Ieri è scomparso a Milano dopo una lunga malattia Eugenio Gaburri, uno dei piu
importanti interpreti della psicoanalisi italiana ,didatta della S.P.I e
fra i padri fondatori dell' Istituto italiano psicoanalisi di gruppo insieme a Corrao con cui
ha contribuito alla diffusione e all 'approfondimento del pensiero di W.R.Bion in italia.
Per ricordarlo voglio pubblicare la Prefazione che onorò il nostro volume "IL GRUPPO NELLE DIPENDENZE PATOLOGICHE"a cura di Guglielmo Campione e Antonio Nettuno, Franco Angeli Editore , Milano, 2005
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È stata per me un’esperienza istruttiva e piacevole “aggirarmi” nell’ esplo-razione di questo libro che è, insieme, semplice e complesso. Semplice per-ché segue un costrutto lineare e coerente, complesso perché si addentra nella teoria della tecnica collocandosi nella polifonia propria della pratica clinica.
In questa esplorazione guidata il lettore raccoglie una grande messe di in-formazioni, solo apparentemente pragmatiche, in effetti estremamente sugge-stive. Si tratta di dati sui recenti riscontri sul grande e purtroppo attuale tema delle dipendenze patologiche, ma anche di riflessioni sulle ricerche intorno allo strumento gruppale, strumento terapeutico, ma anche via regia verso temi ampi e impegnativi, quali la relazione individuo/gruppo, individuo/aggregato sociale, come si sta configurando nel nostro tempo.
Dopo anni di lavoro terapeutico con i gruppi, attualmente i miei interessi si sono rivolti in direzione della ricerca sulle ricadute che le esperienze di grup-po hanno prodotto, a livello teorico e clinico, sulle nostre concezioni del fun-zionamento mentale e, in seconda battuta, sul trattamento psicoterapico e psicoanalitico in generale.
In questo percorso mi ha confortato la convinzione che gran parte del rivo-luzionario contributo che Bion ha dato alla psicoanalisi e alla conoscenza del-l'animo umano si possa far risalire alla sua esperienza con i gruppi. Questa e-sperienza, infatti, permette di esplorare elementi psichici arcaici, dimensioni protomentali, attivate specificamente dall'incontro del singolo con il gruppo.
In questa prospettiva ho letto questo volume che tratta il tema, antico, della “tossicomania” inquadrandolo secondo due direttrici: la prima esplorando il percorso della deformazione patologica dello stato mentale di dipendenza, la seconda collegando questo percorso alla situazione di gruppo in chiave di strumento terapeutico.
Attraverso i vari contributi il lettore viene invitato a cogliere quanto il fe-nomeno della dipendenza abbia intriso e permeato sottilmente lo sfondo cultu-rale nel quale siamo inseriti; quanto la patologia della dipendenza sia oggi un segnale importante (oltre che endemico) della struttura stessa del rapporto in-dividuo-civiltà.
Il lettore, oltre che ad essere aggiornato sulle moderne tecniche terapeuti-che, è invitato a riflettere sulla qualità patologica che può assumere, nei rap-porti inter-umani, il fenomeno naturale della “dipendenza” all'interno dell'at-tuale quadro culturale occidentale, tecnologico e postmoderno.
Attraverso questa visione a “grandangolo” il lettore viene sollecitato a ri-flettere non solo su un fenomeno patologico isolato, ma su un epifenomeno che segnala un disagio di fondo della nostra epoca.
Agli inizi del Novecento la presenza delle sindromi isteriche, una presenza endemica che le costituiva come un elemento costitutivo del “sociale”, ha da-to, a Freud e ai primi pionieri della nostra disciplina, l’opportunità di scoprire, attraverso lo strumento psicoanalitico, la realtà e la potenza dell'inconscio, il riscontro della violenta repressione e inibizione della sessualità presente in quell'epoca.
È lecito sperare che all'epoca attuale sia possibile, attraverso una riflessio-ne psicoanalitica sul campo culturale, descrivere una altrettanto violenta e oc-culta pressione volta ad inibire l'indipendenza di pensiero, una pressione eser-citata dall'aggregato culturale sul singolo a scapito della sua identità soggetti-va.
Nell'era postmoderna, quando sembra ormai acquisito che la “supremazia tecnologica” del mondo occidentale regoli i rapporti tra gli stati e le culture, quando sembra ormai indiscussa l'equazione tra sviluppo e di liberalismo tec-nologico senza limiti, la lettura di questo libro ci rende consapevoli che non è possibile delegare ad una delle tante forme di “specializzazione medi-co/tecnologica” il fenomeno delle dipendenze. Le dipendenze patologiche, dalle descrizioni che ritroviamo nel libro, appaiono quasi come una conse-guenza del dismorfismo strutturale che produce i conflitti e la sofferenza dif-fusi nella nostra società.
La “dipendenza patologica”, così come viene configurata in questo libro, sembra la forma emblematica di quello che può essere definito come l' attuale disagio della civiltà. Un “disagio” che, diversamente da ciò che Freud nel 1930 osservava, si rivela come l'altra faccia, quella patologica, di una situa-zione sociale formalmente euforica. La dipendenza patologica sembra infatti additare alla nostra attenzione di studiosi la dimensione disforica e paranoica del mondo moderno.
Spesso, alla lettura delle diverse situazioni cliniche descritte nel libro, que-sta patologia si staglia come una risposta speculare, una sorta di ribellione im-potente, dove lo sfondo generalizzato della “addiction” (sia alimentare, ses-suale o del gioco di azzardo) sembra isomorfa alla artificiosità perturbante dell'aggregazione societaria.
Il volume fornisce una prospettiva a grand'angolo della patologia della di-pendenza non limitandosi alle tossicodipendenze, ma includendo in questa sindrome la degradazione della sessualità e del pensiero, in questo senso, di-viene un prezioso strumento per accostare le patologie attuali con tecnica e metodo capaci di tener conto dello sfondo culturale effettivo, che sottende queste patologie.
La novità di questa proposta sta nel non offrire al lettore una valutazione della patologia della dipendenza angustamente limitata a un fenomeno so-cio/medico, ma di connetterla con il conflitto-dilemma tra indipendenza e di-pendenza, vale a dire tra attività e passività, tra conformismo e specificità. Gli autori vanno al di là di una ottica medicalizzata, magari riduttivamente appiat-tita sul profilo psico-farmacologico, oggi tanto accreditata dall'azienda Sanità.
Ciò che si ricava dai contributi dei diversi autori è di poter cogliere la tos-sicomania come il risvolto doloroso e tragico del mancato esito evolutivo del-la struttura psico-somato-sociale, del singolo come dell'aggregato umano.
Lo sviluppo umano è fondato sulla inter-dipendenza, la sua patologia e-merge da scambi e legami affettivi isolati dalla loro primaria radice emotiva. La moderna biotecnologia viene spesso intesa come antitesi rispetto a questo originario ancoramento nella vita emotiva. Il diniego della realtà psichica, marcato da un uso paranoico della tecnologia, sequestra le potenzialità evolu-tiva perchè toglie senso ai legami affettivi, privandoli della loro funzione di contenimento delle emozioni e delle angosce arcaiche.
In questo funzionamento scisso la funzione del pensiero rimane isolata e incorporea, aumentando drammaticamente, per il singolo soggetto, il peso del-la perturbante estraneità nei confronti dell'aggregato sociale.
La vita psichica, tout- court, si degrada quando è scissa e isolata dal corpo. Questa degradazione diffonde la paura di break down psicotici, incrementan-do la “fame di stimoli” che orienta verso il comportamento tossicomane. I membri più deboli dell' aggregato sociale possono essere considerati, allora, come ostaggi di una dipendenza patologica prodotta come scarto della attuale paranoia sociale; paranoia diffusa che, in altri contesti, esprime una militariz-zazione fanatica intorno a nuove forme di totemismo ideologico.
L’altro aspetto su cui vorrei soffermarmi in questa prefazione è l'utilizzo del gruppo come strumento terapeutico. Gli studi qui proposti, infatti, colle-gano le funzioni terapeutiche del gruppo specificamente con la terapia della dipendenza patologica. Vale a dire che offrono l’opportunità di visualizzare la possibile evoluzione, dalla primaria e fisiologica dipendenza del bambino dal-la madre, verso quella naturale e creativa interdipendenza che struttura l' amo-re di coppia (la sessualità), il lavoro comune e il conflitto tra le generazioni, e che consente di tollerare la fragilità della specie umana dinanzi alla morte, al nostro destino biologico. Attraverso questa evoluzione il singolo può trarre piacere (senza sentirsi derealizzato) dal proprio lavoro (sublimazione) e, per dirla con Freud, raggiungere quel “minimo di originalità” che lo fa sentire un individuo specifico.
Il libro descrive i molti passaggi che, attraverso il gruppo, permettono di transitare dalla pura e semplice dipendenza alla interdipendenza e al suo valo-re euristico per lo sviluppo psichico.
Il lettore, nello scorrere questo volume, si trova collocato al centro di un “campo” formato da molti vertici, tanti quanti sono gli autori che cooperano alla struttura del libro, e, superato un primo momento di smarrimento, può poi godere di una situazione emotivamente analoga a quella che si realizza nella esperienza concreta di partecipazione ad un piccolo gruppo.
Accettando il rischio di apparire iperbolico mi azzardo a sviluppare som-mariamente alcune considerazioni generali di ordine squisitamente psicoanali-tico.
Quanto un essere umano può dirsi attivo/passivo e, alternativamente, di-pendente /indipendente?
Esiste una parola per esprimere un concetto che percorre ormai da cento anni la letteratura psicoanalitica, una parola che in lingua italiana prende un aspetto riduttivo: “l'impotenza”. Il suo corrispettivo nel lessico psicoanalitico freudiano è “Hilflosigkeit” e sta a significare lo stato psico-fisico del lattante nella prima fase della vita. “Hilflosigkeit” significa mancanza-di-aiuto (hilfe), il concetto rinvia alla fisiologica impotenza, più marcata nel cucciolo umano che in altre specie. Con questo concetto la psicoanalisi cerca di esplorare la condizione (di dipendenza) che caratterizza la situazione somato/psichica del neonato del tutto impotente a provvedere alla sua sopravvivenza e alla sua crescita, impotenza evidente fin dal passaggio dall'ambiente originario al nuo-vo ambiente extrauterino, dove, da subito, dovrà imparare a... respirare, man-giare, espellere e, soprattutto, a farsi capire (e ad essere capito) nei suoi biso-gni elementari.
Tra questi bisogni è essenziale includere il desiderio di evolvere, crescere, emanciparsi, guadagnare un proprio spazio privato e un proprio posto nel mondo.
Il neonato è molto ricco di capacità potenziali (competenze) ma è molto povero di strumenti per realizzarle. Questi strumenti gli vengono forniti dalla madre (-ambiente) nel rapporto di dipendenza primaria, ma la madre, o se si vuole il mondo del materno, è, a sua volta, dipendente da un campo emotivo e affettivo, della relazione di coppia con il partner amoroso, e della mentalità e organizzazione “sociale” del gruppo culturale, religioso, medico/pediatrico etc. cui appartiene.
Ma vi è un importante fattore collegato alla hilflosigkeit: il neonato non sa di essere impotente (di non sapere), e da questa sua lacuna della coscienza na-scono tutta una serie di conseguenze specifiche nel cucciolo umano. Innanzi-tutto il narcisismo primario e la dimensione di grandiosità megalomane che ne deriva. Questa grandiosità è stata spesso invocata come origine di tante sin-dromi psicopatologiche. Narcisismo, megalomania, con il correlato la autodi-struttività che ad essi viene associato, sono quindi considerati elementi delle dipendenze patologiche.
Ma se consideriamo che l’omissione, o la disarmonica risposta da parte dell'adulto alla lacuna della coscienza propria del cucciolo umano, è spesso alimentata surrettiziamente dalla “competenza tecnologica” della cultura at-tuale (che spesso si sostituisce alle naturali cure materne), si capisce come queste cure spesso vengono inconsciamente delegate alla competenza tecno-logica, magari anche con aspettative pseudoprotettive.
Quando la cura del nuovo nato è delegata alla mentalità di gruppo e alla sua attrezzatura tecnologica, la fisiologica lacuna della coscienza infantile ri-sulta misconosciuta dall'ambiente-materno e, come conseguenza si crea una pericolosa equazione psicologica tra dipendenza, passività, conformismo compiacente.
La carente interdipendenza tra madre e bambino, la delega massiccia alla cultura (mentalità) dell’ aggregazione gruppale, accentua il rischio della de-gradazione patologica della relazione di dipendenza. È da questa delega in-conscia che si avvia la dipendenza patologica perchè la naturale hilflosigkeit entra in una spirale coatta che scavalca la relazione personale con la madre e mette in cortocircuito il corpo e il gruppo.
La paura dell’impotenza si è annidata nel corpo e la strategia terapeutica è collocata nell' “altrove” della mentalità del gruppo primitivo.
In queste circostanze molte “protesi” chimiche o tecnologiche (perfino il web come ricorda il Guglielmo Campione) si trasformano in veri e propri ri-fugi della mente, che, paradossalmente, alimentano la fame di allucinare of-frendo, soprattutto al corpo, la “delirante promessa”, come la definisce Sear-les, di una vita autarchica, esente dai conflitti che si sentono impotenti da ge-stire.
L'elusione dei conflitti coincide con l’elusione del lavoro psichico e rende l'individuo ostaggio del dilemma passività/onnipotenza, ad un passo impercet-tibile della dipendenza patologica.
Questa dinamica psichica fa comprendere le “poli-tossicodipendenze” in-tese come passiva acquiescenza agli stati protomentali della mentalità del gruppo in assunto di base, organizzano la quota paranoica del disagio.
W. Bion aveva osservato che l'individuo che entra a far parte di un gruppo affronta un compito altrettanto formidabile come il neonato quando entra in rapporto col seno. Per questo aspetto, l'uso del gruppo come fattore terapeuti-co lascia emergere quegli stati che Ambrosiano ed io (2003) abbiamo descrit-to come “stati preindividuali della mente”, stati che elettivamente il lavoro te-rapeutico di gruppo può mobilitare e avviare verso una integrazione.
Gli stati preindividuali della mente sono caratterizzati dal predominio degli stati emotivi (protoemozioni) sulle relazioni affettive e quindi sulla capacità di pensiero.
Dolorosamente, nella cultura attuale, osserviamo fenomeni di aggregazioni ideologiche “a massa” intorno a emozioni grezze, non pensate e non specifi-che. Questo richiamo all’aggregazione emotiva riattiva atteggiamenti supina-mente conformistici e accentua quella fame di stimoli che fa da brodocultura per le tossicodipendenze.
In questo senso il piccolo gruppo terapeutico come strumento per recupe-rare le situazioni di carenza originaria appare come uno strumento elettivo.
Vorrei aggiungere, concludendo, che, con piacere e interesse, non sono presenti in questo libro vene moralistiche o ideologiche, ma un atteggiamento laico, o meglio profano (Gaburri, 1999), atteggiamento che consente la coin-cidenza di una rispettosa ricerca di conoscenza con la passione umana connes-sa al desiderio di curare.
Bibliografia
Eugenio Gaburri, Emozione e interpretazione, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
Ambrosiano L., Gaburri E., Ululare coi lupi: conformismo e reverie, Bollati Borin-ghieri, Torino, 2004.
Per ricordarlo voglio pubblicare la Prefazione che onorò il nostro volume "IL GRUPPO NELLE DIPENDENZE PATOLOGICHE"a cura di Guglielmo Campione e Antonio Nettuno, Franco Angeli Editore , Milano, 2005
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È stata per me un’esperienza istruttiva e piacevole “aggirarmi” nell’ esplo-razione di questo libro che è, insieme, semplice e complesso. Semplice per-ché segue un costrutto lineare e coerente, complesso perché si addentra nella teoria della tecnica collocandosi nella polifonia propria della pratica clinica.
In questa esplorazione guidata il lettore raccoglie una grande messe di in-formazioni, solo apparentemente pragmatiche, in effetti estremamente sugge-stive. Si tratta di dati sui recenti riscontri sul grande e purtroppo attuale tema delle dipendenze patologiche, ma anche di riflessioni sulle ricerche intorno allo strumento gruppale, strumento terapeutico, ma anche via regia verso temi ampi e impegnativi, quali la relazione individuo/gruppo, individuo/aggregato sociale, come si sta configurando nel nostro tempo.
Dopo anni di lavoro terapeutico con i gruppi, attualmente i miei interessi si sono rivolti in direzione della ricerca sulle ricadute che le esperienze di grup-po hanno prodotto, a livello teorico e clinico, sulle nostre concezioni del fun-zionamento mentale e, in seconda battuta, sul trattamento psicoterapico e psicoanalitico in generale.
In questo percorso mi ha confortato la convinzione che gran parte del rivo-luzionario contributo che Bion ha dato alla psicoanalisi e alla conoscenza del-l'animo umano si possa far risalire alla sua esperienza con i gruppi. Questa e-sperienza, infatti, permette di esplorare elementi psichici arcaici, dimensioni protomentali, attivate specificamente dall'incontro del singolo con il gruppo.
In questa prospettiva ho letto questo volume che tratta il tema, antico, della “tossicomania” inquadrandolo secondo due direttrici: la prima esplorando il percorso della deformazione patologica dello stato mentale di dipendenza, la seconda collegando questo percorso alla situazione di gruppo in chiave di strumento terapeutico.
Attraverso i vari contributi il lettore viene invitato a cogliere quanto il fe-nomeno della dipendenza abbia intriso e permeato sottilmente lo sfondo cultu-rale nel quale siamo inseriti; quanto la patologia della dipendenza sia oggi un segnale importante (oltre che endemico) della struttura stessa del rapporto in-dividuo-civiltà.
Il lettore, oltre che ad essere aggiornato sulle moderne tecniche terapeuti-che, è invitato a riflettere sulla qualità patologica che può assumere, nei rap-porti inter-umani, il fenomeno naturale della “dipendenza” all'interno dell'at-tuale quadro culturale occidentale, tecnologico e postmoderno.
Attraverso questa visione a “grandangolo” il lettore viene sollecitato a ri-flettere non solo su un fenomeno patologico isolato, ma su un epifenomeno che segnala un disagio di fondo della nostra epoca.
Agli inizi del Novecento la presenza delle sindromi isteriche, una presenza endemica che le costituiva come un elemento costitutivo del “sociale”, ha da-to, a Freud e ai primi pionieri della nostra disciplina, l’opportunità di scoprire, attraverso lo strumento psicoanalitico, la realtà e la potenza dell'inconscio, il riscontro della violenta repressione e inibizione della sessualità presente in quell'epoca.
È lecito sperare che all'epoca attuale sia possibile, attraverso una riflessio-ne psicoanalitica sul campo culturale, descrivere una altrettanto violenta e oc-culta pressione volta ad inibire l'indipendenza di pensiero, una pressione eser-citata dall'aggregato culturale sul singolo a scapito della sua identità soggetti-va.
Nell'era postmoderna, quando sembra ormai acquisito che la “supremazia tecnologica” del mondo occidentale regoli i rapporti tra gli stati e le culture, quando sembra ormai indiscussa l'equazione tra sviluppo e di liberalismo tec-nologico senza limiti, la lettura di questo libro ci rende consapevoli che non è possibile delegare ad una delle tante forme di “specializzazione medi-co/tecnologica” il fenomeno delle dipendenze. Le dipendenze patologiche, dalle descrizioni che ritroviamo nel libro, appaiono quasi come una conse-guenza del dismorfismo strutturale che produce i conflitti e la sofferenza dif-fusi nella nostra società.
La “dipendenza patologica”, così come viene configurata in questo libro, sembra la forma emblematica di quello che può essere definito come l' attuale disagio della civiltà. Un “disagio” che, diversamente da ciò che Freud nel 1930 osservava, si rivela come l'altra faccia, quella patologica, di una situa-zione sociale formalmente euforica. La dipendenza patologica sembra infatti additare alla nostra attenzione di studiosi la dimensione disforica e paranoica del mondo moderno.
Spesso, alla lettura delle diverse situazioni cliniche descritte nel libro, que-sta patologia si staglia come una risposta speculare, una sorta di ribellione im-potente, dove lo sfondo generalizzato della “addiction” (sia alimentare, ses-suale o del gioco di azzardo) sembra isomorfa alla artificiosità perturbante dell'aggregazione societaria.
Il volume fornisce una prospettiva a grand'angolo della patologia della di-pendenza non limitandosi alle tossicodipendenze, ma includendo in questa sindrome la degradazione della sessualità e del pensiero, in questo senso, di-viene un prezioso strumento per accostare le patologie attuali con tecnica e metodo capaci di tener conto dello sfondo culturale effettivo, che sottende queste patologie.
La novità di questa proposta sta nel non offrire al lettore una valutazione della patologia della dipendenza angustamente limitata a un fenomeno so-cio/medico, ma di connetterla con il conflitto-dilemma tra indipendenza e di-pendenza, vale a dire tra attività e passività, tra conformismo e specificità. Gli autori vanno al di là di una ottica medicalizzata, magari riduttivamente appiat-tita sul profilo psico-farmacologico, oggi tanto accreditata dall'azienda Sanità.
Ciò che si ricava dai contributi dei diversi autori è di poter cogliere la tos-sicomania come il risvolto doloroso e tragico del mancato esito evolutivo del-la struttura psico-somato-sociale, del singolo come dell'aggregato umano.
Lo sviluppo umano è fondato sulla inter-dipendenza, la sua patologia e-merge da scambi e legami affettivi isolati dalla loro primaria radice emotiva. La moderna biotecnologia viene spesso intesa come antitesi rispetto a questo originario ancoramento nella vita emotiva. Il diniego della realtà psichica, marcato da un uso paranoico della tecnologia, sequestra le potenzialità evolu-tiva perchè toglie senso ai legami affettivi, privandoli della loro funzione di contenimento delle emozioni e delle angosce arcaiche.
In questo funzionamento scisso la funzione del pensiero rimane isolata e incorporea, aumentando drammaticamente, per il singolo soggetto, il peso del-la perturbante estraneità nei confronti dell'aggregato sociale.
La vita psichica, tout- court, si degrada quando è scissa e isolata dal corpo. Questa degradazione diffonde la paura di break down psicotici, incrementan-do la “fame di stimoli” che orienta verso il comportamento tossicomane. I membri più deboli dell' aggregato sociale possono essere considerati, allora, come ostaggi di una dipendenza patologica prodotta come scarto della attuale paranoia sociale; paranoia diffusa che, in altri contesti, esprime una militariz-zazione fanatica intorno a nuove forme di totemismo ideologico.
L’altro aspetto su cui vorrei soffermarmi in questa prefazione è l'utilizzo del gruppo come strumento terapeutico. Gli studi qui proposti, infatti, colle-gano le funzioni terapeutiche del gruppo specificamente con la terapia della dipendenza patologica. Vale a dire che offrono l’opportunità di visualizzare la possibile evoluzione, dalla primaria e fisiologica dipendenza del bambino dal-la madre, verso quella naturale e creativa interdipendenza che struttura l' amo-re di coppia (la sessualità), il lavoro comune e il conflitto tra le generazioni, e che consente di tollerare la fragilità della specie umana dinanzi alla morte, al nostro destino biologico. Attraverso questa evoluzione il singolo può trarre piacere (senza sentirsi derealizzato) dal proprio lavoro (sublimazione) e, per dirla con Freud, raggiungere quel “minimo di originalità” che lo fa sentire un individuo specifico.
Il libro descrive i molti passaggi che, attraverso il gruppo, permettono di transitare dalla pura e semplice dipendenza alla interdipendenza e al suo valo-re euristico per lo sviluppo psichico.
Il lettore, nello scorrere questo volume, si trova collocato al centro di un “campo” formato da molti vertici, tanti quanti sono gli autori che cooperano alla struttura del libro, e, superato un primo momento di smarrimento, può poi godere di una situazione emotivamente analoga a quella che si realizza nella esperienza concreta di partecipazione ad un piccolo gruppo.
Accettando il rischio di apparire iperbolico mi azzardo a sviluppare som-mariamente alcune considerazioni generali di ordine squisitamente psicoanali-tico.
Quanto un essere umano può dirsi attivo/passivo e, alternativamente, di-pendente /indipendente?
Esiste una parola per esprimere un concetto che percorre ormai da cento anni la letteratura psicoanalitica, una parola che in lingua italiana prende un aspetto riduttivo: “l'impotenza”. Il suo corrispettivo nel lessico psicoanalitico freudiano è “Hilflosigkeit” e sta a significare lo stato psico-fisico del lattante nella prima fase della vita. “Hilflosigkeit” significa mancanza-di-aiuto (hilfe), il concetto rinvia alla fisiologica impotenza, più marcata nel cucciolo umano che in altre specie. Con questo concetto la psicoanalisi cerca di esplorare la condizione (di dipendenza) che caratterizza la situazione somato/psichica del neonato del tutto impotente a provvedere alla sua sopravvivenza e alla sua crescita, impotenza evidente fin dal passaggio dall'ambiente originario al nuo-vo ambiente extrauterino, dove, da subito, dovrà imparare a... respirare, man-giare, espellere e, soprattutto, a farsi capire (e ad essere capito) nei suoi biso-gni elementari.
Tra questi bisogni è essenziale includere il desiderio di evolvere, crescere, emanciparsi, guadagnare un proprio spazio privato e un proprio posto nel mondo.
Il neonato è molto ricco di capacità potenziali (competenze) ma è molto povero di strumenti per realizzarle. Questi strumenti gli vengono forniti dalla madre (-ambiente) nel rapporto di dipendenza primaria, ma la madre, o se si vuole il mondo del materno, è, a sua volta, dipendente da un campo emotivo e affettivo, della relazione di coppia con il partner amoroso, e della mentalità e organizzazione “sociale” del gruppo culturale, religioso, medico/pediatrico etc. cui appartiene.
Ma vi è un importante fattore collegato alla hilflosigkeit: il neonato non sa di essere impotente (di non sapere), e da questa sua lacuna della coscienza na-scono tutta una serie di conseguenze specifiche nel cucciolo umano. Innanzi-tutto il narcisismo primario e la dimensione di grandiosità megalomane che ne deriva. Questa grandiosità è stata spesso invocata come origine di tante sin-dromi psicopatologiche. Narcisismo, megalomania, con il correlato la autodi-struttività che ad essi viene associato, sono quindi considerati elementi delle dipendenze patologiche.
Ma se consideriamo che l’omissione, o la disarmonica risposta da parte dell'adulto alla lacuna della coscienza propria del cucciolo umano, è spesso alimentata surrettiziamente dalla “competenza tecnologica” della cultura at-tuale (che spesso si sostituisce alle naturali cure materne), si capisce come queste cure spesso vengono inconsciamente delegate alla competenza tecno-logica, magari anche con aspettative pseudoprotettive.
Quando la cura del nuovo nato è delegata alla mentalità di gruppo e alla sua attrezzatura tecnologica, la fisiologica lacuna della coscienza infantile ri-sulta misconosciuta dall'ambiente-materno e, come conseguenza si crea una pericolosa equazione psicologica tra dipendenza, passività, conformismo compiacente.
La carente interdipendenza tra madre e bambino, la delega massiccia alla cultura (mentalità) dell’ aggregazione gruppale, accentua il rischio della de-gradazione patologica della relazione di dipendenza. È da questa delega in-conscia che si avvia la dipendenza patologica perchè la naturale hilflosigkeit entra in una spirale coatta che scavalca la relazione personale con la madre e mette in cortocircuito il corpo e il gruppo.
La paura dell’impotenza si è annidata nel corpo e la strategia terapeutica è collocata nell' “altrove” della mentalità del gruppo primitivo.
In queste circostanze molte “protesi” chimiche o tecnologiche (perfino il web come ricorda il Guglielmo Campione) si trasformano in veri e propri ri-fugi della mente, che, paradossalmente, alimentano la fame di allucinare of-frendo, soprattutto al corpo, la “delirante promessa”, come la definisce Sear-les, di una vita autarchica, esente dai conflitti che si sentono impotenti da ge-stire.
L'elusione dei conflitti coincide con l’elusione del lavoro psichico e rende l'individuo ostaggio del dilemma passività/onnipotenza, ad un passo impercet-tibile della dipendenza patologica.
Questa dinamica psichica fa comprendere le “poli-tossicodipendenze” in-tese come passiva acquiescenza agli stati protomentali della mentalità del gruppo in assunto di base, organizzano la quota paranoica del disagio.
W. Bion aveva osservato che l'individuo che entra a far parte di un gruppo affronta un compito altrettanto formidabile come il neonato quando entra in rapporto col seno. Per questo aspetto, l'uso del gruppo come fattore terapeuti-co lascia emergere quegli stati che Ambrosiano ed io (2003) abbiamo descrit-to come “stati preindividuali della mente”, stati che elettivamente il lavoro te-rapeutico di gruppo può mobilitare e avviare verso una integrazione.
Gli stati preindividuali della mente sono caratterizzati dal predominio degli stati emotivi (protoemozioni) sulle relazioni affettive e quindi sulla capacità di pensiero.
Dolorosamente, nella cultura attuale, osserviamo fenomeni di aggregazioni ideologiche “a massa” intorno a emozioni grezze, non pensate e non specifi-che. Questo richiamo all’aggregazione emotiva riattiva atteggiamenti supina-mente conformistici e accentua quella fame di stimoli che fa da brodocultura per le tossicodipendenze.
In questo senso il piccolo gruppo terapeutico come strumento per recupe-rare le situazioni di carenza originaria appare come uno strumento elettivo.
Vorrei aggiungere, concludendo, che, con piacere e interesse, non sono presenti in questo libro vene moralistiche o ideologiche, ma un atteggiamento laico, o meglio profano (Gaburri, 1999), atteggiamento che consente la coin-cidenza di una rispettosa ricerca di conoscenza con la passione umana connes-sa al desiderio di curare.
Bibliografia
Eugenio Gaburri, Emozione e interpretazione, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
Ambrosiano L., Gaburri E., Ululare coi lupi: conformismo e reverie, Bollati Borin-ghieri, Torino, 2004.