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L'immersione subacquea e la formazione aziendale : Intervista a Gaetano Venza, a cura di Fabrizio Monteverde.


   "Diving in the sky " 
Foto:  Guglielmo Campione 


Ormai da circa venticinque anni ti occupi di formazione psicosociale nella tua pratica professionale e la insegni sia in università che altrove. A cosa è dovuto il tuo interesse per l’outdoor e la scelta di proporre una soluzione innovativa come l’outdoor subacqueo? 



Sia come formatore che come ricercatore sono sempre stato interessato all’efficacia della esperienza formativa, alla transizione da apprendimento a cambiamento, alla realizzazione di apprendimenti trasferibili al lavoro. Sappiamo bene, infatti, come uno dei grandi limiti della formazione psicosociale d’aula sia quello della situazione simulativa. “Il lavoro è un’altra cosa” ci sentiamo spesso dire dai partecipanti mentre facciamo formazione, e non sempre è vero che con queste parole si esprimano esclusivamente atteggiamenti ‘resistenziali’, è invece vero che la distanza fra la situazione formativa ed i contesti socio-psicologici e culturali della dinamica aziendale e del lavoro è a volte troppo marcata. Rispetto a tale questione la formazione psicosociologica ha sviluppato una precisa consapevolezza che fa sì che gli interventi siano sempre meno orientati verso offerte ready made, e sempre più verso una approfondita negoziazione con la committenza che permetta la progettazione di pratiche pensate espressamente per la problematica posta a fondamento della richiesta di intervento, anche grazie ad attente procedure di analisi della domanda. L’opzione di progettare ad hoc gli interventi di formazione per assicurarsi apprendimenti pertinenti ed un soddisfacente tasso di trasferimento al lavoro di questi apprendimenti è stata inoltre negli ultimi anni ancora più avvertita a causa della specificità dei cambiamenti che hanno interessato gli scenari del lavoro, ormai richiedenti competenze caratterizzate dalla capacità di sapere rapidamente riconoscere, valutare ed affrontare problemi spesso imprevedibili, più che dal solo esercizio di procedure gestionali e modelli relazionali standardizzabili.
 L’outdoor mi è apparso come una delle migliori risposte possibili a questa esigenza formativa. Innanzitutto perché elimina del tutto la dimensione simulativa della formazione creando una situazione dove i concreti compiti da affrontare e le concrete relazioni da gestire nelle varie esercitazioni proposte dal formatore hanno come sfondo e contenitore uno scenario altrettanto concreto che conferisce al lavoro di rielaborazione che si svolge dentro l’esperienza un fondamento reale e non da immaginare come nelle esercitazioni d’aula tipiche della classica formazione psicosociale. Inoltre perché tutto questo determina una importantissima ed intensa messa in gioco, dentro il lavoro formativo, delle stesse attività mentali, cognitive ed affettivo-emotive insieme, e delle stesse attività sociali presenti nel lavoro trasformativo aziendale, e permette di ovviare anche alla necessità sempre più avvertita nei contesti del lavoro contemporaneo di realizzare apprendimenti ad alta velocità.
Nella esperienza outdoor il partecipante è totalmente coinvolto, completamente immerso (in particolare, verrebbe da dire, nell’outdoor subacqueo!) nella situazione reale che il formatore ed il suo articolato staff progettano, e deve confrontarsi con situazioni per lui nuove che richiedono di affrontare insieme al gruppo dei partecipanti problemi complessi e rispetto ai quali ha pochissime competenze tecnico-specialistiche. Non abbiamo qui lo spazio per approfondire i diversi obiettivi formativi specificamente perseguibili con l’outdoor, ma vorrei almeno citare in primo luogo l’acquisizione di flessibilità contingente e situazionale nelle modalità di espressione della leadership, e poi lo sviluppo della capacità di iniziativa, dell’autonomia, della fiducia in se stessi, nel gruppo e nella collaborazione, la scoperta e l’accettazione dell’importanza dell’apporto degli altri, del loro feedback, della cooperazione, ed infine, ma non certo per ultimo, lo sviluppo del coraggio di rischiare nell’affrontare i cambiamenti, le situazioni nuove, non ben definibili a priori, impreviste.

L’immersione subacquea con autorespiratore, cioè con le bombole e l’erogatore di aria, presenta in particolare alcune specificità che la rendono una tipologia molto particolare ed efficace di outdoor.

Se infatti requisito indispensabile di un intervento in outdoor è quello di porre i partecipanti in una situazione particolarmente sfidante perché nuova, inconsueta, profondamente diversa dagli abituali contesti organizzativi del proprio lavoro, l’immersione subacquea si caratterizza per il suo realizzarsi in un contesto così diverso addirittura rispetto alle condizioni basiche della nostra dimensione corporea, da non permettere la sopravvivenza senza l’uso di una adeguata ed efficiente attrezzatura. Questa dimensione appena citata crediamo che di per sé già permetta di intuire la potenza metaforica di questa esperienza: il nuovo, il cambiamento radicale, il profondamente diverso dal consueto, si pone come sfondo straordinario per il lavoro formativo su temi come la leadership, la membership, la comunicazione, il lavoro di gruppo in situazioni di forte cambiamento o comunque non ordinarie. Voglio inoltre sottolineare come l’outdoor subacqueo presenti un favorevolissimo rapporto fra straordinarietà dell’esperienza e relativa facilità della sua realizzazione, che richiede semplicemente di poter disporre di un centro immersioni vicino ad un buon albergo, cosa ormai molto facile da trovare.

 Aiutami a capire meglio a cosa ti riferisci quando parli di questi aspetti: come si svolge un outdoor subacqueo, in cosa vengono impegnati i partecipanti? 

Ho finora realizzato alcune sperimentazioni insieme ad uno studio di consulenza di direzione e formazione, lo studio Gae Gagliano di Catania, che ha creduto fortemente in questa mia intuizione e con cui ho condiviso l’impegno per la progettazione e la messa in opera di queste prime iniziative, dedicate al tema dell’empowerment personale, e con il quale, capitalizzata questa esperienza, abbiamo insieme messo a punto una metodica che ci convince molto.
Sulla falsa riga dei modelli di outdoor più tradizionali abbiamo organizzato delle esperienze della durata di tre giorni e mezzo, ovviamente residenziali, con partecipanti rigorosamente privi di pregresse esperienze di immersione con autorespiratore, fra i quali non pochi privi di familiarità con l’elemento liquido, ed alcuni addirittura un po’ timorosi dell’idea di immergersi.

Dopo una brevissima introduzione alla tecnica dell’immersione,  curata da istruttori brevettati che hanno poi costantemente garantito l’assistenza e la sicurezza durante tutte le immersioni realizzate a fini formativi, i partecipanti sono stati impegnati in attività complesse che richiedevano, sulla base di un preciso mandato formulato dai formatori (anch’essi subacquei brevettati), di realizzare dei compiti di gruppo e intergruppi sott’acqua, in immersioni alla profondità massima di 4-5 metri e della durata di 25-40 minuti, che richiedevano sempre un preliminare lavoro di programmazione ‘a secco’ in assetto di gruppo di decisione e di pianificazione, ed in una successiva approfondita rielaborazione della esperienza in assetto di gruppo di formazione.

Ogni esperienza, fra pianificazione, realizzazione in immersione e rielaborazione ha richiesto circa quattro ore di lavoro, per cui ne abbiamo realizzata una al mattino ed una al pomeriggio, mantenendo costantemente presente la dimensione di gruppo di lavoro ‘non simulativo’ anche mediante il pranzare ed il cenare insieme fra staff e partecipanti, e mantenendo costantemente un elevato livello di tensione positiva sul compito realizzando anche delle sessioni di lavoro serali nelle quali lo staff ha restituito i dati più significativi dei questionari che vengono somministrati subito dopo ogni esperienza e sono state proiettate le immagini più pregnanti delle videoriprese effettuate nel corso della giornata sia fuori acqua che in immersione. 

Così come in tutti gli outdoor più seri ed utili, grande importanza abbiamo dato al lavoro di rielaborazione della esperienza realizzata, durante il quale anche con l’aiuto dei feedback che i partecipanti si scambiano, in particolare su quegli aspetti dei comportamenti di gruppo ed organizzativi che quello specifico outdoor intende mettere a fuoco, ogni partecipante cerca di capitalizzare riflessioni ed apprendimenti spendibili nel proprio contesto di lavoro.
Abbiamo registrato risultati che sono andati anche al di là delle nostre aspettative e che hanno confermato la mia convinzione sulla potenza evocativa, metaforica, e poi trasformativa di questa esperienza, la sua capacità di attivare riflessioni su di sé, scoperta, forte autoconsapevolezza.
Voglio inoltre aggiungere che è di grande utilità realizzare poi, a distanza di circa uno-due mesi dall’outdoor, una mezza giornata di follow-up per verificare con i partecipanti l’utilità della esperienza e per realizzare un più efficace collegamento fra formazione e lavoro in particolare mediante la riflessione su eventuali circostanze lavorative che si sono rivelate occasioni per mettere in pratica i cambiamenti frutto della esperienza maturata dentro l’outdoor.
Dunque con la subacquea realizzi una forma particolarissima di outdoor, e questo amplia il ventaglio delle possibili tecniche di cui disponiamo.

 Ma ritieni che l’immersione abbia anche altre specificità che la differenziano dalle altre tecniche e che la rendono particolarmente adeguata o addirittura elettiva per particolari obiettivi formativi?

 È proprio così, sono infatti convinto che la subacquea permetta meglio di qualunque altra tecnica outdoor di perseguire alcuni obiettivi formativi che si affacciano solo ora alla nostra riflessione e che molto probabilmente diventeranno sempre più importanti nei prossimi decenni.

Mi riferisco in particolare al fatto che negli ultimi anni le organizzazioni hanno vissuto non solo una accelerazione dei tempi del cambiamento, ma anche una sorta di salto  qualitativo del cambiamento, perché inizia ad essere messa in discussione, in maniera molto diffusa e pervasiva, la capacità stessa delle organizzazioni di essere fonte di appartenenza e di identità per i propri membri. Ciò accade perchè sempre più spesso le organizzazioni si trovano a dovere ricercare i criteri della loro efficienza non solo nei parametri relativi alla espressione del core business, ma anche nella capacità di ridefinire i propri obiettivi e di negoziare con l’ambiente esterno il senso di questi obiettivi.

Un altro dei tanti fenomeni che, rispetto al mio riflettere sulla formazione, posso portare ad esemplificazione di questo salto qualitativo ha a che vedere con le sempre più marcate differenze intergenerazionali intraprofessionali: bastano ormai solo dieci-quindici anni di differenza nell’uscita dai canali formativi e nell’ingresso al lavoro perché persone chiamate a ricoprire lo stesso ruolo o posizioni afferenti allo stesso profilo professionale non si riconoscano più come simili perché portatori di culture di ruolo e professionali, di rappresentazioni organizzative molto diverse, al punto da rischiare la percezione reciproca di incompetenza ed il conflitto organizzativo e l’incomunicabilità intraprofessionale.
Tutto questo fa sì che le organizzazioni da un lato non riescono più ad offrire ai propri gruppi ed individui uno sfondo di riferimento culturale sufficientemente certo rispetto al quale articolare ruoli ed identità, e dall’altro si trovano a dover richiedere contestualmente ai propri membri un problematico sviluppo di autonomia decisionale ed operativa e di significative competenze negoziali e comunicative, problematico proprio perché non più fondato su cornici di riferimento stabili. All’insieme di queste tematiche, ed io ho fatto mia questa terminologia, si è dato il nome di problematica della estraneità, ed è stata chiamata competenza a convivere la nuova competenza organizzativa richiesta dalla presenza della estraneità. L’estraneità è l’esperienza dell’entrare in rapporto con situazioni, problemi, ruoli, clienti, rispetto ai quali l’adozione replicativa dei modelli conoscitivi e relazionali consolidati causa l’insuccesso; l’estraneità è l’imprevisto non significabile con cui siamo costretti ad entrare in relazione.
La competenza a convivere, cioè a trattare efficientemente con l’estraneità, richiede allora la capacità di rappresentarsi le diverse identità in gioco (compresa la propria) e le diverse possibili evenienze sociali del lavoro non in una dimensione naturalistica, ovvia, che condurrà a stalli comunicativi (personali, sociali, organizzativi, di culture) senza speranza di soluzione, bensì in una dimensione contestualistica o relativistica, perché solo questo potrà invece consentire relazioni orientate dal confronto e dalla disponibilità a lavorare insieme. È cioè sempre più importante che le persone diventino capaci di declinarsi nei contesti organizzativi operando mediante una sorta di difficile auto-relativismo culturale, da ottenere mediante la scoperta (non solo cognitiva, ma soprattutto affettiva perché è importante che sia riferita anche a se stessi e non solo agli altri) della dinamica interazione fra soggetti e contesti, della scoperta cioè che gli individui e le loro manifestazioni psicosociali non sono naturali ma emergono dai contesti socioculturali e dai vincoli che questi pongono allo sviluppo ed alle capacità espressive degli individui che ne fanno parte. Si tratta di obiettivi trasformativi di difficilissima realizzazione, a causa delle resistenze affettivo-cognitive dovute alla fisiologica tendenza a vivere e percepire la propria condizione come naturale ed ovvia. Si pone così con forza la necessità di una nuova frontiera, che potremmo definire post-psicosociologica, della formazione, e la costruzione di dispositivi di apprendimento di elevato coinvolgimento esperienziale capaci di attivare processi elaborativi che permettano di centrarsi sulle dimensioni contesto-vincolate dell’esperienza umana, rendendo visibile la forza di autoinganno inconsapevole della tendenza a percepirsi come ovvi, naturali, giusti. Ed è qui che la subacquea rivela per intero tutto il suo potenziale esperienziale e trasformativo. 

Puoi spiegarmi in che modo pensi che l’outdoor subacqueo permetta questo tipo di esperienza trasformativa e lo sviluppo di queste competenze? 

Per risponderti è necessario che io dica qualcosa sulle caratteristiche della dimensione di immersione in ambiente liquido, piuttosto che di immersione (perchè anche questa, poi si scopre, è una immersione!) in ambiente aereo.
Il mondo sommerso è un altro mondo, un vero e proprio altrove, dove alcuni fondamentali vincoli della vita ordinaria in ambiente aeroterrestre cambiano sensibilmente.
 L’elemento liquido è enormemente più denso dell’elemento gassoso nel quale viviamo; esso consente sì il passaggio dei corpi, ma si oppone alla forza di gravità permettendo una motricità completamente diversa da quella che abbiamo in aria: sott’acqua possiamo muoverci nello spazio lungo tutte e tre, e non solo due, le dimensioni che lo costituiscono, possiamo cioè andare non solo avanti e indietro o lateralmente, ma anche verso l’alto e verso il basso;  ue verso il basso possiamo scendere, senza precipitare e senza che sia necessario raggiungere una base solida, un fondale, per fermarci, perché possiamo restare sospesi a mezz’acqua, gestendo correttamente l’interazione dinamica fra il nostro corpo e l’ambiente acquatico. Proprio perché consente di entrare in un mondo altro, l'esperienza subacquea è poi una esperienza a fortissima valenza emozionale che, quasi di per sé, determina un enorme ampliamento del proprio spettro esperienziale e della propria flessibilità mentale, creatività e pensiero divergente, perché obbliga a interagire con l’ambiente secondo regole diverse da quelle ordinarie e perché permette di vivere una dimensione ambientale e corporea (quindi basica) del tutto nuova ed extra-ordinaria, al punto che molte persone riferiscono di sperimentare sott’acqua una sensazione di distanziamento totale dal mondo esterno, un trovarsi veramente altrove. 
Questa dimensione emozionante facilita inoltre l’acquisizione dei possibili apprendimenti, proprio perché si tratta di apprendimenti che vengono realizzati in una situazione di forte coinvolgimento e di totale implicazione corporea, cognitiva, sociale, emozionale, affettiva.
L’immersione subacquea si presta dunque fortemente ad essere adottata come situazione di apprendimento della competenza alla convivenza perché obbliga all’abbandono momentaneo delle regole della vita ordinaria per adottare regole altre ma idonee per una permanenza in un mondo dove non possiamo vivere naturalmente, ma solo con l’ausilio di adeguata tecnologia, e questo consente di allenare la propria capacità di essere coerenti con i contesti, al variare dei contesti, di aumentare quindi la propria elasticità cognitivo-affettiva e di imparare a relativizzare il proprio punto di vista.

È così possibile aggredire fin dai fondamenti la tendenza all’auto-percezione di naturalità, perché bisogna abbandonare il contesto  naturale di vita, entrando totalmente in un altro contesto e dovendo preparare, pianificare, realizzare concretamente questo entrare in un altro mondo. 

Facendo scoprire come sia falsa l’intima convinzione, di cui tutti implicitamente ed inevitabilmente siamo portatori, che la dimensione corporea prescinda dai vincoli di contesto, e facendo sperimentare direttamente come di naturale (addirittura in natura!) vi sia ben poco, il formatore ha a disposizione una potentissima metafora da offrire per riflettere sul relativismo delle diverse identità e rappresentazioni culturali che si confrontano nei contesti contemporanei delle organizzazioni.
Usando queste scoperte come premesse introduttive alla esperienza formativa, il formatore, per analogie e trasformazioni successive, e sempre tramite esercitazioni da realizzare in immersione, potrà poi rivolgere l’attenzione dei partecipanti sui temi formativi concordati, sui quali sarà possibile lavorare a partire dallo straordinario potere disarticolante ed attivatore di pensiero divergente delle consapevolezze maturate.

 In chiusura, per quali tipologie di partecipanti ritieni che sia più utile proporre un outdoor subacqueo? 


Non è una battuta: chiunque può beneficiare di un outdoor subacqueo!

 È il modo in cui la tecnica verrà, come si dice, vestita che deve essere adeguato al tipo di partecipante ed al tipo di apprendimento desiderato.
Le due grandi aree, che prima ho delineato, nelle quali l’outdoor subacqueo può essere utilizzato, quella dell’outdoor tradizionale e quella dell’outdoor per l’acquisizione della competenza a convivere, si prestano inoltre molto bene sia per iniziative lanciate dal formatore rispetto a generici obiettivi di empowerment e di sviluppo personale, che per interventi richiesti da singole aziende per i propri dirigenti o quadri su temi circoscritti e precisati in sede di negoziazione dell’intervento.

 Preciserei soltanto che un intervento particolarmente spinto sui temi della riflessione sull’auto-percezione di naturalità richiede al formatore precise competenze clinico-analitiche:

lavorare sulla persona nel suo complesso e sui dinamismi sui quali poggia la stessa identità significa far vivere ai soggetti coinvolti una esperienza che minaccia i bisogni di sicurezza e di stabilità di ogni individuo, e questo richiede appunto la capacità del formatore di ascoltare il soggetto (per l’appunto, clinicamente) nella sua esperienza di relazione dialettica ed ambivalente con le sue stesse possibilità di cambiare e di crescere.





Gaetano Venza:

psicosociologo e psicoterapeuta, è professore di Teoria e tecniche della dinamica di gruppo presso l’Università di Palermo.
Si occupa di formazione psicosociale e facilitazione del cambiamento organizzativo, in particolare per quanto riguarda la qualità dei servizi ed il benessere lavorativo.

E' coautore di Psicologia e psicodinamica dell’immersione subacquea (Franco Angeli).

 Più recentemente ha pubblicato: 'La qualità dell'Università. Verso un approccio psicosociale' e 'L’action research nei contesti organizzativi. Orientamenti ed esperienze', entrambi presso Franco Angeli.



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