A cinque braccia sul fondo
tuo padre è sepolto.
Son fatte corallo le sue ossa
due perle quelli che erano i suoi occhi.
Nulla di lui va disperso
ma una magia del mare
lo tramuta in qualcosa di ricco e strano.
A ogni ora le ninfe del mare rintoccano per lui".
Canto di Ariel nella "Tempesta" di Shakespeare
“Nessun uomo è un'isola
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del continente
una parte della terra.
Se una zolla viene portata via dall'onda del mare
la terra ne è diminuita
come se un promontorio fosse stato al suo posto
o una magione amica o la tua stessa casa.
Ogni morte di uomo mi diminuisce
perché io partecipo all'umanità.
E così non mandare a chiedere
per chi suona la campana:
essa suona per te “.
Per chi suona la campana, John Donne
La tragedia delle democrazie moderne
è che non sono riuscite a realizzare la democrazia
Jacques Maritain, Cristianesimo e democrazia
La politica non è che un riflesso dei nostri mondi interni dove si svolgono, ancor prima che nel mondo esterno, agòni cruciali nei quali dobbiamo integrare ogni voce per evitare dittature interne altrettanto micidiali. La democrazia interna degli affetti e il diritto di cittadinanza interna alle parti straniere di noi stessi è conditio sine qua non della democrazia esterna e del diritto di cittadinanza ai cittadini di altri stati, religioni e culture.
La complessità del reale e la sua irriducibilità all'uso dell'antinomìa e del contrasto forzato degli opposti, di certo spaventa, come nei grandi gruppi induce depersonalizzazione, timore di annichilimento dell'identità e i confini dell'Io vacillano vertiginosamente. Se ne produce di converso un ingenuo, per quanto comprensibile, tentativo di semplificazione per ristabilire i confini e la densità dell'Io. Ma si dimentica in tal modo che la vita è sempre molto vicina alla morte, così come il bianco al nero, il maschile al femminile e che i confini sono più figli del concetto di mappa che di quello di territorio.
Assistendo inermi all'ignobile spettacolo delle guerre mi chiedo se solo permanendo così a lungo nello stato megalomanico schizoparanoide e mai frequentando proficuamente lo stato depressivo - e cioè utilizzando la consapevolezza della propria vulnerabilità personale per cogliere l’altrui vulnerabilità - si può giustificare una Guerra così odiosa. Kierkegaard sottolineò che solo la consapevolezza del nulla porta alla presentificazione dell'Altro, alla responsabilità e ad una Vita etica. Comunque siano andate realmente le cose, il comportamento violento resta ancora libero per quanto confinato nel cervello Rettile-Amigdalico dove si piange il sequestro della nostra più grande conquista evolutiva: la neo corteccia.
E, dunque viene da chiedersi: quale primato evolutivo?
Penso a questo particolare momento sociale e politico come un momento necessario a rilanciare utopie dall’ampio respiro che forse abbiamo dimenticato schiacciati come siamo dall’essere focalizzati ossessivamente a faccende individuali com’è della nostra epoca globalizzata. E penso dunque al termine COSMO POLITISMO con tutte le sue propensioni morali e sociali rivolte al cambiamento, alla pacificazione e all’uguaglianza nella diversità non di questa o quella parte della Terra ma di tutta la Terra.
Il senso del tempo è assolutamente necessario e con esso il senso del nostro passato. Ma ugualmente abbiamo bisogno del senso dell’Oltre, del darsi di qualcosa che non c’è ancora, che non coincide con l’esistente, ma che è ancora inesplorato. Il non ancora lega infatti il nostro passato al nostro futuro.
La concezione aristotelica dell’uomo come animale politico, l’uomo che è veramente tale solo se partecipe di una polis, di una comunità, pare aver lasciato il posto all’assunto postmoderno dell’inarrestabile sviluppo dell’individualismo: l’uomo monade, l’uomo IO.
Ma il tu? Il lui? Il noi, il loro? L’altro?
Il liberalismo, pur nelle sue indubbie virtù pare insoddisfacente se poco temprato dall’attenzione rivolta al tu, lui, noi, loro.
Un uomo non è solo un Io, un mero individuo. L’uomo come diceva Holderlin è un colloquio. Siamo dotati di una intuitiva volontà di comprendere, approfondire attraverso un continuo scambio di idee di emozioni, di affetti, di inquietudine e di bisogni. Attraverso la tolleranza del rispetto per il pensare, sentire, essere e agire dell’altro.
In sanscrito, il linguaggio dei Veda, il termine che più si avvicina a "rapporto" è sambandh, che deriva da sam, che significa intero e bandh, che significa limitato.
Questa parola nasconde un paradosso.
Per sentirci esseri completi, liberi, realizzati, dobbiamo scegliere di limitarci, di essere legati a noi stessi o a un altro.
E questi limiti, questi legami, ci consentono di progredire in piena libertà.
Uno dei grandi meriti della psicoanalisi sociale e di gruppo è stato anche quello di svelare le dinamiche gruppali da cui origina l’aggressività, la guerra, la paranoia come suo motore principale: una paranoia, una guerra ed una violenza che pare dover fare i conti con il nostro mondo interno, se non prima al meno al contempo con il nostro mondo esterno .
Noi tutti stiamo attraversando una Tempesta dai tempi e dagli esiti incerti che si riverbera nelle nostre menti con ansia, timori di perdita, di rovina, di fine del mondo.
Il mare in tempesta compare spesso nei sogni della fase iniziale dell'analisi, significativi di impedimenti a poter mettere insieme aspetti scissi di sé.
Uno dei grandi messaggi che la psicoanalisi sociale lancia alla politica è la necessità di conoscere gli aspetti scissi e cercare di integrarli: la scissione fra falso sé e sé autentico, la scissione fra aspetti personali reali e aspetti ideali a volte tirannici e la conseguente vergogna, la rabbia che può venire dal sentirsi al centro di un offesa per fare solo qualche esempio della sfera personale. Ma quanto queste tendenze individuali alla polarizzazione marcata diventano poi fattori collettivi, scontri ideologici? Quanto, viceversa i fattori culturali e ideologici avvallano, stabilizzano e autorizzano certe tendenze individuali patologiche?
Quanto il Mediterraneo oggi si fa dunque teatro dello scontro delle identità, affondamento di barconi, aspetti scissi che si vuole restino eternamente scissi?
Quanto invece la sua vocazione al viaggio, come nella celeberrima Itaca di Kafavis, come dice Eugenio Gaburri grande metafora del viaggio dell’analisi, fa del Mediterraneo il luogo ancor prima mentale che geofisico di dialogo e composizione delle conflittualità?
Il Mediterraneo, il Mare Nostrum, mi sembra luogo da interrogare nuovamente per il suo significato autenticamente e potenzialmente cosmopolita e capire se e cosa e quando l’abbiamo dimenticato.
Nell'epistemologia marinara mediterranea il domani può portare naufragi è vero, ma anche una ricca pesca. Lo straniero, il diverso è ricercato e indispensabile, perché con lui si possono fare "traffici" e scambi e da lui si può imparare.
Come dice Lo Verso, nel mondo marinaro l'altro è spesso stato nemico ma vi è troppa “cultura” ed esperienza per parlare di “civiltà superiori”.
Il Mediterraneo ha conosciuto e conosce tuttora l’incontro e lo scontro tra civiltà. Il Mediterraneo antico fu greco, fenicio-punico, romano, arabo: sempre si è trovato a fare i conti con diverse identità.
Il Mediterraneo, come dice Lo Verso, è uno dei miti e delle epistemologie fondativi del mondo occidentale, luogo centrale nella nostra civiltà perché attorno ad esso c'è stato lo scontro tra le culture fondamentalista e la grande apertura alla cultura dello scambio, della relazione, della condivisione e del crogiolo delle differenze.
Da questo punto di vista il mediterraneo rappresenta un possibile grande NOI, palestra della polis, di conoscenza, consapevolezza, di democrazia degli affetti, luogo simbolico di politica psichica interna ancor prima che entità geopolitica.
L’Europa sarà capace di rispondere alle sfide del mondo moderno solo se sarà capace di difendere la sua cultura mediterranea. E la sua cultura si difende se tutti saremo capaci di riappropriarci della tradizione e rendere questa tradizione identità del e per il futuro.
Come nota Adriana Pedicini:
“ Il mito mediterraneo per eccellenza è quello di Ulisse, seguito da quello di Enea.
Il loro viaggio si compie per mare, esso rappresenta il futuro.
Entrambi gli eroi hanno in comune l’esperienza di navigazione, dei ritorni avventurosi e delle sofferenze: Ulisse anela a ritornare nella propria patria lontana, Enea, sopravvissuto alla guerra, desidera trasmigrare in nuove sedi.
L’Odissea insegna la sapienza greca appresa dalla lunga conoscenza del mondo e dalla conoscenza della fortuna, le cui vicende, come spesso dal sommo della felicità ci urtano nel sommo delle disgrazie, così dal fondo delle disgrazie ci sollevano al sommo della felicità; in modo che né sicuri delle cose prospere dobbiamo vivere, né abbandonarci nelle avversità; ma piuttosto armarci di forza, per resistere e riservarci allo stato migliore. Perciò Ulisse sbattuto dai venti, minacciato dai pericoli, allontanato dalla patria da tante tempeste, pur non si perde mai di animo.
All’opposto di Ulisse il destino di Enea nasce dalla distruzione, dalla fuga e dall’esilio definitivo. Troia brucia, c’è il massacro dei vinti. Enea fugge dalla sua terra e comincia a percorrere una nuova rotta; perduta ogni speranza cerca nuove radici. La patria, i Penati, gli affetti se li porta con sé verso l’ignoto, ma con l’idea della terra promessa e l’occulto progetto di fondare una nuova patria e un nuovo ordine.
Entrambi vengono da un lutto, da una perdita ma il primo non vuole che il ritorno, il secondo abbandonata ogni speranza va verso il nuovo”.
Tolleranza intolleranza, pace conflitti.
Penso al nostro Mediterraneo insanguinato, che accoglie solo in parte i nostri fratelli nordafricani ma che anche non vuole vedere i cadaveri degli immigranti raccolti ormai a centinaia dalle reti dei pescatori siciliani durante le loro consuete giornate di pesca, non vuol farsi carico in alcun modo, se non con proclami politici, dell’ennesimo dramma causato dal non vedere l’altro e di non elaborare il lutto di queste perdite.
Viviamo in un’epoca in cui, abbandonate le grandi ideologie, sembra rialimentarsi l’illusione di una pace vista come condizione idealizzata d’assenza di conflitti e non come momento d’indispensabile sintesi e composizione delle diversità. “Shalom, in ebraico, è invece il traguardo della pace derivante dalla shelemut, che significa interezza, la pienezza conseguibile attraverso uno sforzo di completamento interiore”.
Il più grande testo dell'epopea contadina Le opere e i giorni di Esiodo, parla della speranza che tutto sia sempre uguale e postula l'estraneità e la novità come ciò che distrugge le messi e le vite.
Una fantasia onnipotente e autarchica d’assenza di ciò che è altro da noi che, di fatto, conduce a una sua eliminazione (l'ignorare è eliminare) apparentemente pacifica e priva di assunzioni di responsabilità.
In questo modo si evita l’elaborazione del lutto, termine che etimologicamente deriva dal verbo latino labor, labersis, lapsus sum, labi, che vuole dire "faticare con sofferenza” e dalla preposizione “e” che appunto indica separazione, uscita da quello stato.
Fornari, nell'insuperata opera del 1966 Psicoanalisi della guerra parlò di elaborazione paranoica del lutto: il lutto non è più sofferenza per la morte della persona cara ma uccisione del nemico illusoriamente pensato come uccisore.
L'originario terrificante sentimento interno depressivo emergente sotto forma di senso di colpa per la morte dell'oggetto amato viene eluso pensando che la responsabilità non sia propria ma di un nemico esterno.
Questo significa che nessuno - neanche il pacifista militante - può aspettarsi che l'abbandono delle verità assolute si realizzi spontaneamente se non attraverso un atto di faticosa (labor) dolorosa , autoimposta ma indispensabile rinuncia…
La complessità crescente del reale spaventa e induce un sempre più diffuso timore di annichilimento dell'identità che esita di converso in un ingenuo, per quanto comprensibile, tentativo di riduzionismo.
Non vedere è essenziale per questa specie di agnosìa.
Vedere è infatti sapere.
Orazio (Epistole 1, 2), nella lettera all’amico Massimo Lollio, lo invita a “sapere aude”, osare sapere, farsi carico, assumere la responsabilità del rischio di sapere.
Non vedere è, dunque, ignorare.
Così pare che, lì dove la salute possa consistere nell’aver faticosamente conquistato la libertà di poter fluttuare dalla considerazione dei propri desideri e bisogni individuali alla necessaria condivisione della realtà con gli altri, nella nostra epoca ci si trovi invece "costretti", “obbligati” (nel senso del latino compulso) a stare o da una parte o dall’altra. O attestati - cioè- su posizioni ultraindividualistiche o identificati con la massa nel conformismo gregario dell’"Ululare con i lupi" che impedisce la solitudine dell’essere individuo differenziato: non si pensa, si fa come fanno tutti. Ci si nasconde nell’anonimato e nell’illusione dell’essere potente quanto la massa così come ci ha insegnato Freud nei suoi scritti sociali Psicologia delle masse e analisi dell'io, Totem e tabù, Il disagio della civiltà, Mosè e il monoteismo.
Nel suo scritto del 1784 Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?, Kant riprende il sapere aude di Orazio e ne dà una celeberrima interpretazione illuministica:
L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!
Dialogando idealmente con Kant noi pensiamo però che l'autonomia di giudizio e di ricerca, pur permanendo un valore essenziale, può essere raggiunta anche grazie al confronto e all'aiuto dell'altro.
La dipendenza è una cosa, l’interdipendenza un’altra.
Dove e come è possibile formare, allenare e rendere saldo un sé che possa permettersi invece il rischio - ma anche il lusso- di interfacciare le sue diverse sfaccettature, dando diritto di cittadinanza ai diversi aspetti del proprio mondo interno – prima – e quindi, in un secondo momento, all’esistenza dell’altro da sé.
Nell'ambito della "democrazia degli affetti" abbiamo bisogno di sostare nelle aree conflittuali e non di evitarle o di pensarle pacificate con un puro atto, pur se etico della volontà come si ritiene in ambito religioso.
I diversi affetti lottano per l'affermazione del loro ideale dell'Io, ma tutti sono necessari, per lo sviluppo.
Come sottolinea F.Tagliagambe : “La lotta politica rappresenta l’esternazione nella “polis” del mondo interno dell’individuo. L’area del conflitto si ritrova trasversalmente quindi nella sfera intrapsichica e sociale, e la sua elaborazione è imprescindibile e decisiva per il benessere o per il malessere dell’individuale ma anche del sociale. In un'epoca attuale che enfatizza l'individualismo e la competizione sono sempre più diffuse le manifestazioni di un disagio nell'area del narcisismo, della dipendenza e della distanza.Le patologie del “come se” e del “falso sé”, le diverse forme di tossicodipendenza, le depressioni, i disturbi alimentari e gli attacchi di panico rappresentano malesseri di un sé che si nasconde e si isola nei suoi inconfessabili vissuti di inadeguatezza e di vergogna. L'elaborazione di questa conflittualità interna, nella cassa di risonanza del gruppo terapeutico diventa possibilità di rappresentarla e vederla come conflittualità di rapporti con gli altri con l’opportunità di sperimentare modelli relazionali nuovi interni a noi ma anche sociali, che diano diritto di cittadinanza e quindi democrazia interna ad aspetti non nati, o soffocati di sé . L’amore è infatti possibile solo fra esseri distinti “.
Dice il Talmud: “cura un uomo e avrai curato il mondo”.
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