STATI DELLA MENTE in occasione dell’ottavo anniversario
della scomparsa di Marco Margnelli ripropone tre interviste curate da Mario
Lorenzetti e pubblicate sui numeri 3 (dicembre 1996), 4 (aprile 1999) e 7
(giugno 2000) del Bollettino d'informazione Società Italiana Stati di
Coscienza.
L.: Quando è nato il tuo interesse per gli stati di
coscienza?
M: Per quanto curioso possa sembrare, ho un ricordo molto
preciso sulla nascita di questo interesse. Un giorno stavo facendo delle
fotocopie di alcuni testi sull’estasi, scritti da teologi e, mentre li leggevo
qua e là, mi colpì il fatto che non veniva mai fatto cenno all’aspetto
scientifico del fenomeno. Tutt’alpiù veniva affrontato il problema delle
allucinazioni o della possibilità che gli estatici fossero degli schizofrenici,
una trattazione abituale in questi scritti che mi ha spesso irritato, sia
perché non è possibile restare fermi su un concetto per due secoli, quando il
sapere scientifico è contemporaneamente evoluto in modo vertiginoso, sia perché
tutti i teologi hanno sotto gli occhi un grande numero di biografie esemplari
di mistici-estatici che si sono dimostrati tutto tranne che schizofrenici.
Ma quel giorno, mentre facevo le fotocopie, decisi che ne
avevo abbastanza, che l’estasi era uno stato di coscienza e che sarebbe valsa
la pena di dimostrarlo sperimentalmente. Allora avevo circa 35 anni e lavoravo
come ricercatore in un istituto (Istituto di Fisiologia dei Centri Nervosi) del
Consiglio Nazionale delle Ricerche e perciò avevo dimestichezza con il modo di
pensare degli scienziati e con i metodi della ricerca scientifica. Mi
scandalizzava che i teologi disquisissero di allucinazioni e di schizofrenia
orecchiando le interpretazioni degli psichiatri e rimaneggiando luoghi comuni
scientifici di autori che di mistica non ne sapevano nulla. Mi irritava il
fatto che i teologi non utilizzassero i fatti concreti, e cioè la testistica
psicodiagnostica (non si può, oggi, sostenere un sospetto di malattia mentale
se non si sono fatti gli opportuni test) oppure il criterio epicritico sulle
vite dei presunti allucinati/schizofrenici, e cioè il fatto che molti estatici
erano/sono stati grandi imprenditori, acuti scrittori o politici formidabili,
ciò che molto raramente accade agli ospiti dei manicomi.
Ma soprattutto mi irritava l’atteggiamento degli esperti dai
quali i teologi orecchiavano le loro trattazioni, degli psichiatri o degli
psicoanalisti che pontificavano paragoni e confronti tra deliri patologici ed
esperienze estatiche, tra menti sane e menti malate senza mai avere visto un
estatico da vicino o aver studiato una vera estasi. Di queste idiozie sono
strapieni tutti i trattati di psichiatria e ho cercato invano, per anni,
qualcuno che non si accodasse passivamente a questi luoghi comuni e avesse
deciso di affrontare l’argomento in modo scientifico e non ideologico.
Insomma, il mio interesse per gli stati di coscienza è nato
dalla rabbia, da una fotocopiatrice e dal fatto che ero un fisiologo e non uno
psichiatra.
L : Galeotta fu la fotocopiatrice....ma se stavi
fotocopiando materiali sull’estasi vuoi dire che te ne stavi già occupando.
M.: Hai ragione. Qualche anno prima, ero stato in
India. C’ero andato per il Congresso Mondiale di Scienze Fisiologiche e cioè
per motivi professionali, ma in realtà volevo anche incontrare qualche yogi di
grande livello che mi mostrasse i prodigi fisiologici che, si diceva, sono
capaci di realizzare queste persone: controllo dei battiti cardiaci,
aspirazione attraverso l’ano di un catino d’acqua, aumento rapido e spettacolare
della temperatura del corpo, capacità di ridurre il metabolismo come gli
animali in ibernazione, controllo del dolore, e così via.
Dopo il Congresso, girai per un po’ a caso finché mi
imbattei nel personaggio che cercavo. Era un giovane sui trent’anni, allegro e
gentile, che mi fece vedere parte dei prodigi e che mi spiegò che non si
trattava di miracoli ma solo del frutto di una ferrea disciplina di
autocontrollo, il risultato di esercizi che vanno praticati con costanza per
anni. Mi disse che con lo yoga si può arrivare a controllare tutto, corpo e
mente ma che i veri prodigi si hanno quando si acquista il controllo del
cervello. Era curioso di sapere perché fossi andato in India e quando gli
confessai il mio vero scopo mi canzonò con grande divertimento, incapace di
credere che avessi speso tanti soldi per cercare cose che avrei benissimo
potuto cercare (e trovare) nel mio Paese. Gli spiegai che in Italia i monaci
non usano praticare esercizi di autocontrollo, che la religione cristiana
insegna a ignorare il corpo e prescrive obiettivi spirituali molto diversi da
quelli dell’induismo. Mi rispose che non avevo cercato bene, che la disciplina
e l’autocontrollo sono solo dei mezzi per arrivare ad altro e che l’argomento
più importante da studiare era l’estasi, la vera chiave dei cambiamenti, la
porta sul mistero e sull’altrove assoluto. Fu molto convincente, tanto che,
tornato in Italia, cominciai a studiare l’estasi.
Cominciai a leggere storie di santi, biografie di estatici,
trattati di teologia mistica, testimonianze, processi di canonizzazione e,
ahimè, anche i manuali di psichiatria, i saggi degli psicologi della religione
e i pochi lavori di ricerca pubblicati negli ultimi cent’anni. L’estasi
emergeva potente, concreta, importante, ma tutti ne raccontavano solo dei
pezzetti, frammenti sparsi che assomigliavano ad altro e non spiegavano nulla.
L’estasi non aveva un’identità ben definita e proprio per questo tutti si
sentivano autorizzati a paragonarla alle cose più assurde. Ai deliri
schizofrenici, all’aura epilettica, all’orgasmo, alle crisi isteriche, alla
trance ipnotica, al sogno, all’effetto di droghe, e così via - In realtà, tutti
utilizzavano il paradigma psichiatrico e il modello di riferimento era la
patologia. In estasi, palesemente, succedono cose diverse da quelle che
caratterizzano lo stato di veglia e perciò non può essere altro che devianza,
anomalia se non vera e propria malattia.
L.: Lavoravi per il CNR: vuoi dire che nel tuo Istituto si
studiava l’estasi?
M.: Assolutamente No. Il mio era un hobby. Di giorno ero un
fisiologo ortodosso, mi occupavo di vie di senso, della sostanza reticolare del
tronco dell’encefalo, di talamo, di elettroencefalografia. Di notte studiavo la
fisiologia del misticismo. All’inizio della carriera mi ero anche occupato di
fisiologia del sonno, cioè di stati di coscienza e ho imparato cose che mi
servono (moltissimo) ancora adesso. Anzi, la fisiologia del sonno era forse
all’origine della mia convinzione che l’estasi non fosse patologia, ma solo un
modo differente di funzionamento del cervello. Il sonno, infatti, è proprio
questo, uno stato nel quale alcune parti del sistema nervoso centrale, diverse
da quelle che strutturano lo stato di veglia, assumono il comando e le altre si
subordinano ad esse, secondo una gerarchia e un’armonia del tutto peculiari.
L.: Ma i tuoi colleghi cosa ne pensavano?
M.: Mi guardavano strano. Per loro ero uno scienziato
bambino. Un credulone che si faceva ancora affascinare dalle favole. Era un
giudizio che mi pesava molto. Ancora adesso, quando vedo in televisione Carlo
Rubbia o la Levi Montalcini mi chiedo se loro sono stati mai bambini.
Non so come abbia fatto Rubbia a dirigere il CERN di
Ginevra, una struttura scientifica mostruosa e contemporaneamente sognare
particelle subatomiche.
Della Levi Montalcini mi piace la fede in un’idea che ebbe
fino dai primi passi. Appena laureata, lavorava a Torino con un embriologo di
valore, un altro Levi. Con l’entrata in vigore delle leggi razziali furono
cacciati dalla Università e la Montalcini continuò a lavorare a casa sua.
Coltivava embrioni di pollo sul comò della camera da letto, studiando
l’organogenesi del sistema nervoso centrale, alla caccia dei fattori di
crescita che riuscì a isolare anni dopo. Incarna il mio ideale di scienziato
romantico, per il quale conta più l’idea che l’opinione degli altri o la
cattiveria umana. Però quando pensi controcorrente devi avere uno stomaco di
ferro e un fegato d’acciaio.
L.: Torniamo alle fotocopie. Poco fa, hai detto che alcuni
confondevano l’estasi con uno stato simile a quelli che si hanno con le droghe.
Vuoi dirmi quanto gli stati di coscienza “chimici” hanno influenzato il tuo
concetto di estasi?
M. : All’inizio, ovviamente, mi sembrava un
accostamento ridicolo. Se c’è una categoria di persone che non usa neppure il
caffè, è la categoria dei mistici cattolici. Ma poi, con la scoperta delle
endorfine, ho dovuto arrendermi all’ipotesi che gli stati modificati di
coscienza possano derivare anche da sostanze autoprodotte nel cervello. Oggi si
sa che tutte le sostanze psicoattive debbono i loro effetti alla somiglianza
chimica che hanno con mediatori sinaptici del tutto fisiologici.
È una certezza raggiunta proprio studiando i meccanismi
d’azione delle droghe, ma non si è potuto andare più in là perché il governo
degli Stati Uniti ha vietato su scala mondiale questo tipo di studi già da un paio
di decenni. Del resto io non ho una cultura neurochimica sufficiente per
valutare a fondo l’argomento, anche se un’idea ce l’avrei.
Anni fa ho pensato di iniettare del naloxone durante
un’estasi. Non l’ho ancora potuto fare, ma certamente se me ne si presentasse
l’occasione lo farei. In alternativa avevo pensato di iniettarlo durante una
trance ipnotica nella quale fosse stata indotta un’analgesia suggestiva:
qualcuno mi ha preceduto e pare che questo antagonista degli oppiacei (e quindi
anche degli oppiacei endogeni) interrompa sia l’analgesia che lo stato di
trance, dimostrando che sia nell’una che nell’altra il ruolo delle endorfine
potrebbe essere cruciale. In ogni caso, nei rapporti tra estasi mistica e
droghe endogene, ho buone ragioni scientifiche per pretendere prove
sperimentali concrete, altrimenti si finisce per ricadere nelle somiglianze,
nei paragoni e nei modelli parapatologici.
Se non altro, finora nessuno ha avanzato l’ipotesi che le
allucinazioni oniriche siano dovute a sostanze chimiche particolari e
l’opinione corrente è che siano dovute al particolare modo nel quale sono
sollecitate le vie visive durante lo stato REM.
I mediatori chimici restano gli stessi ma cambia il regista.
L.: Poco fa hai spesso alluso a paradigmi, a modelli, a
schemi interpretativi. Puoi essere più preciso?
M. : Il paradigma è l’idea fondamentale attorno cui
ruota tutto il pensiero riguardo a un certo argomento.
Nel caso degli stati modificati di coscienza, il paradigma
potrebbe essere il “Cogito ergo sum” di Cartesio: tutti gli stati nei quali si
“cogita” in modo diverso dal “normale” sono “anormali”. Posto che nel caso
della coscienza non è ancora stata descritta e definita la normalità, questo
paradigma si presta a radicalizzazioni esagerate, nel senso che per alcuni
basta molto poco per emettere giudizio di devianza, per altri occorrono sintomi
più complessi.
Così, per alcuni, la trance è patologia, per altri
para-fisiologia. Per gli uni gli sciamani sono isterici o nevrotici socialmente
accettati, per gli altri sono professionisti di un modo parallelo di pensare, e
così via.
Oggi si è presa coscienza del fatto che manca una
descrizione parametrica della coscienza “normale” e che occorrerebbe farlo in
fretta. Anche il “modello” è l’idea di fondo con la quale si interpreta una
determinata fenomenologia, però in una scala dimensionale minore rispetto al
paradigma.
Conoscendo i vari ingredienti di una miscela si fa una
ipotesi dei loro reciproci rapporti nel dar vita al fenomeno che si vuole
spiegare. Nel caso degli stati modificati di coscienza, per esempio, è un
“modello” l’ipotesi sistemica di Charles Tart. Per questo autore, infatti, i
vari stati di coscienza risultano dai rapporti funzionali che in ciascuno di
essi si stabiliscono tra un certo numero di ingredienti fondamentali:
l’esterocezione, l’enterocezione, la memoria, l’inconscio, il senso di
identità, il senso di spazio/tempo, la capacità di valutazione/decisione,
l’output motorio, viscerale e ghiandolare.
Così, per esempio, l’attività esterocettiva e cioè il
collegamento della vista, dell’udito, del tatto e degli altri sensi con
l’ambiente può essere più o meno intensa da uno stato di coscienza all’altro. È
intensa nella veglia, è quasi nulla nella trance. Gli stati vengono raggiunti
con vari metodi, naturali e artificiali, volontari o involontari e rivelano una
potenzialità di cambiamento prevedibile e parametrizzabile. Tart addirittura ha
proposto delle rappresentazioni grafiche, su assi cartesiani (ancora
Cartesio!), dei vari stati di coscienza.
Un altro modello è quello di Roland Fischer, la “cartografia
degli stati interni” più nota e, oggi, in buona parte superata. Io mi sono
servito abbondantemente di questo modello e se lo ritengo superato è solo
perché mi ha permesso di immergermi nell’argomento e di raggiungere
un’autonomia di pensiero che non avrei saputo sviluppare senza partire dalle
ipotesi non dimostrate che conteneva.
L. : In quale misura la tua esperienza personale (se ne
hai fatta) degli ASC[1] ti ha aiutato scientificamente?
M. : Come tanti, ho fatto varie esperienze chimiche. In
India, in Messico, in Marocco. Ho una discreta dimestichezza con l’alcol e
poiché durante molte di queste esperienze ho fatto musica (ero un suonatore di
tromba) mi aveva molto incuriosito il rapporto tra creatività e stati
modificati chimici. In questo la “mappa di Fischer” è rigorosamente esatta. A
un certo punto la velocità dell’ideazione è talmente alta che l’unica
possibilità espressiva è quella musicale. Ogni altro metodo espressivo (per
esempio la scrittura) è troppo lento rispetto ai cambiamenti di pensiero, non
sono mai stato in estasi, anche se l’ho studiata molto da vicino e con grande
passione.
Ho fatto una lunga esperienza con lo stato ipnagogico e cioè
a rimanere per lungo tempo nello stato di coscienza dell’addor-mentamento.
Questa è un’esperienza entusiasmante, molto piacevole e discretamente
misteriosa. È uno stato allucinatorio naturale nel quale, si dice, coesistono
la coscienza della veglia e quella del sogno e perciò è facile “vedere” “udire”
e “sentire” senza che, in realtà, accada nulla.
Quando ho cominciato a studiare l’ipnosi, mi sono fatto
ipnotizzare e ho sperimentato la trance. Questa è stata un’esperienza molto
importante: la condizione della trance merita assolutamente la massima
attenzione scientifica. La trance è la “mamma” di molti ASC naturali e dovrebbe
essere obbligatorio che chiunque parli di trance o di ASC si sia fatto
ipnotizzare. Assai spesso sento degli “esperti” dissertare di ipnosi senza
sapere, letteralmente, di cosa stanno parlando.
L. : Torniamo ai “modelli” degli stati di coscienza di
cui parlavi l’altra volta.
M. : La parola modello è, ovviamente, di derivazione
anglosassone e perciò la sua traduzione letterale dall’inglese non può
contenere tutte le sfumature che ha nella lingua originale. In campo
scientifico un modello è come un puzzle risolto: È la figura finale che emerge
dall’accostamento l’una all’altra delle singole tessere e cioè un costrutto
teorico che dà un senso a dei frammenti che di per sé vogliono dire poco o
nulla.
Il metodo scientifico, dovendo dare la spiegazione di un
fenomeno, dapprima lo frammenta e lo studia in piccoli pozzetti, in
sottofenomeni, poi, quando crede di aver capito come funzionano i
sottofenomeni, lo ricostruisce secondo uno schema che spieghi i rapporti
dinamico/gerarchici che legano tra loro i singoli frammenti nel realizzare il
fenomeno di partenza.
Io credo di essermi imbattuto per la prima volta con un
modello scientifico al liceo, quando dovetti studiare “il modello dell’atomo” e
mi fu presentato il “modello solare”, quello che descrive un atomo come un
mini-sistema solare. Per arrivare a questa ricostruzione, i fisici hanno dovuto
studiare i nuclei, gli elettroni. i positroni, i neutroni, e così via, nonché
le forze che li tenevano uniti, in equilibrio tra loro. Alla fine uno di loro
(non ricordo chi) ricostruì il tutto secondo il “modello solare”.
Nel caso degli stati di coscienza un modello del genere è
quello di Charles Tart, che viene detto “modello sistemico”. Come ti dicevo
l’altra volta, per Tart la coscienza può essere pensata come il “fenomeno”
finale dell’interazione ordinata e razionale (secondo una razionalità tutta da
capire, naturalmente) di una serie di “sottofenomeni” dotati di un buon grado
di identità e di autonomia funzionali (per esempio, la memoria non è la
percezione visiva e può funzionare anche senza l’ausilio della vista). Usando
le parole di Tart “uno stato di coscienza è un sistema funzionale di
sottosistemi”.
I “sottosistemi” sono ingredienti fissi del “sistema” e cioè
sono sempre gli stessi in ogni stato di coscienza, ma in ognuno dei vari stati
mutano i rapporti dinamici che li legano tra loro e muta l’importanza che un
singolo sottosistema ha rispetto agli altri.
Sempre come ti dicevo l’altra volta, per Tart, i
sottosistemi più importanti sono una decina: l’esterocezione (e cioè la
sensorialità proveniente dall’esterno, come vista, udito, olfatto eccetera),
l’enterocezione (e cioè la sensorialità proveniente dall’interno, dai visceri,
dai muscoli, dai tendini, dalle ossa e così via), la memoria (e cioè l’archivio
delle informazioni sia elementari, tipo, che so, il concetto di liscio o ruvido
incontrato per la prima volta nella vita, che delle informazioni complesse e
cioè già interpretate in senso esperienziale, tipo, che so, il significato di
una tigre), l’inconscio (Tart dice: “proprio quello freudiano”, alludendo
all’azione all’interno del “sistema” di elementi non direttamente percepiti, e
perciò “inconsci”, che hanno a che fare con l’emozionalità, la motivazione, gli
istinti e così via).
Il senso di identità (un sottosistema estremamente
importante perché è quello che da un senso a tutta l’esperienza biografica, ma
che è anche una funzione neuropsicologica che permette, per esempio, di
dividere il mondo in due parti: esterna e interna; un sottosistema che rivela
un punto d’incrocio sottilissimo tra strutture neurofisiologiche e loro
simbolizzazione semantica. Insomma un sottosistema che meriterebbe una
trattazione a parte), il senso di spazio/tempo, la capacità di
valutazione/decisione (due sottosistemi che non richiedono spiegazioni
particolari), l’output motorio/visce-rale (il sottosistema che rivela la
Futilità biologica di uno stato di coscienza). Questi ingredienti, nei vari
stati di coscienza, hanno un peso variabile e, di conseguenza un’influenza
variabile sul risultato finale, sulla configurazione dell’intero sistema.
Come ho accennato la volta scorsa, Tart dice che misurando
quantitativamente il grado di attivazione di ogni sottosistema, ogni stato di
coscienza potrebbe essere rappresentato su assi cartesiani. Per esempio, nel
sogno, l’attività esterocettiva è praticamente nulla e perciò le si darebbe,
sull’asse delle x, un valore prossimo allo zero, mentre in stato di veglia può
raggiungere il 100 per cento di attività.
Negli stessi due stati di coscienza, l’attività
allucinatoria è al 100 per cento nel sogno, prossima allo zero in veglia. E
così via si potrebbero costruire delle “mappe”, delle rappresentazioni grafiche
di ogni stato di coscienza e delle sue varianti. È naturalmente una proposta
molto affascinante, che fa intravedere una specie di “trigonometria” della
coscienza, che tuttavia, per quanto ne so io, non ha promosso un grande
entusiasmo e un nuovo filone di ricerche.
L’unico ricercatore che in qualche modo ha cercato di dare
corpo alla proposta teorica di Tart è Ronald Pekala, che ha scritto diversi
articoli e un libro sul modo di “misurare” la coscienza. È comunque un Autore
che conosco poco e che non ha, per ora, prodotto un proprio “modello”.
L. : E tu, te ne sei servito nelle tue ricerche?
M. : Non molto. Per varie ragioni, ma soprattutto
perché io sono un neurofisiologo e uno psicofisiologo e Tart è invece uno
psicologo, il che significa che lavoriamo a due livelli differenti, usando
linguaggi e metodi sperimentali altrettanto differenti. Per sviluppare il
modello di Tart bisognerebbe fare esperimenti di neuropsicologia e io non ne
sono capace.
Un’altra possibilità metodologica sarebbe quella dei
questionari, una tecnica di studio a me altrettanto sconosciuta. Per esempio,
per “misurare” la memoria nel sogno, non vedo altra possibilità che l’uso di
questionari. In pratica, io mi occupo dell’hardware e Tart del software.
L. : Quindi sei stato maggiormente guidato dal modello di
Fischer?
M. : Esatto. Roland Fischer posso proprio considerarlo
un mio “maestro”.
L’articolo fondamentale di Fischer mi fu segnalato da un
amico americano nel 1972 o 73 che conosceva i miei interessi. Fu una
folgorazione.
È un modello che collega tra loro informazioni
neurofisiologiche, farmacologiche, patologiche e neuropsicologiche e perciò più
completo di quello di Tart.
Fischer paragona il cervello a un computer: i sensi (o
meglio i recettori sensoriali e cioè gli occhi, le orecchie, i corpuscoli di
Pacini, le papille gustative e così via) sono come la tastiera che serve per
immettere le informazioni nel sistema; la corteccia cerebrale è il
microprocessore che elabora i dati; il corpo o le azioni che compie ad
elaborazione avvenuta, sono i display periferici (il video, la stampante o
qualunque ordigno comandato dal computer).
In stato di veglia rilassata, il processore lavora a bassa
velocità: c’è un ottimo equilibrio tra il volume di informazioni sensoriali che
vengono immesse nel sistema e la possibilità che ha il processore di
elaborarle.
Ogni modificazione di questo equilibrio causa una
modificazione dello stato di coscienza. Ovvero per cambiare lo stato di
coscienza si può aumentare volontariamente il volume delle informazioni
sensoriali (come, per esempio, mettendosi a ballare guidati da una musica
violenta) oppure la velocità di elaborazione del processore (come avviene
quando aumenta, per esempio, la pressione emozionale a riguardo di un
determinato problema).
Analogamente, si possono indurre cambiamenti dello stato di
coscienza riducendo il volume delle informazioni immesse nel sistema o
abbassando progressivamente la velocità del processore (come si fa utilizzando
le tecniche di meditazione orientale). Ne deriva che le modificazioni dello
stato di coscienza possono essere autoindotte volontariamente, così come
possono verificarsi senza che noi l’abbiamo deciso.
Le modificazioni dello stato di coscienza che possono
derivare dall’aumento dell’input sensoriale e/o della velocità di elaborazione
delle informazioni o dalle condizioni specularmente opposte, sono direttamente
proporzionali all’intensità di questi elementi e alla durata alla quale il
cervello vi è esposto (come dire che una danza al ritmo di potenti tamburi
induce una trance solo dopo un ragionevole lasso di tempo e che la trance
diventa sempre più profonda quanto più dura la danza).
Ne deriva una sequenza progressiva di “momenti” che possono
essere individuati come stati di coscienza più o meno autonomi, che sono legati
tra loro in modo che non si può entrare nello stato successivo se non si è
transitati nello stato precedente. È la cosiddetta regola del "continuum"
degli stati di coscienza, una regola preziosa perché permette di disegnare una
"mappa dello spazio interno" e perciò permette ad un ricercatore di
sapere cosa deve aspettarsi in un dato momento e ad un entronauta dove si trova
mentre naviga
In realtà le mappe sono due: quella del continuum
eccitatorio (che Fischer chiama di "attivazione ergotrofica" o,
anche, continuum "percezione/allucinazione") e quella del continuum
sedativo/inibi-torio (chiamata del "continuum di attivazione
trofotrofica" o, anche, continuum "percezione/meditazione").
Muovendo dallo stato di veglia rilassata, nel quale, come si
diceva, l'input sensoriale è in equilibrio con la velocità del processore, si
può entrare in uno stato che viene detto "della routine giornaliera"
e che, palesemente, corrisponde allo stato in cui ci si trova al mattino quando
si inizia a lavorare.
Aumentando l'input sensoriale e/o la velocità di
elaborazione dei dati, si entra in uno stato di "sensibilità", che
potrebbe essere descritto come uno stato nel quale si presta molta attenzione
alle informazioni ma si ha poco tempo per elaborarle/interpretarle.
Se l'attivazione procede, si transita in uno stato di
"creatività" e cioè in una condizione nella quale la quantità di
informazioni e la velocità di elaborazione sono tali da impedire un corretto
confronto con "il modello interiore della realtà" e quindi le
interpretazioni sono "creative", ovvero sempre più immaginarie che
reali.
La pressione sensoriale, infatti, comincia a diventare
fastidiosa e ad indurre una chiusura difensiva e cioè ad una interiorizzazione
della coscienza, nel tentativo di rallentare l'attività di elaborazione.
Se ciò non è possibile e la pressione continua a salire, si
entra in uno stato di "ansia" e poi in uno stato che Fischer ha infelicemente
definito "di schizofrenia acuta", nel quale il
"computer/cervello" entra in confusione e non riesce a ricevere e
analizzare correttamente l'input sensoriale. Allora si entra in
"catatonia" e il processore si blocca. A questo punto l'operazione di
difesa, e cioè la chiusura.
L. : Se non sbaglio tu hai raccontato questa vicenda
culturale in un articolo su Altrove.
M. : Esatto. Anche io, per vari anni, non ho capito
questo punto della mappa di Fischer, anche se vi ho dato poca importanza perché
l'attendibilità fisiologica e psicofisiologica della cartografia di Fischer che
ho personalmente sottoposto a verifica sperimentale, è impeccabile.
Neanche quando ho scritto l'articolo per Altrove ho capito
che se invece di scrivere "stato iperfrenico" si fosse scritto
"stato di dissociazione janettiana" la mappa avrebbe riacquistato
tutta la forza che aveva nel 1971, prima che le critiche la indebolissero.
L. : Hai detto che la mappa di Fischer è più completa
perché riunisce e collega tra loro dati che provengono dalla neurofisiologia,
dalla psicofisiologia, dalla farmacologia e dalla psichiatria. Puoi spiegarlo
meglio?
M. : Prima di tutto i sistemi "ergotrofico" e
"trofotrofico" corrispondono alle strutture nervose centrali dalle
quali originano i sistemi simpatico e parasimpatico. Queste strutture, oltre
che essere l'origine delle vie effettrici verso la periferia, funzionano anche
come centraline di comando che regolano nel corpo l'attività degli organi
innervati e regolati dal sistema simpatico.
Ne deriva che se si parla di "attivazione
ergotrofica" in periferia si devono vedere i segni di un'attivazione
ortosimpatica (tipo tachicardia, aumento del tono muscolare, aumento della
frequenza respiratoria, e così via). Quindi la descrizione neurovegetativa del continuum
di attivazione è precisa e può essere verificata sperimentalmente così come si
deve poter fare per il continuum di rilassamento/disattivazione.
Tale verifica io l'ho fatta, per esempio, sull'estasi
mistica. Fischer l'ha fatta per gli stati precedenti (non so fino a quale è
arrivato) e, anzi, si potrebbe dire che ha costruito la mappa proprio in questo
modo. Altri ricercatori, studiando la psicofisiologia degli stati di
meditazione e il samadhi, hanno verificato l'esattezza del continuum meditazione/disattivazione.
È anche vero che le modificazioni sono proporzionali al
grado di attivazione, come se fossero dose-dipendenti. Così, per esempio,
l'attività elettroencefalografica diventa sempre più desincronizzata e
variabile tanto più ci si inoltra nel continuum eccitatorio (questi dati
provengono da ricerche cliniche di altri autori, e poiché sono coerenti col
modello, da una parte sono stati utili a Fischer per costruirlo, dall'altra
conferiscono razionalità a una serie di dati frammentari che, presi singolarmente,
avevano un significato parziale).
Infine Fischer ha costruito direttamente, con esperimenti
suoi, il continuum eccitatorio, usando la psilocibina e studiandone i suoi
effetti sulla soglia per il gusto e la grafia.
La psilocibina, dunque, era la sostanza eccitatoria mediante
la quale indurre chimicamente un aumento della velocità del processore e la
valutazione della soglia per il gusto era l'indicatore psicofisiologico per
dimostrare la progressiva modificazione della capacità di elaborare i dati
sensoriali.
Fischer faceva bere ai soggetti sperimentali delle soluzioni
in concentrazione crescente di zucchero e quindi dolci, oppure una serie
crescente di soluzioni di chinino e quindi amare. In ogni stadio del viaggio
sul continuum valutava a quale concentrazione i soggetti cominciavano ad
avvertire il sapore dolce o amaro, dimostrando che mano a mano che aumenta
l'attivazione occorre una soluzione più concentrata perché i soggetti ne
possano identificare il sapore.
Lo studio della grafia dimostrava un cambiamento del
rapporto tra sensazioni e risposta motoria, nel senso che la grafia tende a
rimpicciolirsi sempre in modo direttamente proporzionale al grado di
attivazione. Non credo che sia il caso di addentrarsi minuziosamente nei
dettagli del modello, anche perché ho ricordi imprecisi sui test sperimentali
che Fischer ha usato.
Quel che conta è che era un modello ampio, accurato,
verificabile e ricco di basi neurofisiologiche e psicofisiologiche che mi ha
guidato per anni.
L. : E adesso?
M. : Adesso l'ho consumato. Per dire la verità, dopo
averlo scritto e riscritto a livello divulgativo in una lunga serie di
articoli, attualmente il doverlo esporre un'ulteriore volta mi dà un po' di
disgusto. L'ho superato perché ne ho scoperto i punti deboli e le carenze e
perciò penso che oggi andrebbe corretto in più punti e completato in altri.
Comunque, grazie ad esso, io mi sono avviato in un percorso di ricerca
originale nel quale non ho più bisogno di mappe.
In pratica, ho scoperto che l'indicatore psicofisiologico
più importate per studiare gli stati modificati di coscienza è la risposta di
orientamento, un indicatore che Fischer non ha nemmeno preso in considerazione
e perciò ho smesso di studiare Fischer e mi sono dedicato alla risposta di
orientamento.
L. : Hai voglia di spiegare di cosa si tratta?
M. : Non oggi, perché il discorso è molto ampio e
specialistico. Lo farò volentieri in un'altra occasione. Per oggi ti basti
sapere che in estasi la risposta di orientamento scompare, confermando che il
cervello è completamente isolato dalla realtà esterna, una circostanza che il
modello ipotizzava ma che Fischer non poteva dimostrare.
L. : Il modello di Fischer ha influenzato gli altri
studiosi degli stati di coscienza?
M. : Si, e direi anche molto.
Oltre a Ronald Pekala ne è stata influenzata per esempio
Erika Bourguignon, un'antropologa/sociologa molto quotata, che ne parla
lungamente in un libro sugli stati modificati di coscienza in ambito religioso.
Devo dire che questa autrice, pur non avendo una cultura neurobiologica e
psicologica specialistica, l'ha capita molto bene così come ha capito che può
essere usata per interpretare gli stati modificati di coscienza che gli
antropologi incontrano studiando i popoli, le loro pratiche religiose e la loro
cultura.
In Italia, considerando lo scarso interesse degli ambienti
accademici per gli stati modificati di coscienza, se ne è interessato Riccardo
Venturini, dell'Università di Roma, che fece fare una tesi di laurea
sull'argomento e fece poi pubblicare il lavoro in un librettino che conteneva
l'unica traduzione italiana della cartografia di Fischer nella quale mi sia
imbattuto. Se ne è interessato Pietro Fumarola, dell'Università di Lecce che,
come la Bourguignon, ha intuito che può essere un buon strumento di lavoro per
gli antropologi. Se ne è interessato Emilio Tiberi, dell'Universita di Verona,
che studia i fenomeni NDE, ovvero gli stati di coscienza in prossimità della
morte.
L. : Hai dimenticato Lapassade?
M. : No, non l'ho dimenticato. In realtà George non ha,
nei confronti degli stati modificati di coscienza, un approccio neurobiologico.
Ce l'ha piuttosto etnologico/antropologico/psicologico e
perciò è più vicino a Tart che a Fischer. Di fatto, lo stato che più lo
interessa è la transe (non trance, all'inglese, ma "transe", alla
latina, da "transire", passare oltre) e a questo proposito ha
lavorato in una direzione molto fertile. È lui che mi ha invitato ad
approfondire più che potevo il concetto di dissociazione di Janet,
dimostrandomi in più occasioni quanto fosse importante e in che modo
permettesse di interpretare la fenomenologia antropologica della trance.
Proprio grazie a questo inquadramento si può superare la
mappa di Fischer, completandone i grossi spazi vuoti (la trance si colloca alla
fine dei due continua, potendo essere sia un'estasi che un samadhi.
La trance comincia nello "stato schizofrenico
acuto" oppure all'apice della dissociazione depressiva che
caratterizzerebbe il versante meditazione/disattivazione e si sviluppa nei
gradini successivi approfondendosi fino a diventare un’esperienza estatica o
samadhica.
L.: Quindi esiste un "modello di Lapassade"?
M. : No. Georges non ha ancora formalizzato le sue
intuizioni in un vero e proprio modello, anche se potrebbe tentare di farlo.
L. : Ci sono altri modelli degli stati di coscienza che
potrebbero indurre un avanzamento delle conoscenze in questo campo?
M. : Beh, c'è il modello dello stato di sogno di Hobson
e McCarley che meriterebbe una certa attenzione. E poi c'è l'interpretazione
della coscienza del tantrismo tibetano, la "dottrina della chiara
luce" che per me è il "modello" più straordinario nel quale mi
sia imbattuto. Ma di questi dovrò parlarti in un'altra occasione.
L. : L’ipnosi è dunque importante per capire la
struttura della coscienza e di varie sue modificazioni.
M. : Ho spesso definito la trance ipnotica “la mamma”
di tutti gli stati modificati della coscienza prima di tutto perché è una
modificazione della coscienza che può essere indotta facilmente e perché è
facilmente accessibile anche da soli e, quindi, è uno stato assolutamente
naturale. In secondo luogo, perché la sua essenza sembra consistere in una
inversione della dominanza emisferica (il termine psicologico che definisce
meglio questa condizione, come dirò meglio tra poco, è “dissociazione”) e cioè
in un cambiamento del software mentale, ovvero in un cambiamento del modo di
funzionare della mente invece che del cervello.
Il sonno e il sogno, infatti, avvengono solo se cambia la
neurofisiologia e cioè se i centri nervosi che attivano questi due stati
entrano in funzione e, contemporaneamente quelli che mantenevano lo stato di
veglia si mettono a riposo. Nell’ipnosi, invece, non sono necessari questi
complessi cambiamenti, basta agire su alcune componenti dell’attività mentale e
si ottiene lo stato di trance.
L : Che significa “una dissociazione assolutamente
naturale”?
M. : Effettivamente “dissociazione” è un termine
pericoloso e minaccioso. In realtà, nel significato originario che gli aveva
dato il primo studioso che l’ha usato, Pierre Janet (un grande ipnotista e
studioso della coscienza) alludeva a una condizione semplice e naturale che
conosciamo tutti e che sperimentiamo continuamente nel corso della giornata: la
possibilità/capacità che ha la nostra mente di fare contemporaneamente due
cose.
Per esempio, quando guidiamo l’automobile e
contempo-raneamente conversiamo con il passeggero che ci sta di fianco, la
nostra mente è “dissociata” in due parti, l’una che compie automaticamente i
gesti della guida e controlla la marcia del veicolo nel traffico, l’altra che
segue tranquillamente la conversazione.
Quando stiamo camminando verso una qualunque meta, possiamo
contemporaneamente leggere un libro o pensare intensamente ad una cosa
qualunque: il “pilota automatico” ci porta in relativa autonomia là dove
dovevamo andare senza richiedere un controllo minuzioso dei movimenti della
marcia e la correttezza del percorso.
Quando parliamo al telefono e contemporaneamente tracciamo
dei ghirigori su un foglio di carta, infine, la nostra mente è, di nuovo,
dissociata in due parti che fanno due cose differenti.
Si tratta dunque di una condizione perfettamente naturale
che è, anche, l’antefatto della trance. Basta, infatti, sviluppare e
intensificare questa condizione per entrare in uno stato modificato di
coscienza che viene definito trance.
L : Ho capito. Sembra che tu stia descrivendo una
struttura della mente composta di due parti e che nelle condizioni che hai
descritto, queste due parti si dividano dei compiti e si mettano a lavorare
indipendentemente una dall’altra.
Questo, però, presuppone che abitualmente le due parti
collaborino o, quanto meno, possano interessarsi contemporaneamente di una
stessa cosa o, addirittura, che una delle due parti si accolli tutto il lavoro
e l’altra se ne stia tranquilla a riposo.
M. : Esattamente. È un modo come un altro per descrivere
la naturale consapevolezza che tutti noi abbiamo della struttura duale della
nostra mente. Il dottor Jeckyll e mister Hyde. La mente conscia e la mente
inconscia. L’Io e il Sé. E così via. Le due parti possono rapportarsi in tutte
le condizioni che hai ipotizzato. Quella più abituale è proprio l’ultima, la
situazione nella quale una (la parte razionale, il dottor Jeckyll) si accolla
tutto il controllo della realtà e ricorre alle “opinioni” dell’altra parte
(mister Hyde) solo in modesta misura.
Ci sono buone ragioni per pensare che la parte razionale
corrisponda al pensiero dell’emisfero sinistro e l’altra a quello dell’emisfero
destro o, quantomeno che questa sia la base neuropsicologica della dualità
della mente.
Questa opinione è nata dallo studio delle persone nelle
quali i due emisferi cerebrali erano stati separati chirurgicamente. In questi
soggetti è stato dimostrato che le due metà del cervello pensano in modo
diverso l’una dall’altra, che hanno due differenti modi di elaborare le
informazioni, due contenuti di memoria specializzati in modo differente e,
addirittura, che hanno due diverse personalità.
Credo che non occorra diffondersi a lungo su questa scoperta
perché è stata oggetto di un’intensa divulgazione. Sta di fatto che nelle
condizioni di coscienza ordinaria dello stato di veglia è l’emisfero sinistro
che controlla la realtà (sarebbe meglio dire che interpreta la realtà), tanto è
vero che i pazienti commissurotomizzati, quelli nei quali sono stati separati
chirurgicamente i due emisferi, sembrano persone del tutto normali e solo con
test molto raffinati si riesce a dimostrare l’esistenza di due menti parallele.
Il predominio funzionale della metà sinistra del cervello viene chiamato
“dominanza emisferica”.
L . : Quindi la dissociazione fisiologica che
descrivevi prima corrisponde a una situazione nella quale un emisfero si
incarica di fare una cosa e l’altro può farne un’altra, in una forma di tacita
collaborazione.
M. : Esattamente. Nelle condizioni di modesta
dissociazione che ho esemplificato ci si accorge chiaramente che vengono fatte
due cose contemporaneamente, ma la collaborazione tra i due emisferi è
continua. Come in una partita a ping pong le informazioni passano da destra a
sinistra in modo che si utilizzino continuamente le abilità interpretative dei
due emisferi. È quindi una collaborazione molto vivace, anche se poi il tiranno
di sinistra interpreta, decide e agisce senza tenere troppo conto delle
opinioni del suo fratello di destra.
L. : C’è una condizione della coscienza nella quale la
dominanza si inverte?
M. : Certo: è il sogno, il sonno REM che però, come ti
ho detto, corrisponde anche a un cambiamento della neurofisiologia cerebrale.
In questa condizione il tiranno di sinistra viene messo a tacere di forza
e non può fare altro che farsi invadere dalle fantasie, daipensieri e dalle
interpretazioni del gemello destro.
Al risveglio, come suole fare, ricordando ciò che ha
vissuto, lo interpreterà come un’irrealtà, un sogno e ne terrà poco conto. In
un certo senso, mi piace pensare che durante la notte il cervello destro
“prenda in giro” il dottor Jeckyll mandandogli delle informazioni assurde,
paradossali e del tutto incoerenti con il suo modello di realtà, quasi come se
volesse intaccare la sua ferrea razionalità, la sua ottusa rigidità e invitarlo
a giocare al “come se”.
L. : Il fatto che per invertire la dominanza siano
necessari dei cambiamenti nella neurofisiologia del cervello mi fa pensare che
le due parti siano destinate a vivere molto più separate di quanto con la
descrizione della dissociazione di Janet mi facevi immaginare. È così?
M. : No. Oggi si pensa che la trance sia un’inversione
di dominanza che può verificarsi senza cambiamenti della neurofisiologia. E
quando dico trance non parlo solo di quella ipnotica, ma di tutte le condizioni
della coscienza che meritano questo nome. È per questo che ho detto che
l’ipnosi è la madre di tutte le modificazioni della coscienza.
L. : Va bene. Ma allora cosa succede? Il sinistro smette
di tiranneggiare e il destro può elaborare a suo modo le informazioni. E
allora?
M. : È proprio qui la magia: quelle che vengono
elaborate nel sogno sono informazioni allucinatorie perché il cervello nel
sonno è isolato dalla realtà.
Quando il cervello si sveglia, è l’emisfero sinistro che
“prende in giro” il destro, come se volesse fargli notare che la realtà era
altrove e che lui si era comportato come al solito, da sognatore. Nel
cambiamento di dominanza senza modificazioni della neurofisiologia sono le
informazioni della realtà “reale” che vengono proposte al cervello destro per
un’interpretazione alternativa a quella che fornirebbe la razionalità.
L. : Che tipo di elaborazione?
M. : Ma, per esempio, su base emozionale. Però non
vorrei sviluppare troppo questo aspetto della trance che comunque è ovviamente
molto interessante. Preferirei continuare a valutare l’importanza della
struttura duale della mente per “capire” un po’ meglio la struttura della
coscienza e il significato dei suoi stati modificati.
Per esempio, tu prima mi hai chiesto se esistono condizioni
nelle quali si ha un’inversione di dominanza senza bisogno che cambi la
neurofisiologia e io ti ho risposto che, in condizioni di veglia ciò
corrisponde alla condizione della trance.
Adesso io ti chiedo di immaginare l’inverso e cioè che in
condizioni di neurofisiologia modificata, nel sogno per l’esattezza, sia
possibile che il cervello sinistro possa partecipare all’elaborazione delle
avventure allucinatorie che sta fabbricando il cervello destro. Ebbene, questa
condizione è possibile e si chiama “sogno lucido”.
È una condizione della coscienza molto importante. Può
verificarsi spontaneamente, anche se è rara.
Voglio dire che ci sono persone che si accorgono, mentre
sognano, che stanno sognando. Nella maggioranza dei casi, questi fortunati
liquidano l’esperienza concludendo che hanno sognato che stavano sognando (il
benedetto emisfero sinistro ha colpito ancora!) e non sanno invece che se
sviluppassero questa capacità potrebbero andare incontro a un’evoluzione
psicologica e spirituale che potrebbe cambiare la loro vita.
Gli orientali, e precisamente i tibetani, hanno elaborato un
tipo di yoga, detto lo yoga del sogno, che serve proprio per sviluppare il
sogno lucido e ritengono questa pratica la chiave fondamentale per raggiungere
la consapevolezza esperienziale (e cioè provata su se stessi e non letta in un
libro) della struttura della nostra mente/coscienza.
Nella psicologia occidentale (accademica) la possibilità del
sogno lucido era schizzinosamente negata fino a un paio di decenni or sono. Si
riteneva, appunto, che sognare lucido corrispondesse a sognare di stare
sognando e che, quindi, non fosse possibile conservare accesa la coscienza
della veglia durante il sogno.
Poi la genialità di un sognatore lucido spontaneo, Stephen
La Berge, è riuscita a far accettare la realtà fenomenologica del sognare
lucido anche alla psicologia sperimentale. Il fatto è che un sognatore lucido
può dirigere i propri sogni a volontà: può interromperli, cambiarli,
sceglierli, può decidere se parteciparvi attivamente, come protagonista, oppure
assistervi passivamente come un semplice spettatore. Trasforma il proprio
emisfero destro in una bellissima sala cinematografica e utilizza la mente del
suo gemello sognatore per giocare a sua volta al “come se”.
L.: Stando così le cose, mi viene di pensare che il
meccanismo della dominanza sia un elemento molto importante per quanto riguarda
la struttura della coscienza. Ma in cosa consiste esattamente?
M. : Non si sa. Tutto ciò che abbiamo detto finora
dimostra solo che esiste e che è graduato/graduabile ma che non si riesce a
capire in cosa consista esattamente. Come si è visto, in alcune condizioni la
sua potenza è completa, in altre lo è meno. Come una porta che può essere
serrata o semiaperta. Forse sarebbe meglio dire un cancello, perché anche
quando questo è completamente chiuso, qualcosa riesce a filtrare da una parte
all’altra.
Ne è un esempio il ben noto fenomeno delle puerpere: in
tutti i manuali sul sonno viene citato il fatto che le madri che hanno appena
partorito possono dormire un sonno molto profondo senza essere svegliate da
rumori anche molto intensi ma che si svegliano di colpo al minimo vagito del
loro figlioletto. Come se una parte della coscienza fosse sempre in contatto
con la realtà.
Ci sono prove, anche se per il momento sono difficili da
accettare, che perfino durante la narcosi chirurgica una parte del cervello
resta in contatto con la realtà e successivamente, in ipnosi, possa ricordare
tutti i dettagli dell’intervento che hanno subito.
La stessa cosa è segnalata nell’estasi. In questa
condizione, malgrado il cervello sia completamente insensibile e cioè non
accolga gli stimoli ambientali, come se fosse completamente cieco, sordo, privo
del tatto o della sensibilità al dolore, se una persona dotata di una
sufficiente autorità spirituale, come per esempio il confessore, chiede
all’estatico di tornare in sé, l’estasi cessa di colpo.
Un’altra condizione nella quale la dominanza si indebolisce
è lo stato ipnagogico, e cioè il periodo di transizione dalla veglia al sonno.
In quei magici momenti, avviene il passaggio delle consegne dal sinistro al
destro e mentre il sinistro comincia a non prestare più attenzione alla realtà
esterna, il destro comincia a fabbricare sogni, così che si hanno delle
esperienze allucinatorie.
L. : Insomma è come se nella nostra mente ci sia una
sentinella sempre sul chi vive!
M. : Proprio così: è stata chiamata “l’osservatore
nascosto”, “il testimone” o anche “l?interprete”. La più convincente e anche
più impressionante dimostrazione della sua esistenza l’ha data Ernst Hilgard,
un altro grande studioso dell’ipnosi.
Un giorno, costui, dovendo dimostrare ad un gruppo di
studenti la fenomenologia dell’ipnosi, indusse la sordità ipnotica (si può
fare, per esempio, dicendo al soggetto in trance profonda: “Adesso conterò fino
a tre e quando dirò tre non udrai più alcun suono, voce o rumore”) a un
soggetto cieco dalla nascita (il soggetto che faceva parte del gruppo degli
studenti che assistevano alla lezione era altamente suscettibile all’ipnosi ed
era una “cavia” ideale per l’esperimento perché la sua cecità eliminava la
possibilità che fingesse di non udire vedendo ciò che più avanti i compagni
avrebbero fatto intorno a lui).
Una volta stabilita la sordità (compresa la possibilità di
udire anche la voce dell’ipnotizzatore, con un comando separato, “Quando ti
toccherò una spalla”), infatti, vennero sbattuti con violenza, vicino ad un
orecchio dell’ipnotizzato, dei ciocchi di legno senza che questi mostrasse la
benché minima reazione.
A questo punto uno studente chiese ad Hilgard se fosse
possibile, comunque, che “una parte” della mente dell’ipnotizzato avesse
avvertito i rumori. Allora Hilgard interrogò l’ipnotizzato dicendogli: “Tu sai
che ci sono delle parti del tuo sistema nervoso che funzionano al di fuori
della tua volontà. Per esempio quelle che comandano la respirazione o la circolazione
del tuo sangue.
Ora, anche se tu sei temporaneamente sordo, può darsi che
una parte della tua mente mi stia udendo e che abbia registrato il rumore che
abbiamo fatto vicino al tuo orecchio. Se ciò è avvenuto, per favore, solleva il
dito indice della mano destra per confermarmelo”.
Con sorpresa generale dei presenti, l’ipnotizzato sollevò il
dito, ma contemporaneamente disse: “Per favore, professore, mi ridia l’udito
così che mi spieghi cosa sta succedendo. Poco fa ho sentito il mio dito indice
della mano destra sollevarsi da solo e vorrei sapere perché è successo”.
Allora Hilgard toccò la spalla del soggetto e chiese: “Puoi
sentire la mia voce adesso?”. “Sì” rispose l’ipnotizzato “e vorrei sapere cosa
è successo”. “Prima dimmi tu cosa ricordi” ribatté Hilgard. “Mi ricordo che lei
mi ha detto che quando avrebbe contato fino a tre sarei diventato sordo e che
quando mi avrebbe messo una mano sulla spalla sarei tornato ad udire
normalmente. Dopo di che ha contato e tutto è diventato silenzioso e calmo. Poiché
mi annoiavo un po’ a stare qui seduto nel silenzio mi sono messo a pensare
all’esame di statistica che dovrò fare tra qualche giorno. A un certo punto ho
sentito il mio dito che si alzava e le ho chiesto cosa stava succedendo”.
Allora Hilgard continuò: “Bene, adesso quando metterò una
mano su un tuo avambraccio, entrerò in contatto con quella parte della tua
mente che udiva la mia voce malgrado tu fossi sordo. Però quella parte della
tua mente, alla quale mi sto rivolgendo già adesso, non saprà ciò che tu mi
dirai e neppure che tu mi hai parlato finché, dopo l’ipnosi, io non le dirò che
potrà ricordare tutto. Bene, adesso ti tocco l’avambraccio”. Dopo averlo fatto,
Hilgard continuò: “Adesso ti ricordi quel che è successo mentre eri sordo?”
“Sì, mi ricordo che dopo che lei ha contato fino a tre e mi
ha toccato la spalla per farmi perdere l’udito avete sbattuto dei ciocchi di
legno vicino alle mie orecchie. Poi ricordo che uno dei miei compagni ha
chiesto se non potesse essere possibile che una parte della mia mente, in
realtà, udisse e mi ricordo che lei mi ha detto che se la stavo udendo avrei
dovuto confermarlo alzando un dito”.
Allora Hilgard ritoccò l’avambraccio del soggetto
riportandolo allo stato di trance originario e chiese ancora: “Per favore raccontami
cosa è successo negli ultimi due minuti”. “Lei mi ha detto che quando mi
avrebbe toccato l”avambraccio una parte della mia mente le avrebbe parlato.
L’ho fatto?”
Hilgard rispose di sì e gli ripeté che quando l’avrebbe
riportato allo stato di coscienza ordinaria si sarebbe ricordato tutto. Poi lo
svegliò e gli disse: “Adesso puoi ricordare tutto” e il soggetto, in effetti,
ebbe ricordo cosciente di ogni passo dell’esperimento.
Credo che non ci sia bisogno di commentare questa brillante
dimostrazione: non solo la dualità della mente emerge con grande chiarezza, ma
sono altrettanto palesi la destrutturazione della dominanza e l’attività
dell’osservatore nascosto. Anzi, è proprio con questo esperimento fortuito che
Hilgard ha scoperto questa “entità sentinella” e che l’ha chiamata “hidden
observer”.
L. : Quindi l”osservatore nascosto sarebbe la vera
coscienza?
M. : Credo proprio di sì: una scintilla di
consapevolezza che non si spegne ne in ipnosi, ne in estasi, ne in narcosi ne,
mi piace pensare, in prossimità della morte, come sembra succedere durante la
NDE e, forse neppure nel coma.
I tibetani la chiamano “la chiara luce”.
L. : Allora è per questo che da anni vai dicendo e
scrivendo che le sostanze psicoattive non potranno mai dare una vera estasi.
M. : Esatto. Qualunque esperienza tu possa fare durante
un viaggio, avrai sempre la consapevolezza che sei sotto effetto di una
sostanza chimica. Potrai intravedere o avere la sensazione che una divinità sia
lì vicino ma ti rimarrà sempre il dubbio che non fosse che un’illusione
chimica. So che molti non la pensano così e che giudicano questo punto di vista
un puritanesimo moralista, ma io penso che c’è una bella differenza tra
mangiare una mela e avere l’allucinazione di mangiarla!
L. Ne parleremo un’altra volta!