Nel preparare questo saggio sulle dipendenze patologiche, ho ritenuto utile proporre preliminarmente alcune
riflessioni a partire dalla storia e dallo sviluppo dell’etimo di alcune
definizioni diagnostiche che in origine, come si vedrà, univano, forse
intuitivamente o in modo preconscio, conoscenze scientifiche che in seguito
hanno invece “vissuto separate” nei loro ambiti accademici per anni, per via della loro scarsa
conoscenza, fino a “convivere” e divenirci
più familiari oggi che le conosciamo di più. Le parole che usiamo per
descrivere la realtà, infatti, influenzano la nostra comprensione della realtà,
condizionano la nostra capacità di leggerla
e comprenderla, ci offrono un punto di vista, ma ne negano altri.
Nell’ambito
scientifico delle dipendenze patologiche, come sottolinea Di Petta (2004), si
sente il bisogno «di guardare, per la prima volta, da una
prospettiva unitaria e nuova ad ambiti patologici che fin’ora considerati per
sé hanno condotto in molti casi lontano dal cuore del problema e in altri casi
ad una vera e propria secca.(…) Si tratta della concreta possibilità di
re-istituire delle connessioni di senso tra ambiti che sono ricchi di omologie
e sinergie ma che per vari motivi sono finiti storicamente separati. Questo non
per ridurre il complesso al semplice ma per valorizzare e combinare dopo anni
di operatività distante, saperi e prassi».
Lo
studio scientifico delle dipendenze patologiche ha negli ultimi dieci anni
fatto passi da giganti. L’uscita dalle secche dell’impostazione sociologica
degli anni ’60, ’70 e ’80 ha permesso la riappropriazione e l’utilizzazione della
prassi diagnostica clinica che, a sua volta, ha condotto ad una notevole crescita
delle conoscenze sia dal punto di vista biomedico, sia da quello psicologico.
L’affermazione
di ieri, tanto cara anche a certa psichiatria italiana, che si è o malati
psichiatrici o tossicomani, appare ormai obsoleta e, soprattutto, non in grado
di fornire indicazioni euristiche ed operative, anche perché la scienza delle
dipendenze patologiche si occupa ormai da tempo di fenomeni come il gambling,
la dipendenza da internet, la dipendenza da sesso, che esulano dallo stretto
ambito delle tossicodipendenze e di cui non si occupa comunemente la
psichiatria istituzionale. La scienza delle dipendenze patologiche può a ragione
definirsi una scienza moderna proprio perché è, forse più della stessa psichiatria
classica, sintonizzata maggiormente sui mutamenti della psicopatologia
contemporanea. Si pensi, per esempio, all’alta prevalenza dei disturbi di
personalità nella casistica dei servizi delle dipendenze, ma anche all’alta prevalenza
di questi disturbi nella casistica della psicopatologia generale.
Oggi
più che mai la scienza delle dipendenze patologiche si avvale, mi si conceda la
licenza, di una “sua” psichiatria delle dipendenze, senz’altro più motivata,
interessata e preparata della psichiatria classica a cogliere il senso, la
natura e le evoluzioni del fenomeno .
Se
si va oltre la sua pura nominalizzazione, il termine “dipendenza”, più che
essere chiuso in sé ed autoreferenziale, appare indicare piuttosto un crocevia
di processi psichici e somatici non intuibili automaticamente, ma descrivibili
richiamandosi ad altri termini e ad altri percorsi della psicopatologia
clinica: impulsività, ossessività, compulsione, egosintonìa, egodistonìa, manìa,
narcisismo, dissociazione, alessitimia, psicopatia, personalità patologica.
Quello
che emerge da questa disamina è che, per esempio, i confini categoriali imposti
dalla quarta e ultima versione del DSM alla definizione dei quadri di
dipendenza patologica, che del resto non a caso risale al 1983, risultano, per
lo meno in parte, superati e non più in grado di cogliere la realtà proteiforme
di questi disturbi.
Etimologia di “addiction”
e di “dipendenza”
Come
sottolinea Canali (2002) in uno dei pochi lavori in letteratura di riflessione
epistemologica sul termine, «il concetto di
dipendenza è centrale nella ricerca e nei diversi approcci esplicativi. Ed è
forse per questo motivo che solitamente lo si considera chiaro e
inequivocabile. Al contrario, come per la gran parte dei termini ovvi, uno
sguardo solo meno superficiale rivela immediatamente la pluralità dei
significati, la misura della vaghezza e delle contraddizioni di questo concetto,
singolare commistione di elementi di carattere normativo, clinico e
farmacologico». Le incongruenze e la confusione sono così radicali che si
perpetuano sostanzialmente anche all'interno dei singoli modelli teorici di
dipendenza, come quello medico, quello sociale, quello comportamentale.
Formulato
per la prima volta nel 1793 da Benjamin Rush, padre della psichiatria statunitense,
il modello medico della dipendenza come malattia è supportato dalle
acquisizioni delle ricerche anatomiche, fisiologiche, neurofarmacologiche e
genetiche che stanno progressivamente svelando le basi biologiche di questa
condizione. Fondamentalmente, il modello medico spiega la compulsione alla
ricerca e all'uso di sostanze psicoattive (considerati sintomi primari) come
l'effetto di strutture e funzioni nervose rese patologiche da un uso prolungato
della sostanza e su cui il soggetto non ha più controllo. La compulsione qui,
diversamente che nel modello psichiatrico, è il risultato sul piano neuronale
di un comportamento patologico.
I
criteri per la dipendenza del DSM-IV ricalcano in larga parte quelli precedentemente
fissati dell'ICD-10. Quest’ultimo, tuttavia, enfatizza come «caratteristica
descrittiva centrale, (…) il craving, il desiderio (spesso forte, talora
soverchiante) di assumere la sostanza psicoattiva», tanto che
nell'ICD-10, “il senso di compulsione” al consumo rappresenta il primo criterio
diagnostico della sindrome da dipendenza». Secondo Canali
(2002), «entrambi i sistemi diagnostici non
definiscono esplicitamente il concetto di addiction, un termine fondamentale
nel dibattito sulla dipendenza e difficilmente traducibile in italiano. Questa
lacuna nelle definizioni è forse all'origine dello scarso consenso su ciò che
significhi realmente il termine “addiction” anche tra gli stessi psichiatri e
neuroscienziati. Esso così viene impropriamente usato al posto di “dipendenza”,
generando non poca confusione sia a livello teorico e della ricerca sia nella
messa a punto e nella pratica degli interventi e dei trattamenti.
Secondo il modello medico il termine addiction indica uno stato comportamentale caratterizzato da un coinvolgimento assoluto nell'impiego di una sostanza (uso compulsivo), nell’assicurarsi l'approvvigionamento della sostanza, e da un’alta tendenza alla ricaduta dopo la sua interruzione, mentre per “dipendenza” si deve intendere lo stato fisiologico di neuroadattamento prodotto dalla ripetuta somministrazione della sostanza, che necessita di continue somministrazioni per prevenire l'insorgenza di una sindrome d’astinenza. Questa è la distinzione che tutti i più autorevoli testi di psicofarmacologia rimarcano con enfasi. Sembra chiaro e molto semplice».
Secondo il modello medico il termine addiction indica uno stato comportamentale caratterizzato da un coinvolgimento assoluto nell'impiego di una sostanza (uso compulsivo), nell’assicurarsi l'approvvigionamento della sostanza, e da un’alta tendenza alla ricaduta dopo la sua interruzione, mentre per “dipendenza” si deve intendere lo stato fisiologico di neuroadattamento prodotto dalla ripetuta somministrazione della sostanza, che necessita di continue somministrazioni per prevenire l'insorgenza di una sindrome d’astinenza. Questa è la distinzione che tutti i più autorevoli testi di psicofarmacologia rimarcano con enfasi. Sembra chiaro e molto semplice».
Questa
sottolineatura dell’aspetto comportamentale condurrebbe in modo contradditorio
(cinque criteri su sette sono relativi a condizioni comportamentali) a quella
che Canali (2002) chiama «deriva del concetto di addiction, provocata
da alcune deprecabili frange della psichiatria contemporanea e dalle pressioni
di mercato visto che medicalizzare i comportamenti significa infatti anche (o
soprattutto?) vendere cure». Il concetto di
addiction avrebbe in tal modo subito un’inflazione stupefacente tanto da accomunare
sotto la stessa egida la sex addiction, il gioco d'azzardo, lo shopping
compulsivo, la dipendenza da lavoro, da Internet, dalla televisione, dal
fitness, dal cibo. Un esempio di questa tendenza, come si vedrà successivamente,
è rappresentato dal modello dimensionale proposto da Goodmann (1993) in stile
categoriale che riunisce per la prima volta tutte le dipendenze.
Sebbene
concordi con Canali (2002) nello stigmatizzare l’eccesso nell’uso del termine
“dipendenza”, penso che la preponderanza dei criteri comportamentali nell’inquadramento
nosologico medico della dipendenza rappresenti invece un lucido tributo
all’evidenza clinica (anche se di modello diverso) e la dimostrazione che il
fenomeno della dipendenza non possa essere affrontato e compreso con un solo
modello. Può infatti un modello, per mantenersi coerente, scotomizzare aspetti
evidenti e descrivibili consensualmente come quelli comportamentali? Penso anche
che, di fronte al vorticare di tante nuove etichette diagnostiche, sia lecito
chiedersi se il loro conio corrisponda ad un esclusivo bisogno nosografico e
sociale di classificare e controllare il comportamento o se esso rappresenti,
che è quello che ci interessa di più, un autentico progresso nella comprensione
del fenomeno e quindi sia un naturale epifenomeno di tale sviluppo di
conoscenza.
Sfogliando
i vocabolari italiano e inglese incontriamo queste definizioni:
Addiction:
dipendenza;
assuefazione: addiction to heroin, dipendenza dall’eroina; drug addiction,
tossicodipendenza;
passione;
mania; fanatismo.
Addict:
persona
dedita a un vizio; dipendente; -mane: drug addict, tossicodipendente;
tossicomane; heroin addict, eroinomane; (fam.) telly addict, videodipendente;
appassionato;
patito.
Dependance:
dipendenza;
(il) dipendere: our dependence on the phone, la nostra dipendenza dal telefono;
dependence on other, il dipendere dagli altri; alcohol dependence, dipendenza
dall’alcol.
fiducia;
(l’)
essere a carico (di qc).
Dipendenza:
latino
parlato: dependere, letteralmente “pendere in giù”, composto di de- e pendere;
condizione
di dipendente: in dipendenza di ciò, in conseguenza di ciò. Avere qualcuno alle proprie dipendenze,
essere datore di lavoro. Essere alle dipendenze di qc., lavorare in posizione
subordinata;
assenza
di autonomia nei confronti di persona o gruppo;
invincibile
bisogno psicofisico di assumere una determinata sostanza, spec. droga; cfr. assuefazione.
Dipendere:
v.
intr. “trarre origine, essere causato” (1304-08, Dante), “essere sottoposto
all’autorità, al potere altrui” (av. 1540, F . Guicciardini), “in sintassi, essere
retto, detto di caso o di complemento” (av. 1589, L . Salviati).
Dipendere:
v.
intr.
trarre
origine, costituire la conseguenza di determinate premesse, essere legato al
verificarsi di una condizione;
essere
sottoposto all’autorità di altri, essere subordinato alle decisioni di qc., al
contributo economico di qc.;
in
sintassi, essere retto, detto di caso, complemento o proposizione subordinata.
Indipendente:
Esente
da rapporti che implichino il riconoscimento o l’accettazione di motivi più o meno ufficiali di
subordinazione.
L’indipendenza
non significa fare a meno degli altri o vivere da soli, significa solo non essere
subordinati dove non serve.
Controdipendente:
Atteggiamento
reattivo compensatorio di natura narcisistica che consiste nell’assumere
atteggiamenti ribelli, antiautoritari, che mirano all’indipendenza in forma per
così dire “assoluta” e che nascondono un bisogno di dipendenza negato dal
timore di essere troppo in balìa del soggetto da cui si dipende.
Tossicodipendenza:
Stato
in cui cade un tossicomane abituale, che non può fare a meno di sostanze
stupefacenti.
«Il termine “tossicodipendenza”, come sottolinea Bignamini
(2003), è usato al di là, anzi soprattutto al di là dell’ambito tecnico ed ha
assunto nel linguaggio comune un significato ristretto che implica anche un
atteggiamento di giudizio valoriale e specifiche reazioni emotive negative(…).
La sua forza evocativa ne condiziona troppo il significato rendendo impossibile
diversi modi di pensarlo.(…). D’altro canto gli oggetti da cui si dipende non sono
tossici in sé stessi (si veda il gioco d’azzardo, la sex addiction) e la
dipendenza può essere definita dalle caratteristiche della relazione di un
soggetto con un oggetto (…); non è la sostanza quindi a definire la patologia
da dipendenza ma la relazione tra il soggetto e l’oggetto, la particolare
modalità di quella relazione.
La
dipendenza è una condizione patologica correlata ad un’alterazione del sistema
della gratificazione e ad una coartazione delle modalità e dei mezzi con cui il
soggetto si procura piacere caratterizzata da craving e da una relazione con un
oggetto-sostanza, situazione,comportamento, connotata da reiterazione e marcata
difficoltà alla rinuncia.
Secondo
Zucca Alessandrelli (2002) il termine anglosassone “addiction” ci fa pensare allo stato psichico di schiavitù, prima
che a quello fisico: «La
vittima, non solo subisce un impulso superiore alle sue forze di controllo, ma
è costretta a collaborare con la prepotenza di quest’impulso. Il termine comprende
sia la dipendenza coatta da varie sostanze (l’alcol, le droghe, i farmaci), sia
i cosiddetti “disturbi alimentari”, quali la bulimia e la sua rigida formazione
reattiva, l’anoressia, sia altri aspetti di dipendenza, come la cleptomania, i
tentativi di suicidio ripetuti, la compulsione agli acquisti, al gioco, al
sesso (… )». Nella lingua inglese, ci fa notare Zucca Alessandrelli (2002), il
termine “addiction” significa “inclinazione”, “dedizione”, in genere, in senso
spregiativo, come se volesse indicare un’inclinazione eccessiva a qualcosa.
Esso si è diffuso in tutti i paesi occidentali.
Il termine “addiction” indica quindi, come
da etimologia, il significato di schiavitù, di depersonalizzazione e di
sottomissione. Per quelle lingue in cui la traduzione letterale non come ad
esempio l’italiano in cui la parola “addizione” non può
affermarsi, si usa il termine inglese. I francesi se la sono cavata,appunto,
pronunciando alla francese il termine inglese.
È curioso il fatto che proprio noi
italiani, eredi del mondo latino, non possiamo usare un vocabolo derivato da
questa cultura. Il termine latino “addictio” è il sostantivo del verbo “addicere”
che aveva diversi significati. Tra i più importanti, vi era quello di dedicarsi
o abbandonarsi a qualcosa, come ad esempio alla vita pubblica o a una missione,
o ancora lasciarsi andare a uno stile di vita, a un comportamento, come, ad
esempio, alla vita monacale. Un altro significato era quello che noi, in italiano,
traduciamo con “attribuire”, nel senso di passare qualcosa sotto il nome di
qualcuno. È, infine, soprattutto importante quel significato che nel mondo
giuridico latino era “aggiudicare qualcuno a qualcun altro”, nello specifico la
persona del debitore al creditore, per cui “addictus” voleva espressamente dire
“schiavo per debito”. Forse per chi è vittima dell’addiction, più che “schiavo
per debito”, occorrerebbe dire “schiavo per credito”, vista la situazione delle
relazioni infantili in cui essa è cresciuta (Zucca Alessandrelli, 2002).
Per “addictio” bisogna intendere l’assegnazione
disposta dal magistrato del debitore insolvente al creditore insoddisfatto, ad
esito del vittorioso esperimento di un’apposita azione giudiziale da parte
dello stesso ultimo soggetto. La sussistenza nell’antico ordinamento giuridico
romano di simile istituto dimostra come la natura del vincolo obbligatorio sia
personale e non patrimoniale (come fortunatamente esso si connota in tutti i
sistemi legislativi contemporanei). In particolare, il creditore insoddisfatto
vincitore della lite ha facoltà, trascorsi trenta giorni dalla pronuncia della
sentenza senza che l’obbligazione sia stata adempiuta, di chiedere al
magistrato che abbia appunto accolto le proprie ragioni l’assegnazione del
debitore insolvente. Una volta perfezionata l’addictio, il creditore
assegnatario può tradurre il debitore assegnato nel proprio carcere personale e
tenervelo incatenato per un periodo di sessanta giorni; nel corso di tale
periodo, egli può altresì condurlo per tre giorni consecutivi nel mercato onde
consentire a chiunque di pagare il debito (e acquisire così la proprietà del
debitore) e, in assenza di rivendicazioni, scegliere se tenerlo come schiavo o
venderlo in territorio straniero o addirittura ucciderlo.
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