le medicine che gettano ora, che irrorano dentro le campagne con il ‘Seccatutto’, quanti animali ci sono tanti ne distruggono. Adesso tutto è stato distrutto con questo diavolo di medicine, perfino le taragnole, le civette, tutti gli uccelli che prima facevano del bene alla campagna”(3). Se non ci sono più tarante, non ci sono più nemmeno le tarantate, perché la tarantola è fredda, “non va in fecondazione per la generazione” e per questo motivo “non danneggia, non ostacola, non ti fa male”. Una volta, invece, “in tutti i terreni, che erano sani, le tarantole erano molte e siccome prima tutte le donne erano contadine, andavano a raccogliere le olive e andavano alle viti, maggiormente si sentivano male” (4) , ricordava il celebre violinista terapeuta Luigi Stifani.
Ma lasciato il campo dell’immaginario popolare (che pur conserva la sua dose di saggezza), in realtà sappiamo bene che ad essere mutato non è soltanto l’equilibrio ecologico delle terre salentine; è soprattutto il contesto economico e socio-culturale alla base dello stile di vita ad aver subíto le più grandi trasformazioni.
L’assoluta mancanza di certezze che caratterizzava la vita di una società prevalentemente contadina come quella coinvolta nel fenomeno del tarantismo si svuota oggi di ogni significato. Tutta una serie di monolitiche avversità diviene esclusiva materia dei racconti dei nonni: scompaiono i rischi legati all’incontro con animali pericolosi o la ciclica incertezza del raccolto; l’angoscia derivante da situazioni di indigenza, miseria e povertà perde consistenza; il tormento per un amore negato non esiste quasi più; la donna, spesso in posizione di estrema subalternità rispetto all’uomo, si è emancipata.
Il fenomeno del tarantismo riguardava quasi esclusivamente il mondo rurale salentino, ma si inseriva nel più ampio contesto di pratiche magico-prottettive che caratterizzava le civiltà contadine dell’intero Sud Italia (1) .
Già nel 1959 Ernesto De Martino intravide la profonda disgregazione culturale verso cui si avviava quello che lui definiva “esorcismo musicale-coreutico-cromatico”. L’antropologo napoletano imputava questo declino soprattutto all’azione omologante della religione cattolica, che, nel tentativo di sottomettere a sé forme di religiosità considerate pagane, aveva finito per frantumare “il tarantismo in una serie di grotteschi ibridismi senza avvenire, e soprattutto in una serie di crisi senza orizzonte”. Durante il culto cristianizzato della taranta San Paolo nella cappella di Galatina “il tarantismo si spogliava di ogni dignità culturale, di ogni efficacia simbolica [...]” (2) .
Anche quel tarantismo, già profondamente disgregato agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo, è oggi del tutto scomparso.
Le motivazioni che hanno trascinato questo ultimo tarantismo ad una rapida e totale estinzione sono da iscrivere anche nel quadro degli impressionanti mutamenti socio-culturali degli ultimi decenni del XX secolo.
Le spiegazioni popolari (degli attori sociali che agivano nel tarantismo) ovviamente non fanno alcun riferimento all’analisi dei fattori di natura economica, storica e sociale che possono aver portato all’estinzione del tarantismo; esse sono piuttosto la logica conseguenza della convinzione, antica e indiscutibile, dell’esistenza della “famigerata” taranta. Alcune testimonianze raccolte non più di quindici anni fa mostrano come la scomparsa del tarantismo venisse imputata al fatto che la taranta non risultasse più nociva all’uomo perché i “veleni” contenuti nei moderni concimi avevano alterato l’equilibrio della fauna. Ancora nel 1993, il contadino novantenne Luigi di Acaya (intervistato dallo studioso Maurizio Nocera) affermava con convinzione: “Le medicine che gettano ora, che irrorano dentro le campagne con il ‘Seccatutto’, quanti animali ci sono tanti ne distruggono. Adesso tutto è stato distrutto con questo diavolo di medicine, perfino le taragnole, le civette, tutti gli uccelli che prima facevano del bene alla campagna”(3). Se non ci sono più tarante, non ci sono più nemmeno le tarantate, perché la tarantola è fredda, “non va in fecondazione per la generazione” e per questo motivo “non danneggia, non ostacola, non ti fa male”. Una volta, invece, “in tutti i terreni, che erano sani, le tarantole erano molte e siccome prima tutte le donne erano contadine, andavano a raccogliere le olive e andavano alle viti, maggiormente si sentivano male” (4) , ricordava il celebre violinista terapeuta Luigi Stifani.
Ma lasciato il campo dell’immaginario popolare (che pur conserva la sua dose di saggezza), in realtà sappiamo bene che ad essere mutato non è soltanto l’equilibrio ecologico delle terre salentine; è soprattutto il contesto economico e socio-culturale alla base dello stile di vita ad aver subíto le più grandi trasformazioni.
L’assoluta mancanza di certezze che caratterizzava la vita di una società prevalentemente contadina come quella coinvolta nel fenomeno del tarantismo si svuota oggi di ogni significato. Tutta una serie di monolitiche avversità diviene esclusiva materia dei racconti dei nonni: scompaiono i rischi legati all’incontro con animali pericolosi o la ciclica incertezza del raccolto; l’angoscia derivante da situazioni di indigenza, miseria e povertà perde consistenza; il tormento per un amore negato non esiste quasi più; la donna, spesso in posizione di estrema subalternità rispetto all’uomo, si è emancipata.
Sono insomma venute a mancare le condizioni che portavano a quella che De Martino definiva “crisi della presenza”: non riuscire a superare i contenuti critici dell’esistenza, sentirsi inadatti al presente.
Il rito del tarantismo costituiva allora una “forma di protezione culturalmente istituzionalizzata” che difendeva appunto la presenza, l’esistenza, oppressa dalle alienazioni individuali alle quali il tarantismo offriva un orizzonte di evocazione, deflusso e risoluzione. Grazie alla terapia coreutico-musicale-cromatica, il tarantismo reintegrava l’individuo sofferente all’interno della comunità.
L’attuale situazione economica e socio-culturale del Salento è ovviamente molto differente rispetto a quella di quasi mezzo secolo fa, all’epoca in cui De Martino registrava gli ultimi rantolii del tarantismo.
Oggi la “questione meridionale” (di cui proprio De Martino si faceva sostenitore culturale all’inizio degli anni Sessanta) ha radicalmente cambiato prospettiva. Un Sud Italia socio-economicamente arretrato è una immagine non piú troppo attinente alla realtá. Piuttosto, nonostante ancora oggi sussista un certo divario economico fra Nord e Sud, si registra un fenomeno (misurabile su scala mondiale) di livellamento culturale, dovuto in larga parte alla massiccia invadenza dei mass-media e all’acculturazione globale-informale.
Il Salento è oggi una “società post-industriale”: il settore terziario fornisce la prima fonte occupazionale, il lavoro puramente esecutivo tende a ridursi, crescono le mansioni intellettuali, informatiche, di marketing e di controllo.
A livello individuale i cambiamenti rispetto ad un non lontanissimo passato sono forse ancora più profondi: mutato è il senso morale, mutato il sentire religioso, i valori, l’ordine familiare; la condizione generale della donna nella società è migliorata.
Tuttavia nel Salento ancora esistono vaste aree di crisi economica. Come accennato poc’anzi, si espande sempre piú subdolamente la massificazione perseguita dai mezzi di comunicazione che, dietro l’apparente democrazia dei consumi, appoggiano un sistema essenzialmente monopolista, fonte di disoccupazione, emarginazione e insicurezza sul futuro.
L’attuale situazione economica e socio-culturale del Salento è ovviamente molto differente rispetto a quella di quasi mezzo secolo fa, all’epoca in cui De Martino registrava gli ultimi rantolii del tarantismo.
Oggi la “questione meridionale” (di cui proprio De Martino si faceva sostenitore culturale all’inizio degli anni Sessanta) ha radicalmente cambiato prospettiva. Un Sud Italia socio-economicamente arretrato è una immagine non piú troppo attinente alla realtá. Piuttosto, nonostante ancora oggi sussista un certo divario economico fra Nord e Sud, si registra un fenomeno (misurabile su scala mondiale) di livellamento culturale, dovuto in larga parte alla massiccia invadenza dei mass-media e all’acculturazione globale-informale.
Il Salento è oggi una “società post-industriale”: il settore terziario fornisce la prima fonte occupazionale, il lavoro puramente esecutivo tende a ridursi, crescono le mansioni intellettuali, informatiche, di marketing e di controllo.
A livello individuale i cambiamenti rispetto ad un non lontanissimo passato sono forse ancora più profondi: mutato è il senso morale, mutato il sentire religioso, i valori, l’ordine familiare; la condizione generale della donna nella società è migliorata.
Tuttavia nel Salento ancora esistono vaste aree di crisi economica. Come accennato poc’anzi, si espande sempre piú subdolamente la massificazione perseguita dai mezzi di comunicazione che, dietro l’apparente democrazia dei consumi, appoggiano un sistema essenzialmente monopolista, fonte di disoccupazione, emarginazione e insicurezza sul futuro.
In maniera efficacemente sintetica Luigi Chiriatti elenca le cause economiche e socio-culturali che hanno consegnato il tarantismo all’estinzione. Esse sono:
“evoluzione generale del Salento, migliore condizione di vita, migliore organizzazione del lavoro; emancipazione sociale, culturale, economica e politica del soggetto più a rischio del tarantismo: le donne. La famiglia si è trasformata da patriarcale a mononucleare; gli anziani e i vecchi rituali non costituiscono più punti di riferimento; ed il cerchio magico-rituale-difensivo di una comunità a base contadina si è definitivamente spezzato. La TV e un’informazione istantanea di tutto ciò che accade nel mondo, senza intermediazioni, hanno creato l’illusione di essere al centro del mondo, a torto o a ragione. Come sia sia, il fenomeno ha perso le sue radici rituali. Non si presenta più come una disgrazia ed un onere; abbiamo, in definitiva, superato la cultura della sofferenza. Sono scomparsi i vecchi saloni da barba, centri di cultura musicale e serbatoi materiali di suonatori di tarantate” (5) .
“evoluzione generale del Salento, migliore condizione di vita, migliore organizzazione del lavoro; emancipazione sociale, culturale, economica e politica del soggetto più a rischio del tarantismo: le donne. La famiglia si è trasformata da patriarcale a mononucleare; gli anziani e i vecchi rituali non costituiscono più punti di riferimento; ed il cerchio magico-rituale-difensivo di una comunità a base contadina si è definitivamente spezzato. La TV e un’informazione istantanea di tutto ciò che accade nel mondo, senza intermediazioni, hanno creato l’illusione di essere al centro del mondo, a torto o a ragione. Come sia sia, il fenomeno ha perso le sue radici rituali. Non si presenta più come una disgrazia ed un onere; abbiamo, in definitiva, superato la cultura della sofferenza. Sono scomparsi i vecchi saloni da barba, centri di cultura musicale e serbatoi materiali di suonatori di tarantate” (5) .
Appare quindi del tutto comprensibile come l’interazione fra istituzione ecclesiastica e mutato contesto socio-culturale abbia accelerato l’estinzione del rito magico-religioso del tarantismo, divenuto ormai incongruente alle sue funzioni sociali.
L’attuale civiltà globale dei consumi non lascia dunque spazio al fenomeno del tarantismo classicamente inteso, avendo estinto le sue connotazioni di miseria economica. Ma è anche vero che alla trasformazione di un determinato modello di società si accompagna spesso una risemantizzazione dei significati di un prodotto culturale, una diversa maniera di connotare un oggetto sociale. Tali cambiamenti presuppongono una defunzionalizzazione, ossia una perdita di significato del segno, a cui può seguire una rifunzionalizzazione che, nel nostro caso, apre il tarantismo a nuove connotazioni comunicative.
Di fatto attualmente é in corso un processo di recupero e riadattamento delle antiche modalità rituali del tarantismo. Esse vengono rielaborate, mescolate, inserite dentro un nuovo contesto socio-culturale per mezzo di quelle che M. J. Herskovits definisce dinamiche di ritenzione, reinterpretazione e sincretismo.
Per ritenzione si intende la conservazione di un arcaico schema culturale. Lareinterpretazione consiste nella rielaborazione della definizione di quell’oggetto sociale. Il sincretismo, che nel tarantismo permetteva al rito “pagano” di sopravvivere alla religione cristiana, oggi è la dinamica per mezzo della quale la società salentina si costruisce un’identità culturale creata attorno al tema del tarantismo.
La società salentina sta esplorando da qualche anno a questa parte quella fase detta della “liminalità”, una periodo di transizione da una struttura sociale data ad una sostanzialmente nuova. La nozione di “liminalità”, studiata a fondo dall’antropologo Victor Turner, indica quella zona di confine che si viene a creare tra contesti socio-culturali già definiti e nuovi assetti. Turner asserisce che la liminalità consista “nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ludica dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra” (6) .
La sorgente di questi processi di trasformazione sociale sgorga da quello che Turner definisce “dramma sociale”, il limbo della creatività dove non sempre la potenzialità diventa atto: “un dramma sociale si manifesta innanzitutto come rottura di una norma, come infrazione di una regola della morale, della legge, del costume o dell’etichetta in qualche circostanza pubblica [...]. [Questa rottura] produce una crisi crescente, una frattura o svolta importante nelle relazioni fra i membri di un campo sociale, in cui la pace apparente si tramuta in aperto conflitto e gli antagonismi latenti si fanno visibili [...]. La fase finale consiste o nella reintegrazione del gruppo sociale dell’irreparabilità della rottura fra le parti in conflitto” (7) .
In quest’ottica l’analisi della società salentina si inscriverebbe agevolmente in una chiave di lettura che la vede rappresentata come un campo di tensioni, un luogo di conflitti e di contraddizioni in cui componenti tradizionali vengono rimescolate e ridistribuite in modo che accendano nuove dinamiche culturali.
Il “dramma sociale” costituirebbe quindi la scintilla del rinnovato interesse per il fenomeno del tarantismo, sia nell’immaginario collettivo che nell’ispirazione degli esperti del settore: musicisti, antropologi, operatori culturali.
Di fatto attualmente é in corso un processo di recupero e riadattamento delle antiche modalità rituali del tarantismo. Esse vengono rielaborate, mescolate, inserite dentro un nuovo contesto socio-culturale per mezzo di quelle che M. J. Herskovits definisce dinamiche di ritenzione, reinterpretazione e sincretismo.
Per ritenzione si intende la conservazione di un arcaico schema culturale. Lareinterpretazione consiste nella rielaborazione della definizione di quell’oggetto sociale. Il sincretismo, che nel tarantismo permetteva al rito “pagano” di sopravvivere alla religione cristiana, oggi è la dinamica per mezzo della quale la società salentina si costruisce un’identità culturale creata attorno al tema del tarantismo.
La società salentina sta esplorando da qualche anno a questa parte quella fase detta della “liminalità”, una periodo di transizione da una struttura sociale data ad una sostanzialmente nuova. La nozione di “liminalità”, studiata a fondo dall’antropologo Victor Turner, indica quella zona di confine che si viene a creare tra contesti socio-culturali già definiti e nuovi assetti. Turner asserisce che la liminalità consista “nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ludica dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra” (6) .
La sorgente di questi processi di trasformazione sociale sgorga da quello che Turner definisce “dramma sociale”, il limbo della creatività dove non sempre la potenzialità diventa atto: “un dramma sociale si manifesta innanzitutto come rottura di una norma, come infrazione di una regola della morale, della legge, del costume o dell’etichetta in qualche circostanza pubblica [...]. [Questa rottura] produce una crisi crescente, una frattura o svolta importante nelle relazioni fra i membri di un campo sociale, in cui la pace apparente si tramuta in aperto conflitto e gli antagonismi latenti si fanno visibili [...]. La fase finale consiste o nella reintegrazione del gruppo sociale dell’irreparabilità della rottura fra le parti in conflitto” (7) .
In quest’ottica l’analisi della società salentina si inscriverebbe agevolmente in una chiave di lettura che la vede rappresentata come un campo di tensioni, un luogo di conflitti e di contraddizioni in cui componenti tradizionali vengono rimescolate e ridistribuite in modo che accendano nuove dinamiche culturali.
Il “dramma sociale” costituirebbe quindi la scintilla del rinnovato interesse per il fenomeno del tarantismo, sia nell’immaginario collettivo che nell’ispirazione degli esperti del settore: musicisti, antropologi, operatori culturali.
Il tarantismo oggi - Tarantismo e transe
Il rapporto tra transe religiosa e stati modificati di coscienza
Una corposa corrente dei più recenti studi relativi al tarantismo si prodiga nell’individuare una relazione tra le forme di transe “religiosa” che si scatenavano nell’antico rituale del tarantismo (e in altri culti di possessione tuttora esistenti in molte parti del mondo) e gli stati modificati di coscienza che oggi molte persone, soprattutto giovani, cercano di raggiungere attaverso la musica e la danza durante quelli che sono stati definiti i neo-riti metropolitani: i techno-rave-parties illegali, il rito del ballo del sabato sera in discoteca, e, quello che ci interessa maggiormente, il recente fenomeno dei grandi concerti di musica tradizionale salentina suonata in un contesto “tecnologico”. Nonostante le doverose differenziazioni tra queste diverse tipologie di happenings giovanili, esiste almeno un fattore comune che è rappresentato dall’elemento musicale: il ritmo, ossessivo e ripetitivo, della pizzica tarantata possiede notevoli affinità con la musicatechno “pompata” dai sound system nei rave-parties e con la house-music“stordita” dal DJ in discoteca. Ripetitività che appare peraltro una delle caratteristiche fondamentali di tutte le “musiche da transe”.
Per transe o stato modificato di coscienza si intende uno stato di coscienza differente da quello ordinario. La transe può essere definita come una alterazione psichica, una riorganizzazione della coscienza, un cambiamento radicale del suo funzionamento abituale.
Nulla di incredibile o spaventoso: lo stato di sogno, lo stato di ipnosi, il dormiveglia, sono tutti stati modificati di coscienza che quotidianamente ognuno di noi sperimenta.
Per molti studiosi non è corretto, a differenza di quanto sostiene la psichiatria classica, considerare tutti gli stati modificati di coscienza come inevitabilmente patologici; essi sembrano piuttosto esperienze che presentano aspetti neuro-fisiologici particolari, poiché è fondamentalmente “la cultura, intesa come insieme di norme e credenze, che impone un contenuto e un significato; è la cultura e più precisamente l’immaginario sociale che, a seconda dei casi, può reprimere o facilitare la ricerca e l’espressione di determinati stati alterati di coscienza.” (12)
Per questo la ricerca di stati modificati di coscienza, lungi dall’essere caratteristica esclusiva delle società primitive (alla cui base troviamo sempre un culto di gestione di tali stati), è un comportamento universale connaturato all’essere umano. Essa dà luogo a pratiche diversificate a seconda dei diversi contesti culturali, perchè ogni società seleziona alcuni stati modificati e li socializza ritualizzandoli secondo forme specifiche. Secondo Gilbert Rouget“l’universalità della trance indica che essa corrisponde ad una disposizione psicofisiologica innata della natura umana, più o meno sviluppata, beninteso, secondo gli individui, mentre la variabilità delle sue manifestazioni deriva dalla diversità delle culture attraverso le quali essa trova una forma” (13) .
E se è vero che la transe è propria dell’indole umana e le sue manifestazioni si diversificano a seconda della cultura entro cui si produce, allora, la definizione di transe come “stato modificato di coscienza culturalmente elaborato, socializzato e ritualizzato” (14) , data da Bourguignon, Lapassade e Rouget è perfettamente coerente con questa affermazione.
Per transe o stato modificato di coscienza si intende uno stato di coscienza differente da quello ordinario. La transe può essere definita come una alterazione psichica, una riorganizzazione della coscienza, un cambiamento radicale del suo funzionamento abituale.
Nulla di incredibile o spaventoso: lo stato di sogno, lo stato di ipnosi, il dormiveglia, sono tutti stati modificati di coscienza che quotidianamente ognuno di noi sperimenta.
Per molti studiosi non è corretto, a differenza di quanto sostiene la psichiatria classica, considerare tutti gli stati modificati di coscienza come inevitabilmente patologici; essi sembrano piuttosto esperienze che presentano aspetti neuro-fisiologici particolari, poiché è fondamentalmente “la cultura, intesa come insieme di norme e credenze, che impone un contenuto e un significato; è la cultura e più precisamente l’immaginario sociale che, a seconda dei casi, può reprimere o facilitare la ricerca e l’espressione di determinati stati alterati di coscienza.” (12)
Per questo la ricerca di stati modificati di coscienza, lungi dall’essere caratteristica esclusiva delle società primitive (alla cui base troviamo sempre un culto di gestione di tali stati), è un comportamento universale connaturato all’essere umano. Essa dà luogo a pratiche diversificate a seconda dei diversi contesti culturali, perchè ogni società seleziona alcuni stati modificati e li socializza ritualizzandoli secondo forme specifiche. Secondo Gilbert Rouget“l’universalità della trance indica che essa
E se è vero che la transe è propria dell’indole umana e le sue manifestazioni si diversificano a seconda della cultura entro cui si produce, allora, la definizione di transe come “stato modificato di coscienza culturalmente elaborato, socializzato e ritualizzato” (14) , data da Bourguignon, Lapassade e Rouget è perfettamente coerente con questa affermazione.
Secondo Rouget la transe è uno stato inconsueto e passeggero che porta all’alterazione e all’intensificazione delle facoltà mentali e della forza fisica. In altre parole “la transe si presenta sempre [...] come un superamento di se stesso, come una liberazione [...], come un’esaltazione - talvolta autolesionistica - dell’io” (15) .
Lapassade, invece, si spinge oltre questa definizione capovolgendo paradossalmente i termini del discorso: la coscienza morale è quella veramente alterata perché deve assolvere alle esigenze della vita quotidiana, mentre “la coscienza cosiddetta alterata è al contrario originaria, è la coscienza dello stato primario, e non ‘secondo’, di fusione e di indistinzione. Ma dal momento che è tenuta sotto controllo, questa coscienza apparirà come alterata, ‘esplodente’ o anche ‘spezzata’ una volta che essa venga ritrovata e messa in libertà” (16) .
Gli stati modificati di coscienza sono dunque potenzialità insite in ciascun individuo perché ognuno di noi ha una coscienza “diversa” che spinge per uscire sopprimendo i confini fra reale e fantastico.
Accanto alla transe di origine religiosa che affonda le sue radici in epoche lontane, oggi, all’interno di una società altamente tecnologizzata, si sviluppano nuovi tipi di dissociazioni che sembra possano avere dei legami con quegli antichi culti di possessione.
La religione è stata da sempre il luogo deputato della transe, il suo spazio privilegiato. Ma da quando la religione, almeno in Occidente, ha perso il suo potere indiscusso, la transe si svincola dalla ritualitá sacra e affiora negli ambiti più diversi e “profani”.
Nuovi fattori, come la telefonia mobile, internet e le droghe sintetiche, hanno modificato profondamente il tempo e lo spazio soggettivo: “[...] vi sono situazioni nelle quali il tempo non scorre e altre invece in cui è enormemente accelerato [...]. In entrambi i casi si arriva a una situazione di tendenziale abolizione del tempo: la dilatazione illimitata dell’istante coincide con l’illimitata frantumazione del continuo [...]. La modificazione temporale introduce una dimensione inedita, corrispondente a quella che sostiene e forma uno stato estatico” (17) . Oggi le masse hanno la possibilità di accedere a quegli strati di esperienze prima riservati a piccole comunitá di iniziati. Diventano relativamente frequenti e diffusi, soprattutto fra i giovani, quegli stati alterati di coscienza che cambiano la percezione della realtà, che creano l’illusione di sospendere il tempo della vita quotidiana e di far recuperare all’io l’interezza perduta attraverso transe liberatorie.
Lapassade, invece, si spinge oltre questa definizione capovolgendo paradossalmente i termini del discorso: la coscienza morale è quella veramente alterata perché deve assolvere alle esigenze della vita quotidiana, mentre “la coscienza cosiddetta alterata è al contrario originaria, è la coscienza dello stato primario, e non ‘secondo’, di fusione e di indistinzione. Ma dal momento che è tenuta sotto controllo, questa coscienza apparirà come alterata, ‘esplodente’ o anche ‘spezzata’ una volta che essa venga ritrovata e messa in libertà” (16) .
Gli stati modificati di coscienza sono dunque potenzialità insite in ciascun individuo perché ognuno di noi ha una coscienza “diversa” che spinge per uscire sopprimendo i confini fra reale e fantastico.
Accanto alla transe di origine religiosa che affonda le sue radici in epoche lontane, oggi, all’interno di una società altamente tecnologizzata, si sviluppano nuovi tipi di dissociazioni che sembra possano avere dei legami con quegli antichi culti di possessione.
La religione è stata da sempre il luogo deputato della transe, il suo spazio privilegiato. Ma da quando la religione, almeno in Occidente, ha perso il suo potere indiscusso, la transe si svincola dalla ritualitá sacra e affiora negli ambiti più diversi e “profani”.
Nuovi fattori, come la telefonia mobile, internet e le droghe sintetiche, hanno modificato profondamente il tempo e lo spazio soggettivo: “[...] vi sono situazioni nelle quali il tempo non scorre e altre invece in cui è enormemente accelerato [...]. In entrambi i casi si arriva a una situazione di tendenziale abolizione del tempo: la dilatazione illimitata dell’istante coincide con l’illimitata frantumazione del continuo [...]. La modificazione temporale introduce una dimensione inedita, corrispondente a quella che sostiene e forma uno stato estatico” (17) . Oggi le masse hanno la possibilità di accedere a quegli strati di esperienze prima riservati a piccole comunitá di iniziati. Diventano relativamente frequenti e diffusi, soprattutto fra i giovani, quegli stati alterati di coscienza che cambiano la percezione della realtà, che creano l’illusione di sospendere il tempo della vita quotidiana e di far recuperare all’io l’interezza perduta attraverso transe liberatorie.
Una delle esigenze che sembra muovere i giovani verso la transe è la ricerca di una dimensione inedita, autonoma o per lo meno alternativa alle forze espropriative della società contemporanea. Quello che prevale nelle feste metropolitane (rave, concerti di pizzica e quant’altro) è un carattere ludico ed edonistico, la voglia di fare festa, di divertirsi per dimenticare tutto il resto attraverso la ricerca di una “fusione collettiva”, ideale unione con una folla di “simili”. Le giovani generazioni compiono attraverso questo rito urbano “l’esperienza della solidarietà e dell’appartenenza e dell’integrazione ad una collettività nuova” (18) . E proprio nel concetto di “festa” convivono tre elementi essenziali: il gioco, la rottura col quotidiano e, non a caso, la trascendenza. Il bisogno impellente dei giovani è quello di sfuggire a tutti i codici sociali, alle regole del comportamento istituito, oltrepassando la propria condizione e la propria identità attraverso momentanei stati modificati di coscienza.
È dunque possibile paragonare la transe “etnica” e liberatoria del tarantato agli stati alterati di coscienza vissuti dai giovani in quei rituali della modernità che sono, con i dovuti distinguo, i concerti di musica “attarantata”, i techno-rave parties illegali o le notti in discoteca?
Secondo alcuni studiosi sì, è lecito tracciare un parallelo tra la possessione del tarantato come veicolo per la soluzione di problemi profondi e l’ottundimento sensoriale provocato dalla musica, dalla danza, dalla droga e dall’alcol, attraverso cui le nuove generazioni cercano di liberarsi dalle alienazioni della vita quotidiana.
Lapassade, che come si è visto dà al termine transe un valore positivo, non condivide in pieno questa posizione convinto che le condizioni sociali metropolitane non favoriscano l’emergenza di nuove pratiche di transe. Anzi, secondo l’etnologo francese, l’estrema tecnologizzazione e la razionalizzazione sociale del nostro tempo distruggono le transe tradizionalmente intese, tramutandole tutto al più in forme di alienazione, caratterizzate da una sorta di torpore intellettuale, di deprivazione sentimentale. L’individuo alienato delle metropoli, desensibilizzato dalla super-alfabetizzazione tecnologica, vive transe oggettivanti, possessive e antiestetiche, ostili alla comunicazione. Distruzione del sentimento e del contatto. Trionfo della necrofilia tecnologica e della deprivazione sensoriale.
Secondo alcuni studiosi sì, è lecito tracciare un parallelo tra la possessione del tarantato come veicolo per la soluzione di problemi profondi e l’ottundimento sensoriale provocato dalla musica, dalla danza, dalla droga e dall’alcol, attraverso cui le nuove generazioni cercano di liberarsi dalle alienazioni della vita quotidiana.
Lapassade, che come si è visto dà al termine transe un valore positivo, non condivide in pieno questa posizione convinto che le condizioni sociali metropolitane non favoriscano l’emergenza di nuove pratiche di transe. Anzi, secondo l’etnologo francese, l’estrema tecnologizzazione e la razionalizzazione sociale del nostro tempo distruggono le transe tradizionalmente intese, tramutandole tutto al più in forme di alienazione, caratterizzate da una sorta di torpore intellettuale, di deprivazione sentimentale. L’individuo alienato delle metropoli, desensibilizzato dalla super-alfabetizzazione tecnologica, vive transe oggettivanti, possessive e antiestetiche, ostili alla comunicazione. Distruzione del sentimento e del contatto. Trionfo della necrofilia tecnologica e della deprivazione sensoriale.
L’unico legame realmente esistente fra l’antica transe “agricola” e questa metropolitana sembra essere la costante umana nel cercare delle dimensioni “altre”, per oltrepassare la normalità e accedere al trascendente, quand’anche questo legame non venga messo in discussione: il già citato Vincenzo Santoro, per esempio, categoricamente rifiuta “che si possa spiegare la crescita delmovimento della pizzica con la ricerca di ‘stati modificati di coscienza’, in esplicito collegamento con la ‘transe’ del ‘tarantismo’ ma anche con il fenomeno metropolitano del ‘rave’. Nel Salento i concerti e le feste non sono frequentati solo da giovani, ma anche i vecchietti, le mamme con i bambini [...], insomma le famiglie al completo. La gente cerca il divertimento, la socializzazione, la musica e il ballo, e non certo la transe. [...] Ci troviamo di fronte all’espressione di un bisogno di socialità, alla riscoperta di un modo particolare di ‘stare insieme’ e del valore comunitario della festa, della musica e della danza” (20) .
È possibile forse trovare, forzando magari un po’ i termini, un’ultima, ulteriore affinità fra i due tipi di transe (arcaica e moderna) sul piano curativo e terapeutico. In fin dei conti l’essenza della transe, sia che essa si manifesti in un ritrovo rave o in un rito domiciliare di tarantismo, è sempre la “guarigione”, seppure temporanea e diversamente intesa, da ogni sorta di male di cui l’individuo soffre.
È possibile forse trovare, forzando magari un po’ i termini, un’ultima, ulteriore affinità fra i due tipi di transe (arcaica e moderna) sul piano curativo e terapeutico. In fin dei conti l’essenza della transe, sia che essa si manifesti in un ritrovo rave o in un rito domiciliare di tarantismo, è sempre la “guarigione”, seppure temporanea e diversamente intesa, da ogni sorta di male di cui l’individuo soffre.
In definitiva, se il fenomeno, tutto moderno, del recupero metropolitano del “rito della taranta” sia più o meno collegabile, nell’ambito della transe terapeutica, all’antico culto di guarigione salentino, è una contesa tutt’ora aperta, fonte di numerosi convegni e dibattiti. Di certo sempre più diffuso sembra l’interesse verso la cultura, la società e la taranta salentina. Salvatore Colazzo, profondo conoscitore del Salento e delle sue “cose”, tenta di dare un riscontro a questo interesse:
“La taranta si propone come idonea accompagnatrice di chi cerca dimensioni di conoscenza ulteriore e forme di coscienza altre [...]. Sembra di intravedere nella diffusa passione per la taranta, specie tra i più giovani, un bisogno di riaprire il vettore del tempo, appiattitosi sull’unica dimensione del presente che, attraverso la potenza dei nuovi mezzi di comunicazione, attualizza il passato e rende impensabile pensare il futuro se non come perpetuazione dell’oggi.
Certo, c’è anche lo sfruttamento consumistico del fenomeno, il suo intersecarsi col business d’un turismo più o meno avido di esotismo a buon mercato; ma togliendo la scorza è possibile leggere un’ansia profonda, quella di una civiltà che è presa dall’inquietudine di recuperare l’uomo in un ordine più vasto, in un sistema di equilibri più complessi, nell’ambito dei quali tutto il rimosso da una ragione preordinata e orientata alla prassi efficace possa riemergere per essere integrato in una forma di conoscenza che oggi, in cui pure la comunicazione è sovrana, è quasi del tutto inattinta. La taranta e i suoi rituali sono percepiti come se in essi sia celato un messaggio remoto, [...] come se in essi vi sia la risposta a quell’inquietudine, che il più ampio benessere materiale, le più alte conquiste scientifiche e tecnologiche, pure avvincenti, non possono tacitare, l’inquietudine che accompagna come ombra l’umano errare, che solo ad avvertirla è in grado di rovesciare il senso delle cose” (20).
“La taranta si propone come idonea accompagnatrice di chi cerca dimensioni di conoscenza ulteriore e forme di coscienza altre [...]. Sembra di intravedere nella diffusa passione per la taranta, specie tra i più giovani, un bisogno di riaprire il vettore del tempo, appiattitosi sull’unica dimensione del presente che, attraverso la potenza dei nuovi mezzi di comunicazione, attualizza il passato e rende impensabile pensare il futuro se non come perpetuazione dell’oggi.
Certo, c’è anche lo sfruttamento consumistico del fenomeno, il suo intersecarsi col business d’un turismo più o meno avido di esotismo a buon mercato; ma togliendo la scorza è possibile leggere un’ansia profonda, quella di una civiltà che è presa dall’inquietudine di recuperare l’uomo in un ordine più vasto, in un sistema di equilibri più complessi, nell’ambito dei quali tutto il rimosso da una ragione preordinata e orientata alla prassi efficace possa riemergere per essere integrato in una forma di conoscenza che oggi, in cui pure la comunicazione è sovrana, è quasi del tutto inattinta. La taranta e i suoi rituali sono percepiti come se in essi sia celato un messaggio remoto, [...] come se in essi vi sia la risposta a quell’inquietudine, che il più ampio benessere materiale, le più alte conquiste scientifiche e tecnologiche, pure avvincenti, non possono tacitare, l’inquietudine che accompagna come ombra l’umano errare, che solo ad avvertirla è in grado di rovesciare il senso delle cose” (20).
Bibliografia
Salvatore Colazzo in Georges Lapassade, Intervista sul tarantismo, Madona Oriente, Maglie, 1994, p. 84.
Piero Fumarola - Georges Lapassade, Inchiesta sull’Hip-Hop, Capone, Lecce, 1993
Pierfrancesco Pacoda (a cura di), Potere alla parola, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 98.
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Gilberto Camilla, Per una scienza degli stati di coscienza, introduzione ad “Altrove” (Annuario della Società Italiana per lo studio degli stati di coscienza, Sissc) 1, 1983, p. 14.
Gilbert Rouget, La musica e la transe, Einaudi, Torino, 1986, p. 11.
Georges Lapassade, Stati modificati e transe, Sensibili alle Foglie, Roma, 1993, p. 41.
Gilbert Rouget, op. cit., p. 26.
Georges Lapassade, Saggio sulla transe, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 169.
Elvio Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano, 1989, p. 91.
Astrid Fontaine - Caroline Fontana, Raver, Sensibili alle Foglie, Roma, 1997, p. 28.
Anna Nacci (a cura di), Tarantismo e Neotarantismo, Besa, Nardò, 2001, p. 43.
Salvatore Colazzo, La taranta, oggi in www.amalteonline.com
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