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La mente può trovarsi in stati diversi , il sonno ,il sogno, la trance,l'ipnosi,l'attenzione fluttuante,
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l'esplorazione dello spazio e degli abissi marini,l'agonismo sportivo.

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Piu pillole e meno pensieri di Niels Peter Nielsen

STATI DELLA MENTE vuole ricordare con questo suo celebre saggio, la figura di Niels Peter Nielsen, medico psichiatra e psicoanalista S.P.I e docente IIPG a Milano , che abbiamo avuto la fortuna di conoscere come Maestro e collega, autore dei celebri Libri L'UNIVERSO MENTALE NAZISTA ,  I COLORI DELL'ODIO , RORSCHACH A NORIMBERGA.








La ricerca di un medicamento, che tolga al paziente l’onere di affrontare le proprie difficoltà affidandosi ad agenti chimici ritenuti onnipotenti, è una prassi che accomuna coloro che aspirano a superare un disagio esistenziale.

Stress è una parola invisa agli psicoanalisti, una parola fuorviante e onnicomprensiva che nel tempo ha assunto il carattere di uno stereotipo comprendente un coacervo di concetti non sempre univoci. Il termine viene ad esempio impiegato sia in riferimento allo stimolo (stressor) sia alla risposta dell’organismo che cerca di adattarsi allo stimolo.

Il termine stress, dall’inglese pressione, sollecitazione – mutuato dal gergo delle fabbriche negli anni della rivoluzione industriale inglese dove faceva riferimento alla resistenza delle strutture metalliche all’applicazione di forze esterne (Costa, 2003) – rimanda alla facoltà di migliorare le capacità prestazionali del soggetto. La parola, entrata nel linguaggio comune, è usualmente associata a vissuti d’ansia e di tensione muscolare per sovraccarico di stimoli oltre che a sensazioni di affaticamento generale e di sfinimento ammantandosi in genere di connotati negativi, che rinviano a una situazione di pericolo per la salute psicofisica o per la stessa vita.

Secondo la dizione originale di Hans Selye (1936) lo stress rappresenta una reazione aspecifica dell’organismo a qualsiasi stimolo interno o esterno di tale intensità e durata da innescare meccanismi di adattamento o riadattamento capaci di stabilire l’omeostasi. La rivisitazione del concetto ha portato a una sua ridefinizione. Lo stress, considerato una risposta integrata dell’organismo a modificazioni operate su di esso, risulta funzionale alla sopravvivenza; uno stato di tensione psicofisica dell’organismo nello sforzo di adattamento a una nuova situazione (Farné, 1999). Esso non è quindi di per sé una reazione negativa in quanto può fornire le energie necessarie ad affrontare in modo adeguato le richieste di sollecitazione psicofisica grazie all’attivazione di una risposta multimediale nei vari assi neuroendocrini che consente di migliorare la prestazione dell’individuo.

L’assenza dei meccanismi di stress è di fatto incompatibile con la vita. Selye ha più volte ribadito che «l’assenza di stress equivale alla morte». Anche se da tempo si cerca di accreditarlo come malattia sociale, lo stress (eustress) non è correlabile a una patologia. Solo quando le richieste ambientali superano le reali capacità di coping dell’individuo, la discrepanza tra lo stimolo e la risposta (distress), può causare nel soggetto una sensazione di stanchezza e una maggiore vulnerabilità allo sviluppo delle malattie. Elemento fondamentale della nostra esistenza, sovente lo stress viene erroneamente confuso con gli stati ansiosi nosograficamente riferibili invece all’attacco di panico, all’ansia generalizzata o a un disturbo da stress post traumatico. Manifestazioni patologiche note la cui descrizione è ben circoscritta dal DSM IV (ndr, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali IV) e il cui trattamento si avvale di elettive tecniche psicologiche e di farmaci specifici.

Nella comune accezione non specialistica lo stress è andato via via assumendo anche il senso di un diffuso malessere, di una sensazione di crollo imminente, di un profondo disagio più che di una specifica malattia.

Maria, una giovane studentessa di architettura, aveva richiesto un’analisi per affrontare una sensazione di incapacità, attribuita a uno "stress generalizzato" che in realtà mascherava una vera e propria crisi di identità. All’inizio dell’analisi, prendendo a prestito il termine dall’esame di Scienze delle costruzioni, aveva paragonato lo stress, che le procurava la sensazione di un imminente schiacciamento e stritolamento della mente, al "punto critico di esercizio" oltre il quale esiste un ragionevole pericolo di crollo dell’intera struttura veicolando a livello clinico l’importanza di intenderlo come un segnale utile e significativo.

La nozione di segnale rinvia a quella adottata da Freud nel 1925 quando abbandonò gran parte delle ipotesi precedenti sull’ansia. Segnale, azionato esclusivamente dall’Io, che presupponeva la mobilitazione di una certa quantità di energia a difesa della persona e che anticipava in un certo senso il concetto di stress. Quest’ultimo può essere infatti considerato anche una forma di segnale, che se perdura nel tempo e se rimane inascoltato si può trasformare in un serio problema di salute.

Matteo, manager molto impegnato, mi fece telefonare dalla sua segretaria perché non trovava il tempo necessario per farlo di persona. Presentatosi all’appuntamento con 15 minuti di ritardo manifestò immediatamente il fastidio di dover «perdere del tempo prezioso» per doversi sottoporre a un’"intervista" magari anche inutile. Nel breve tragitto che aveva fatto per recarsi nel mio studio aveva fantasticato che avrei potuto limitarmi a consigliare alla sua segretaria un farmaco altamente efficace. Avevo di fronte un uomo distinto, energico, pragmatico, apparentemente molto sicuro di sé, altero, che lasciava però trasparire una difficile quanto occultata richiesta di aiuto.

Aveva iniziato il colloquio senza "perdere tempo" affermando che si era deciso a contattarmi solo perché uno dei suoi clienti più importanti gli aveva suggerito il mio nominativo. L’amico navigando in Internet, aveva letto un’intervista che avevo rilasciato pochi mesi prima e che era stata pubblicata sul web nella rubrica "I grandi specialisti" e solo questo lo aveva convinto, ma lo ero veramente? A prima vista non gli sembravo all’altezza della situazione, non indossavo neanche la giacca e la cravatta! Ma se era vero potevo prescrivere subito, senza indugi, il miglior farmaco presente sulla piazza che lo potesse ricaricare perché con frequenza sempre maggiore si sentiva superstressato e nel contempo esausto e non riusciva più a seguire i mille impegni che si era creato.

Matteo esigeva qualcosa di rapido ed efficace per non avvertire un profondo senso di vuoto che provava appena rallentava il ritmo delle sue febbrili attività. Lo stress da una parte lo sosteneva nello sforzo ma temeva di doversi fermare, forse paventava un infarto. «Chi si ferma è perduto» aveva quasi sibilato fra i denti. Il mio tentativo di fermarlo un momento invitandolo a riflettere sulle cause del suo disagio lo aveva irritato: non voleva "pillole di saggezza" quelle le lasciava volentieri ai filosofi, lui pretendeva una soluzione concreta. Il tempo scandiva la vita di Matteo che ne appariva schiavo, ma il tempo risultava forse l’unico scopo-emozione che gli era concesso di vivere.

Inevitabilmente parlare di stress vuol dire parlare di tempo. L’individuo si sente costretto dall’attuale tipo di società a essere sempre più veloce per non perdere il passo. La capacità riflessiva viene posizionata nel tempo passato quasi come una modalità obsoleta che non può soddisfare le richieste e le necessità del presente. "Veloce, sempre più veloce" è il motto di una certa vita moderna che tende a divaricare sempre di più i tempi interni rispetto a quelli reali.

Benché sia un fatto innegabile che questa frenesia di arrivare presto e ovunque si sia fatta pressante non possiamo trascurare il fatto che esistono anche i tempi interni, che per loro essenza sono invece dilatati e rallentati. Il tempo della maturazione e della crescita necessita ad esempio di un lungo periodo fisiologico adeguato al raggiungimento dell’obiettivo di ogni singolo soggetto. I tempi mentali possiedono una loro peculiarità e non sono uguali per tutti.



Esiste una sostanziale discronia fra il dentro e il fuori. La celerità e la lentezza scandiscono i tempi dell’interiorità umana. La rapidità del pensiero sostiene un suo peculiare piacere, una sua ebbrezza, che richiama l’eccitazione della velocità fisica, la ponderatezza soddisfa invece la profondità e la riflessione. L’esistenza insegna con tempi propri, lunghi e inattesi, mentre gli aspetti creativi sembrano sprigionarsi da forze proprie, indipendenti da prolungati e faticosi apprendistati. La capacità di fare scelte meditate e riflessive, la saggezza e la virtù sono qualità che arrivano al termine di un lungo processo maturativo. Faticoso percorso durante il quale la vita ha sempre qualcosa da insegnare. La velocità del pensiero e delle emozioni, la freschezza e l’immediatezza con cui vediamo le cose sotto una nuova luce, con cui ci si aprono nuovi orizzonti, indicano invece aspetti dell’interiorità, in cui predomina la capacità di librarsi nella novità.

Su questa antinomia temporale si iscrivono le differenti culture che sostengono le diverse scelte terapeutiche. Bion (1992) ad esempio era solito sostenere che i farmaci sono i sostituti impiegati da coloro che non possono aspettare. Il farmaco è infatti sempre più impiegato come surrogato di interventi più approfonditi e strutturali se è vero che nel 1998, secondo il riscontro di Farmaindustria, sono state consumate 136 milioni di confezioni di psicofarmaci, di cui 99 milioni di ipnotici e benzodiazepine e 26 milioni di antidepressivi con un aumento annuo di oltre 1,5%.

Ancorati al farmaco

L’inadeguato impiego della nozione di stress così come viene usualmente esperita dai pazienti che il più delle volte lo considerano solo l’espressione sintomatologica di una malattia, tende ad allearsi con quelle resistenze che cercano di impedire la comprensione profonda del disagio psichico che sovente avviano una forma collusiva e patogena del rapporto medico-paziente. Se quest’ultimo rimane ancorato al farmaco in modo meccanico, senza divenire mediatore simbolico ed emotivo né oggetto concreto di relazione, può esercitare una forma di resistenza verso l’approccio psicologico aumentando difese e distanze che danno l’idea di "proteggere" la coppia medico paziente dall’analisi della sofferenza. E così vengono somministrate sempre più pillole.

«Assumere un medicamento è un modo apparentemente molto più rapido di curarsi del chiedersi perché si stia male. Però è altrettanto vero che con una pillola non si arriva a sciogliere il nodo che c’è dietro un problema. Paradossalmente un intervento di tipo psicologico, con dei colloqui che possono durare mesi e anni, possono raggiungere un risultato prima di quanto possano fare interi bidoni di pillole» (Argentieri, 1998).

La resistenza e il rifiuto a concedersi del tempo per analizzare le cause del disagio vengono razionalizzate. Matteo, nel lasciare ai filosofi l’analisi delle motivazioni e dei perché, aveva ad esempio cercato di teorizzare la scissione fra l’agire e il pensare, considerando la prima come un atto terapeutico, la seconda come sterile materiale di speculazione accademica.

La terapia farmacologica può tuttavia risultare preziosa nella cura dell’individuo stressato purché il medicamento non venga vissuto esclusivamente come farmaco-sostanza chimica operante asetticamente ma come un utile strumento inserito nel contesto della relazione terapeutica. In certe situazioni in cui il soggetto è troppo pressato dagli eventi esterni il farmaco può infatti diventare un vero e proprio mediatore relazionale, unico presidio in grado di agevolare l’accettazione di una figura terapeutica. Proponendo il farmaco come mezzo ausiliario viene offerta al paziente una medicina come pegno di un patto di collaborazione avviando le premesse per un’alleanza terapeutica. Ad esempio accettando di prescrivere un farmaco a Matteo mi ero collocato in un punto mobile d’intersezione tra il fare e l’accogliere in una relazione di complementarietà che teneva conto delle sue aspettative; il risultato fu che alcune settimane dopo Matteo mi ricontattò e questa volta personalmente.

La fretta, la verbalizzazione del rifiuto a programmare una terapia psicologica perché non si ha il tempo necessario, perché è troppo lunga, e non si può attendere sollecitano peraltro l’ascolto analitico. Come afferma Simona Argentieri (1998): «coloro che dichiarano di non avere tempo sono invece gli individui che necessiterebbero tempi di intervento dilatati, proprio perché, in questo rincorrere continuamente i loro problemi, in questo tentativo di fare dei cortocircuiti, più che delle operazioni autenticamente brevi, finiscono per passare tutta la loro vita soltanto a rincorrere i loro problemi, a curarsi, senza mai andare al dunque. Bisogna diffidare di coloro che hanno fretta, perché spesso sono le persone che in questo modo il tempo lo perdono davvero».

Un’originale scatoletta

Carlo un giovane di successo, stimato nel suo ambiente professionale inerente l’area dell’elettronica mi aveva contattato per una "verifica" del suo funzionamento mentale. Si sentiva talmente stressato che non era più in grado di proseguire le sue attività senza un aiuto "sia pure circoscritto". Aveva subito estratto con malcelata soddisfazione un portapillole alquanto originale da lui stesso ideato che aveva riciclato e scorporato da un avveniristico congegno elettronico. Era un contenitore di forma rotonda con uno spazio sferico centrale e una serie di comparti esagonali dentro i quali in bella mostra erano perfettamente ordinate una serie di pillole estraibili premendo delle micro levette. Mentre fantasticavo l’oggetto come una specie di tamburo di rivoltella fui sorpreso nel sentire la voce di Carlo che, quasi gridando, mi si rivolgeva con un «vede quante pillole mi sparo giù in un giorno» mettendomi sull’avviso, sia pure inconsapevolmente, della presenza di un sottostante nucleo autolesivo.

In effetti Carlo assumeva ben sette tipi di farmaci nell’arco della giornata: due tipi di vitamine, un integratore, un antidepressivo, un ansiolitico, un ipnoinduttore, un farmaco per abbassare il tasso del colesterolo e un donatore di metili, alcuni dei quali anche più volte al giorno. Potevo aiutarlo trovando un superfarmaco. Era oberato dal lavoro, dai pensieri e dalle preoccupazioni.

Desiderava avere meno pensieri o meglio togliersi il pensiero che lo affliggeva una volta per tutte. Sua madre aveva sentito al telegiornale che negli Stati Uniti stava per essere impiegato un farmaco specifico contro lo stress. Lo conoscevo? Era importabile? Gli sembrava una richiesta chiara e semplice. Carlo semplificava la sua richiesta ai minimi termini senza volersi soffermare sulle motivazioni del suo disagio, sul significato del suo stile di vita che per sua stessa ammissione gli toglieva la possibilità di poter vivere un’esistenza "minimamente normale".

Non avendo notizia di un farmaco mirabolante e specifico per l’individuo stressato cercai ugualmente di accogliere la domanda di Carlo suggerendo un modulatore dell’umore che, attraverso una prescrizione condivisa, potesse alimentare le aspettative del paziente riducendo lo stato di malessere. Poiché un farmaco non è assunto solo per via corporea ma lo è anche nella fantasia è importante trovare la molecola che sia in grado di permettere una trasformazione dell’attesa terapeutica, un medicamento che possa diventare un veicolo comunicativo, una sorta di farmaco-ponte in grado di attivare un’alleanza terapeutica (Nielsen, 1998).

La prescrizione non è mai neutra. Prescrivere un farmaco è, secondo il noto aforisma, prescrivere sé stesso. Suggerire la pillola "giusta" al momento giusto può rappresentare l’avvio di una relazione terapeutica invece che scandirne la fine.

Se invece l’unica entità presa in considerazione è il sintomo, nel caso dello stress, vago e con un alone semantico assai ampio, trascurando i conflitti latenti e la loro possibile decodificazione, l’impiego del farmaco è riduttivo e facilita la non elaborazione e, di conseguenza, la non risoluzione delle problematiche sottese allo stesso sintomo. Il rischio che ne segue è che l’uso del farmaco si trasformi in abuso, non più simbolo di un’alleanza terapeutica ma veicolo sostitutivo che tende a impedire la relazione con sé stesso e con l’altro.

La prescrizione affrettata e non adeguatamente ponderata, agita unicamente sul versante dell’anestesia momentanea della sofferenza, impedisce al farmaco di essere quel trait d’union che collega l’entità malattia con l’entità salute. Se l’unico scopo è quello di allontanare il sintomo senza nemmeno interrogarlo, il medicamento tende a offuscare le dinamiche interne e collude con la speranza di poterle affrontare attraverso una futura "pillola universale", esito finale di una onnipotente tecnica farmaceutica, specifica proiezione della propria onnipotenza mancata.

Il farmaco si sostituisce al pensiero e l’azione farmacoterapica diviene una sindrome che coopera a modificare la struttura mentale: la farmacoterapia invece che curare diviene essa stessa una nuova patologia mentale.

Uno dei rischi più elevati nell’impiego automatico e stereotipo dei farmaci è la paralisi del pensiero. Sappiamo che la terapia farmacologica tende infatti a guarire attraverso una negativizzazione dei conflitti che porta all’eliminazione del livello d’angoscia. Angoscia-segnale che se rimane nel seno della tollerabilità diviene uno dei più potenti motori verso la ricerca delle motivazioni profonde del disagio vissuto. Se invece prevale l’uso del farmaco solo come "silenziatore" delle turbolenze interne si rischia di avviarsi, come si evince dalle esemplificazioni cliniche, verso una sorta di paralisi della vita psichica che trasforma pian piano l’individuo in un automa "senza pensieri".



Una  dizione popolare

Se la richiesta di aiuto, sia pure indirizzata semplicemente verso uno psicofarmaco, può essere interpretata come una ricerca di maggior benessere vitale, come un movimento verso un progetto trasformativo della qualità di vita, essa si colloca a una più attenta disamina proprio sul versante opposto, quello conservativo.

Una delle espressioni che più frequentemente vengono poste dal paziente "stressato" è la richiesta di un rimedio atto a riportarlo allo stato precedente. Domanda che sollecita l’idea del ricostituire un passato benessere e a volte induce il medico alla prescrizione di quei farmaci "ricostituenti", che sono stati l’asse portante della terapia del cosiddetto "esaurimento nervoso". Aderire letteralmente a questo tipo di richiesta significa aderire a un progetto conservativo confermando o veicolando l’idea di uno stato di mancanza da ricostituire.

L’inadeguato impiego del termine stress, trasformato nella "metafora dello stress" ha in un certo senso sostituito la popolare dizione di "esaurimento nervoso" con il vantaggio di avergli assegnato una veste linguistica internazionale che per di più la esenta da un diretto riferimento al sistema nervoso.

Nella loro oppositività "esaurimento nervoso" e "stress" sembrano convergere verso alcuni punti comuni. L’ultima delle tre fasi di risposta allo stress (dopo la reazione di allarme in cui l’organismo si attiva per affrontare nelle migliori condizioni possibili lo stimolo, e la fase di resistenza atta a contrastare la situazione stressante) si esaurisce proprio nella cosiddetta fase di esaurimento caratterizzata da un abbassamento delle difese immunitarie generali che rende l’individuo più vulnerabile alle malattie.

Lo sforzo prolungato e intenso dell’adattamento allo stress porta anche a un progressivo indebolimento e all’esaurimento delle facoltà psicofisiche. Oltre a manifestazioni quali ansia, stanchezza, irritabilità, aggressività e ripercussioni a livello somatico, le cause di stress che si accumulano quotidianamente, si manifestano pure nella tendenza a chiudersi in sé stessi come se l’energia vitale fosse esaurita.

La dicotomia "esaurimento nervoso-stress" si organizza su di una traiettoria che dal troppo pieno porta al troppo vuoto congiungendosi nella sensazione dell’impossibilità, dell’incapacità e dell’impotenza. Troppi stimoli o troppo pochi stimoli rimandano a un tentativo di difesa dai contenuti inquietanti della psiche che devono rimanere occultati sia a livello sociale sia a quello individuale.

Negare l’umano limite

A lungo andare la "metafora dello stress" tende a trasformarsi in una vera e propria modalità esistenziale che si allea con quella parte di sé che cerca di evitare la comprensione profonda del proprio malessere. Sotto il grande ombrello del termine stress è possibile reperire un’incapacità a esperire la vita, la tentazione di un vivere senza aver mai vissuto, o forse una difesa contro l’inquietante dell’inconscio che bussa prepotentemente. Ma la "metafora dello stress" è ben accettata sia dalla gente comune sia da molti specialisti perché lima l’angoscia di morte che viene negata o banalizzata secondo lo stile della ben nota pubblicità che invitava a «bere una pillola-Cynar contro il logorio-stress della vita moderna».

Non fermandosi mai, "correndo dietro al tempo" si cerca attraverso il costo di una vita sempre più stressata di negare l’umana finitezza. È uno stile di vita spesso sostenuto e alimentato dall’assunzione di una quantità sempre maggiore di pillole, fomentato da una sottostante fantasia di immortalità, che sostiene l’illusione di poter fermare almeno temporaneamente il tempo che passa.

Viene da chiedersi se l’uomo stressato, pur lamentandosene, non impieghi la "metafora dello stress" anche per alimentare il sogno che la sua iperattività frenetica possa fare da scudo al sottostante terrore della quiete confusa con la stasi e la morte.

La modalità delle richieste come quelle espresse da Matteo e da Carlo che enfatizzano l’impellente necessità che vengano eliminati stress e pensieri allertano invece l’ascolto dello psicoanalista, alimentano la sua riflessione e avviano le sue capacità di pensiero contro l’attacco al pensiero offrendo al paziente una collaborazione che sia pure attraverso un mediatore farmacologico aiuti il paziente a riacquisire la sua capacità di "pensare i suoi pensieri".

Stress, più pillole meno pensieri è un’equazione che annulla la persona ed esautora la mente. Nulla di meglio delle parole espresse da André Green possono riassumere il pericolo della eccessiva semplificazione: «Quando vedete passare un’idea semplice, tirate fuori la pistola e uccidetela, altrimenti se procedete con le idee semplici, saranno loro a uccidervi. Mai semplificazioni. Sempre complessità, sempre questioni».




BIBLIOGRAFIA

· Argentieri S., Anime sotto stress, in "Il Grillo", Roma 1998.

· Bion W.R., 1992, Pensieri, Armando, Roma 1996.

· Costa A., Stress? Sì, grazie!, in "Neurologia.net." 2003.

· Farné M., Lo stress, Il Mulino, Bologna 1999.

· Freud S., 1925, Inibizione, sintomo ed angoscia, in "Opere" vol. 10, Boringhieri, Torino 1976.

· Green A., Seminari romani, Borla, Roma 1995.

· Nielsen N.P., Pillole o parole? Relazione verbale e rapporto psicofarmacologico, Raffaello Cortina, Milano 1998.

· Selye H., A Syndrome Produced by Diverse Nocuous Agents, in "Nature", n. 138, pp. 32-33, 1936.




Niels Peter Nielsen 

Medico, specialista in psichiatra e in psicologia clinica, psicoanalista dell'IPA e della Società Psicoanalitica Italiana. Ha operato nelle istituzioni come responsabile di strutture consultoriali e primario psichiatra. 
Docente della Scuola Italiana di Psicoanalisi di Gruppo (IIPG), è stato anche autore di numerosi saggi e di alcuni volumi tra cui ricordiamo I colori dell'odioL'universo mentale nazista , L'atto di passaggio (1992), A favore di una certa anormalità (1993), Pillole o parole. Relazione verbale e rapporto psicofarmacologico (1998).
E'scomparso nel 2010.

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