Questo lavoro si propone di gettare un ponte tra due realtà, la musica e la psicoanalisi di gruppo e di indagare su alcune delle dinamiche che intervengono nei gruppi di musicisti, nell’intento di analizzarle da un vertice analitico, ponendo come riferimento la teoria che ci viene offerta dalle grandi scuole di pensiero che si sono occupate di psicoanalisi di gruppo.
Persone.
Immaginiamo che sia pomeriggio, alcune persone si ritrovano per la prima volta nello studio di uno psicoterapeuta, per fare un’esperienza di analisi di gruppo; tra queste individuiamo diversi “tipi”: l’incerto, quello che ha sentito dire che è un’esperienza interessante, quello che ha paura o quello che è sicuro di non averne, l’incuriosito e così via. Nell’attesa dell’analista si chiacchiera, ci si presenta, qualcuno rimane in silenzio, nell’aria riecheggia un caleidoscopio di parole che attendono e che salvano i presenti da un silenzio ancora troppo “intimo”. Tutti hanno una motivazione che li ha spinti lì o, almeno qualcosa di “veramente troppo pesante” da digerire da soli e tutti, col tempo, avranno modo di esprimersi, di dar fiato alle loro voci, ai loro strumenti.
Contemporaneamente, in un’altra zona di Roma, si riunisce per la prima prova ufficiale un gruppo di giovani musicisti; tra questi scorgiamo tipi più o meno sicuri di sé, persone timide o “troppo aperte” pronte a tutto pur di allontanare l’inevitabile ansia da prestazione; alcuni socializzano, altri accordano in base a un fantomatico “la” che gira nell’aria, e tutti aspettano l’arrivo del leader che li ha convocati. Tra qualche minuto anche loro come i primi avranno la possibilità di esprimersi, di vuotare il sacco, di gettare nell’enorme calderone orchestrale tutte le loro sensazioni ed emozioni sotto forma di note.
Libertà
E’ proprio questa possibilità che hanno i due gruppi di esprimere, ognuno con i propri mezzi, “l’indicibile” che li unifica così tanto. Presto, infatti, quelli che W.R. Bion chiama elementi beta verranno fuori sotto forma di libere associazioni o di libere improvvisazioni.
Nei gruppi a finalità analitica S.H. Foulkes ha individuato una modalità comunicativa che ha chiamato discussione liberamente fluttuante, caratterizzata dal susseguirsi di frasi dette dai membri del gruppo in assoluta libertà e legate da un filo conduttore riconducibile ad una logica propria del gruppo stesso. I contenuti che queste “catene”esprimono e i modi in cui sono strutturate delineano l’andamento della seduta e soprattutto il “pensiero del gruppo”. Queste “discussioni”, che C. Neri (1995) definisce catene associative gruppali, sono anche caratterizzate da un clima estremamente tollerante e permissivo, in cui è anche concesso di allontanarsi in qualsiasi momento dall’oggetto della discussione, per esprimere i propri vissuti personali. Naturalmente l’origine di questo “modus communicandi” risale al metodo freudiano delle libere associazioni descritto nella Terza conferenza sulla Psicoanalisi del 1909 (OSF. Vol 6). Freud afferma che per ottenere dal paziente la rievocazione del materiale rimosso, bastava metterlo nella condizione di passività, di assenza di critica, di un abbandono al corso dei propri pensieri, non guidato da alcuna intenzione di ricerca e insieme di assoluta franchezza e di rinuncia, perciò, ad ogni riserva comunicativa. Egli chiamò
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Einfalle i singoli elementi ideativi che in tal modo appaiono via via al soggetto. Einfall significa, infatti (in senso figurato) l’idea che viene subitamente in mente. Egli usò pure indicare questo materiale ideativo come materiale associato dal soggetto, e le situazioni stesse durante le quali questo materiale viene evocato col termine di associazioni, o associazioni libere, in quanto non vincolate da un compito intenzionale particolare (cfr. C. Musatti 1957).
Allo stesso modo, in musica esistono delle situazioni in cui i componenti di un ensamble hanno la possibilità di “dire la loro” prendendo spunto da un argomento deciso a priori: questi momenti di particolare soddisfazione per ogni buon musicista prendono il nome di “jam-session”. L’origine di queste “pratiche” è da collocarsi nell’America razzista degli anni ’20; in quel periodo chiamato la “swing era” orchestre come quella di Kid Ory (in cui militava un giovane e tartassato cornettista chiamato Louis Armstrong) suonavano musica da ballo nei numerosi locali per soli bianchi di Manhattan. Alla fine delle loro serate, però, molti musicisti si riunivano nei “localacci” malfamati di Harlem, per dare sfogo alla loro creatività ingabbiata fino a qualche minuto prima in partiture piene di “obbligati”, in cui era inevitabile rivedere un destino che, però proprio grazie alle “jam” avrebbe subito un cambiamento piuttosto repentino. Quest’abitudine si diffuse così tanto da dare vita ad un vero e proprio nuovo movimento musicale: il “be-bop”. Spesso i nuovi “prodotti” musicali erano introdotti proprio da quei temi che i neri erano costretti a suonare tutte le sere ai quali, però, seguivano improvvisazioni che avevano il sapore della rivalsa e che quindi stravolgevano quasi del tutto gli “originali”.(cfr. W. Mauro 1994)
Questa era l’origine ufficiale dell’improvvisazione; quella ufficiosa, probabilmente nasce molti secoli prima: a questo proposito W. Hildesheimer (1977) racconta che il giovane Mozart era solito, durante le sue escursioni notturne nei locali dei bassifondi di Strasburgo, stravolgere improvvisando la melodia e talvolta anche la struttura armonica delle proprie composizioni, per distogliersi dallo stress che gli era causato dalle continue commissioni provenienti da tutte le corti europee.
Risonanza
Catene associative e libere improvvisazioni non sono che le prime vere forme di interazione che troviamo nei gruppi precedentemente descritti; esiste un fenomeno fisico che riportato nei nostri due gruppi permette ai componenti di sperimentare un grosso coinvolgimento affettivo ed emozionale durante queste interazioni: stiamo parlando della “risonanza”. C. Neri in Gruppo(1995) riporta che detto fenomeno è stato scoperto da Helmoutz intorno al 1862; egli apprese che un sistema fisico può essere messo in vibrazione con una frequenza anche molto lontana dalla sua; quando la frequenza eccitatrice raggiunge quella naturale, il sistema è detto “in risonanza”. Questo fenomeno, che lo stesso Helmoutz estese successivamente all’ottica ed all’elettromagnetismo, è riscontrabile anche nei gruppi di musicisti e in quelli a finalità analitica.
In questi ultimi la risonanza è alla base del lavoro di gruppo: essa è utile all’individuo perché lo aiuta nel duro processo che lo condurrà verso il “gnwvti sj eautojn” e l’onestà intellettuale. Questa autoconsapevolezza, che è un’immediata conseguenza del rafforzamento della struttura dell’Io è favorita da quello che S.H.Foulkes chiama effetto specchio. Questa condizione fa sì che l’individuo vede se stesso perché vede gli altri che, con lui, interagiscono. Spesso capita che il soggetto vede reagire il gruppo nello stesso modo in cui lui stesso reagisce; “impara così a conoscere se stesso attraverso l’azione che esercita sugli altri e attraverso l’immagine che essi si fanno di lui” (S.H. Foulkes, 1964 p. 123). Del resto il meccanismo che sottende alla funzione specchio trova radici estremamente primordiali anche nel comportamento dei bambini: questi interagiscono con i coetanei o con gli adulti adottando spesso un paradigma del tipo “mi rispondi quindi esisto”. (cfr. D.W. Winnicott 1971 p. 189)
In musica il concetto di risonanza è veramente molto comune, un suo sinonimo molto usato nell’ambiente è “simpatia”: si dice, infatti, che le due pelli di un tamburo (quella superiore e quella inferiore) suonino ambedue per simpatia, benché se ne percuota una sola. Se noi consideriamo un
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tamburo come un sistema chiuso formato da vari elementi e consideriamo la vibrazione prodotta dalla pelle superiore un messaggio, noteremo che le altre componenti del tamburo, all’arrivo della vibrazione, risuonano arricchendo il risultato finale. Nei gruppi di persone capita esattamente la stessa cosa: le onde sonore veicolano un messaggio al quale, nell’ambito di un “sistema emotivo” è impossibile non rispondere. Partendo dal presupposto (di cui si tratterà più avanti) che in un gruppo di musicisti nel momento espressivo si instauri un collegamento emotivo, è impossibile negare che, allorquando si presenta un chiaro messaggio saturo di altrettanto chiari contenuti, si possa creare un meccanismo di risposte concatenate a quel determinato stimolo. Detto fenomeno è molto facile da apprezzare durante un concerto di jazz: capita spesso, infatti, che durante l’improvvisazione di uno dei componenti, il gruppo in toto risponda a tono ad una precisa intenzione del solista: ad un calo di intensità espressiva spesso corrisponde un calo, ad un aumento un aumento senza che ci siano stati accordi preliminari e naturalmente senza che il gruppo ingombri lo spazio riservato a chi improvvisa. Mi sembra evidente che in questi casi si instaura un “effetto specchio” molto simile a quello dei gruppi a finalità analitica perché il musicista che, esprimendosi, ottiene una risposta risonante, rinforza il suo Io narcisista e nello stesso momento fa un ulteriore passo verso la conoscenza di sé, delle sue capacità comunicative ed espressive in gruppo.
Fenomeni transpersonali
Claudio Neri individua, nei piccoli gruppi a finalità analitica, tre tipi di fenomeni transpersonali:
L’atmosfera o “tono di fondo” della seduta;
Il medium;
Gli effetti della mentalità primitiva e degli assunti di base;
Detti fenomeni, interagendo, danno vita alle dinamiche di cui si nutre quel livello di funzionamento del gruppo che Bion chiama gruppo di lavoro e cioè quell’interazione cosciente e finalizzata al cambiamento che dà vita al lavoro di gruppo.
“L’atmosfera o tono di fondo della seduta”
L’atmosfera o tono di fondo della seduta è costituita da tutte le emozioni, le sensazioni cui il gruppo stesso dà vita nell’ambito di una seduta d’analisi; essa, naturalmente può essere influenzata da uno qualsiasi dei componenti del gruppo, che portando contenuti nuovi e, in un certo senso, destabilizzanti, può introdurre elementi stimolanti l’interazione gruppale. Un esempio atto a chiarire il concetto ci viene fornito da Bion nel secondo capitolo di “Esperienze nei gruppi” (1961): egli riporta l’intervento di una paziente che, stanca della solita “atmosfera” che ha caratterizzato le ultime sedute, ha un’esplosione piuttosto aggressiva. Questo tono, con il quale la paziente si rivolge al gruppo, oltre ad avere la classica funzione di difesa primordiale, inevitabilmente inserisce nell’ambito del gruppo, quell’elemento nuovo che potrebbe cambiarne “l’atmosfera”. Il testo di Bion recita così: “Voi (cioè il gruppo) non fate che dire che io tengo banco, ma se non parlo io ve ne state lì come mummie. Ne ho fin qui di tutti voi. E lei (rivolgendosi ad un uomo di ventisei anni che inarca le sopracciglia in ben riuscito atteggiamento di sorpresa) è il peggiore di tutti. Perché sta sempre lì seduto con l’aria del bravo bambino che non dice mai nulla, ma dando fastidio al gruppo? Il dott. Bion è l’unico che venga ascoltato, anche se non dice mai nulla di utile. E va bene allora, starò zitta. Vediamo che fate se io non tengo banco”.
Da questo esempio si evince che l’atmosfera o tono di fondo può modificare percezioni, stati d’animo ma può anche essere modificata dagli stessi elementi da cui è composta, e cioè le emozioni che ogni componente ha nei confronti di un altro, del gruppo in toto, che, come ritiene Foulkes, provengono dal modo in cui il singolo si relaziona al proprio contesto sociale (cfr. Foulkes 1969).
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In musica dobbiamo innanzi tutto distinguere l’atmosfera di una seduta di prove da quella di un concerto; i vissuti che caratterizzano queste due situazioni, sono, infatti, comprensibilmente diversi.
Una seduta di prove in genere è caratterizzata da modalità relazionali più o meno standard che causano atmosfere che possono apparire all’osservatore esterno (che non è mai ben accetto, anche se si tratta di un parente) anche divertenti ed assai curiose.
Dal punto di vista delle relazioni interpersonali spesso succede che in ogni complesso si producano situazioni per cui uno dei suoi componenti, e non necessariamente quello più esperto, il più vecchio, il più qualificato, il più rompiscatole, il più verboso venga ad assumere funzione di pilota, di grillo parlante; un altro componente il ruolo di vittima perpetua delle altrui prepotenze ed ironie; un altro, infine, si auto-investa della qualifica di alfiere del “tiramo a campà”. Naturalmente tutto ciò può cambiare con, ad esempio, l’introduzione di un nuovo membro alla quale può seguire una riscrittura dei “ruoli” ed un conseguente cambio d’atmosfera.
Dal punto di vista del lavoro del gruppo occorre distinguere fra due tipi di sedute di prova nelle quali, inevitabilmente osserveremo atmosfere diverse: “ci sono prove di cura del dettaglio, in cui si fanno le pulci a semibiscrome, quintine e doppi bemolli, e prove di sintesi e di ricapitolazione, dove non ci si deve fermare per nulla al mondo, come in concerto, allo scopo di valutare e regolare la propria capacità di resistenza, concentrazione, slancio poetico” ( B. Canino 1997 p. 109).
Tutte e due le atmosfere possono essere influenzate o modificate da fattori individuali o riconducibili al gruppo come entità a sé. Cosa succederebbe, ad esempio, se in una seduta finalizzata alla ricerca dei particolari, e quindi caratterizzata da una tensione di fondo già molto alta, un componente riversasse all’interno del gruppo un ulteriore dose di tensione, magari proveniente da vissuti personali? Accadrebbe che quella tensione necessaria alla “vis” musicale, per riferire le parole del maestro A. Persichilli1, raggiungerebbe livelli
insopportabili e finirebbe per ottenere un effetto inibente, assolutamente controproducente ai fini del lavoro di gruppo.
Ricorro a questo punto ancora ad un passaggio dell’intervista al maestro Persichilli per descrivere l’atmosfera di un concerto ed il modo in cui essa può mutare: “Il momento dell’esecuzione in pubblico è sempre caratterizzato da una grande tensione all’interno di un’orchestra; direi che, questo tipo di atmosfera è addirittura indispensabile per una buona esecuzione. Si tratta di una sorta di aura che gravita sull’orchestra, di un’aria che si respira tra i componenti; un qualcosa di estremamente potente ma altrettanto fragile. Con questo non voglio dire che qualsiasi evento possa completamente cambiare questa atmosfera, che è frutto di giorni e giorni di prove insieme, ma di sicuro essa può essere arricchita da nuovi elementi provenienti anche dal di fuori e portati all’interno da uno dei componenti. Il mio ricordo vola al quintetto di fiati che costituii nel 1968 con le prime parti dell’orchestra di S. Cecilia: ricordo che in quel gruppo eravamo tutti molto affiatati ed affettivamente legati, e bastava che uno di noi stesse attraversando un momento di particolare stress emotivo, perché tutti gli altri ne fossimo coinvolti e naturalmente il suono prodotto ne risentisse. A quel punto, però avveniva un qualcosa di magico per cui il singolo componente beneficiava dell’energia che il gruppo esprimeva durante l’esecuzione e si ricaricava lasciandosi trascinare dall’impeto del discorso musicale”. Quest’ultimo intervento del maestro Persichilli è utile a chiudere il discorso sull’atmosfera di fondo aperto con l’esempio tratto da Esperienze nei gruppi; è stato possibile evidenziare, infatti, l’esistenza di diversi elementi in comune tra le due atmosfere; con un’ immagine ancora più felice si potrebbe parlare di un unico tipo di atmosfera che sottende alla produzione di suoni diversi, il tutto considerato in un’ottica tesa al divenire, mai stabile, in continuo cambiamento.
“Il Medium”
1 Il maestro Angelo Persichilli, flautista, ha suonato ad altissimi livelli per circa cinquant’anni: oltre ad aver fondato numerosi complessi cameristici dal successo internazionale, è stato primo flauto dell’orchestra dell’accademia di S. Cecilia all’incirca dal 1957 al 1997, anno del suo ritiro. Oggi il maestro unisce all’attività concertistica cui non ha saputo rinunciare, l’attività di coordinatore e direttore artistico di scuole e corsi di specializzazione per strumenti a fiato.
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Nel 1766 un chirurgo inglese che aveva viaggiato in Italia, Samuel Sharp, pubblicò Letters from Italy, resoconto assai pungente sui nostri costumi di allora. Egli, tra l’altro, descrisse le stravaganti abitudini dei nobili napoletani allorquando si riunivano al teatro San Carlo per ascoltare della musica. Ecco come descrive gli avvenimenti e l’ambiente che caratterizzava un’esecuzione: “…Vi è chi sostiene che si potrebbe benissimo udire i cantanti (nell’immensa cornice del teatro) se il pubblico se ne stesse più silenzioso, ma è talmente di moda a Napoli ed in tutta l’Italia di considerare il teatro come un luogo di rendez-vouz o per scambiarvi le visite, che invece di occuparsi della musica, tutti ridono e parlano come se fossero a casa loro… usano i signori napoletani correre da un palco all’altro durante gli intermezzi: ciò fanno pure durante la rappresentazione…quel che in ciascuna città italiana abbuia i teatri e li fa pur malinconici è l’abito d’illuminare soltanto la scena…e penso che l’abituale scarsezza d’illuminazione avvenga perché proprio non si vuol sciupare troppi quattrini in candele di cera…a proposito degli inconvenienti cui da luogo l’ampiezza del teatro, uno de’ più gravi di essi: quando soffia il vento ci si crederebbe addirittura nella strada: spesso si riportano a casa dal teatro un raffreddore o la febbre”(S. Sharp 1766, cit. in FMR n. 59) . Gran chiasso, luci fioche ed addirittura freddo e vento, quindi, erano i primi elementi contro i quali si scontravano le giovani note dell’orchestra; il suono, prima di arrivare al pubblico doveva attraversare uno “spazio” che inevitabilmente lo trasformava caratterizzandolo. A noi un ambiente del genere potrà sembrare assolutamente degenere ed inadatto alla musica, soprattutto quella classica2, ma se ci caliamo per un momento nell’atmosfera dell’epoca, in cui tutte le rappresentazioni erano così caratterizzate, possiamo immaginare che la capacità umana di adattamento abbia fatto sì che non solo quell’ambiente fosse da tutti tollerato (musicisti inclusi!), ma che, probabilmente, senza quel tipo di atmosfera non si sarebbero create le condizioni per un esito positivo della rappresentazione. Ciò avrebbe potuto condurre verso un calo di interesse ed un conseguente calo di produzione che invece, al contrario, assunse connotati massimi proprio in quel periodo: a questo proposito Francis Haskel, descrivendo quel periodo storico scrive: “La musica italiana si ascoltava da un capo all’altro d’Europa: a San Pietroburgo si metteva in scena il Barbiere di Siviglia di Paisiello, a Vienna il Matrimonio segreto di Cimarosa, a Parigi la Medea di Cherubini, a Madrid si ascoltavano i quartetti d’archi di Boccherini…” (F. Haskell 1987, in FMR p.58).
La musica prodotta, quindi, era “composta” dalle note e dal mezzo attraverso il quale e nonostante il quale si diffondeva; il prodotto era assolutamente inscindibile dall’ambiente in cui era reso fruibile e probabilmente un’operazione in tal senso avrebbe rappresentato una rivoluzione assolutamente intollerabile per gli spettatori ed i musicisti dell’epoca3.
Allo stesso modo, facendo un salto nel contesto gruppo-analitico, M. Mc Luhan (1977, pagg. 25-30) afferma che i mezzi (media) attraverso cui avviene la comunicazione non sono mai neutri rispetto alla comunicazione stessa, ma al contrario la influenzano profondamente. A volte, anzi, l’impatto di un medium sovrasta quello del contenuto che dovrebbe veicolare: “ il medium è il messaggio”. Non a caso W. R. Bion nell’introdurre la descrizione di un suo gruppo scrive: “ il gruppo è formato da quattro donne… l’atmosfera è di buon umore…la stanza è piacevolmente illuminata dalla luce del tramonto” (W.R. Bion 1971, p. 58).
In effetti, il fatto che in una stanza ci sia più o meno luce, che questa sia prodotta da calde lampadine dalla luce gialla o da freddi neon, che vi sia più rumore o meno rumore proveniente dall’esterno, o infine, che ci siano condizioni acustiche di maggiore o minore assorbimento della voce, sono tutti fenomeni che caratterizzano l’interazione gruppale. Tali condizioni che, come è
2 In realtà nel diciassettesimo secolo non esisteva la superflua distinzione “moderna” tra musica classica, e gli altri generi musicali ; questa pratica, evidentemente indispensabile quando assume valori connotativi, diventa ugualmente disprezzabile quando asserve una certa abitudine discriminativa che, con gli anni, ha reso la “classica” poco fruibile ed elitaria.
3 Per intenderci, sarebbe come ascoltare la registrazione su vinile dei Notturni di F. Chopin ad opera dell’ineguagliabile Rubinstein, senza quel crepitio caratteristico dei dischi che li rende ancora più affascinanti.
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intuibile, possono indurre sensazioni di calda accoglienza o di freddo distacco sono da considerarsi, secondo C. Neri, di assoluta importanza relativamente alle dinamiche intervenienti a livello del gruppo stesso. Ancora C. Neri (1995, p. 41) spiega che “quando tali cambiamenti sono lenti, vi è una maggiore possibilità di adattamento, e che quando tali cambiamenti sono rapidi il risultato è che l’area del rapporto percettivo relativa a quel medium diviene torpida e parzialmente anestetizzata. Quest’area percettiva può addirittura venire esclusa dalla consapevolezza”.
Questa naturale difesa dell’individuo è riscontrabile anche nei gruppi musicali che si trovano a suonare in condizioni acustiche o di luminosità assolutamente proibitive; a questo proposito il maestro Arnaldo Apostoli4 ci ha dichiarato che: “ Le condizioni acustiche e di luminosità di una sala da concerto sono assolutamente determinanti per la produzione e per la fruibilità dell’espressione musicale; se la luce è troppo bassa o accecante, se l’acustica disperde il suono a tal punto da non permettere ai componenti di avere un “ritorno”degli altri strumenti
indispensabile all’interazione, è facile intuire che il prodotto finale ne uscirà profondamente segnato. Naturalmente in questo caso si va comunque avanti e si instaura un meccanismo che permette al musicista di adattarsi alle condizioni in cui si trova; è come se ci si dimenticasse del problema almeno momentaneamente visto che si è comunque obbligati professionalmente al compimento dell’opera. Il risultato, però, viene inevitabilmente compromesso così come viene compromesso l’umore dei musicisti”.
L’unica cosa che mi sento di aggiungere, a questo punto, è che, evidentemente anche “in medium stat virtus”.
Gli effetti della mentalità primitiva e degli assunti di base
La mentalità primitiva è un fenomeno che si produce quando più persone si riuniscono in gruppo. Così come negli individui vi sono aspetti regrediti ed aspetti evoluti della personalità, anche nel gruppo vi è una mentalità regredita (che corrisponde in qualche misura al gruppo-massa descritto in Psicologia delle masse e analisi dell’Io di Freud) e una mentalità evoluta (di cui è testimonianza, per esempio, la capacità di cooperare in vista del raggiungimento di un fine). Questa mente inconscia di gruppo, che è il risultato e il contenitore dei contributi anonimi dei singoli partecipanti, comporta la tendenza a dare risposte automatiche non filtrate dall’Io; questa è una dimensione dalla quale è difficile non farsi coinvolgere completamente proprio perché governata esclusivamente dall’inconscio. Quanto più il gruppo funziona secondo la mentalità primitiva, tanto più può limitare la libertà delle persone, richiedendo che si adeguino ad un certo funzionamento collettivo. Un adeguamento che viene richiesto sia nel pensiero (attraverso l’eliminazione dei pensieri dissonanti), che nelle emozioni.
Se la mentalità di gruppo era considerata un recipiente o contenitore di tutti i contributi dei membri, il concetto di assunto di base ci fornisce informazioni per quel che riguarda il contenuto di questa opinione comune e anonima del gruppo in un dato momento, approfondendo la nostra conoscenza dei fenomeni emotivi nei gruppi.
Gli assunti di base rappresentano i meccanismi di difesa del gruppo e svolgono la funzione di mantenere sotto controllo le ansie primitive scatenate dal partecipare al gruppo. La loro esistenza condiziona largamente il tipo di organizzazione che il gruppo si dà e determina il modo in cui si affronta l’obiettivo da realizzare. E’ da sottolineare che tali impulsi emotivi fondamentali sono caratterizzati dall’irrazionalità del loro contenuto e posseggono una grande forza che si manifesta nel comportamento del gruppo. In quanto meccanismi di difesa essi sono inconsci e spesso risultano
4 Il maestro Arnaldo Apostoli è uno dei sei violinisti della formazione cameristica “I Musici”. Questa orchestra da camera, assolutamente anomala per la numerosità dei suoi componenti (sono ben dodici), e per l’attaccamento degli stessi al gruppo (l’ultimo elemento che è cambiato risale a circa vent’anni fa), da cinquant’anni suona in tutti gli angoli della terra, tenendo altissimo il nome dell’Italia e riscuotendo enormi successi e consensi a livello mondiale.
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contrari alle opinioni razionali dei partecipanti. Bion ha individuato tre assunti di base: dipendenza, attacco-fuga, accoppiamento.
L’assunto di base di dipendenza è caratterizzato dalla convinzione che ha il gruppo di essere riunito in funzione del terapeuta, dal quale si attende tutto e che provvederà a soddisfare tutti i desideri e le necessità. C’è la credenza collettiva di un nume protettivo, la cui bontà, saggezza e potere sono fuori discussione. Quando predomina l’assunto di dipendenza la rete di comunicazione nel gruppo sembra passare attraverso il terapeuta, al quale vengono poste le diverse domande nella speranza che egli dia qualche risposta.
Quando domina l’assunto di base di attacco-fuga, il gruppo sembra avere la convinzione che esista un nemico dal quale bisogna difendersi attaccando o da cui è necessario fuggire. E’ come se l’oggetto cattivo fosse visto all’esterno e l’unica attività difensiva di fronte ad esso sia distruggerlo (attacco) o evitarlo (fuga). Secondo Bion entrambe le modalità rispondono alla stessa dinamica motivazionale, vale a dire ad una fuga difensiva nell’attività per la propria salvezza. La scelta dell’uno o dell’altra sarebbe dovuta a fattori incidentali, nel senso che il gruppo, per soddisfare il bisogno emergente, coglie la prima possibilità che gli si presenta.
Infine il terzo assunto di base, l’accoppiamento, consiste nella speranza che due persone insieme o uno scelto sottogruppo porteranno ad una soluzione dei problemi attuali, sull’analogia dell’accoppiamento e del produrre un figlio prodigio. Si tratta di una speranza irrazionale di tipo messianico, che permette di accantonare i problemi e le necessità attuali del gruppo in vista di un avvenimento futuro. In questo stato emotivo, infatti, ciò che è importante è l’idea del futuro e non la risoluzione dei problemi nel presente.
In un gruppo musicale non è difficile verificare l’esistenza prima di tutto di una mentalità primitiva (considerato che essa si compone di fenomeni che Freud ha esteso a tutte le forme di aggregazione umana), e soprattutto degli assunti di base così come li ha descritti Bion.
La mentalità primitiva, in musica, è facilmente riscontrabile ogni qual volta un gruppo si riunisce e suona interpretando con la medesima intensità brani ai quali si avvicina in prima lettura; a mio avviso questa interpretazione armonica potrebbe essere il frutto di una κοινή di risposte automatiche, che partendo dallo stimolo “partitura”, si susseguono l’una elicitata dall’altra, tutte concatenate e caratterizzate da una mancanza di filtri egoici. I confini strutturali dell’Io si assottigliano, diventano porosi ed in tal modo gli incosci si fondono a favore di un nuovo incoscio collettivo che inevitabilmente avrà regole nuove ed una nuova coerenza che spesso non coincide con quella dei singoli partecipanti al gruppo.
Sono arrivato a questa conclusione assistendo ad una prova di un duo molto promettente, il duo Apostoli- De Lorenzi8. Questi due musicisti affrontavano per la prima volta un tango di Astor Piazzola, ma dalla perfetta sincronia con cui interpretavano i numerosi “colori”9, dosandoli in maniera pressoché identica, sembrava che conoscessero il pezzo già da tempo. In realtà non era così; in effetti la partitura aveva fornito lo spunto per un collegamento emotivo, assolutamente indispensabile ad una produzione musicale sensata in un gruppo di musicisti. Il messaggio musicale prodotto, infatti, per avere una rispondenza emozionale da parte dei fruitori, siano essi pubblico o i musicisti stessi che lo producono, deve, a mio avviso, scaturire da una fonte comune, armonica e preponderante sul singolo elemento che ne contribuisce alla costruzione. Questo processo che ho appena descritto è quello che ho potuto osservare nel corso della prova. Era evidente, infatti, che motivati dal fine comune (gruppo di lavoro) i due musicisti, senza avvedersene, hanno sacrificato le loro individualità interpretative a favore di una nuova individualità gruppale, indispensabile
8 Il duo composto da Andrea Apostoli (flauto traverso) e Massimo de Lorenzi (chitarra) nasce nel 1994 e da allora si è messo in luce in numerosi happening nazionali ed internazionali.
9 Il “colore” nel linguaggio dei musicisti indica l’intensità sonora e quindi espressiva con la quale, secondo l’autore, andrebbe affrontato un determinato brano. Di solito le indicazioni di questo tipo sono presenti nella partitura al di sotto delle note ed indicate così: pp=pianissimo, p= piano, mf= mezzo forte, f= forte, ff= fortissimo e così via; naturalmente però, l’intensità di un colore può variare da musicista a musicista e, spesso, una delle qualità più apprezzate artisticamente è proprio questa personalissima ricerca interpretativa che fa la differenza tra un bravo musicista ed un genio.
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all’acquisizione di parametri espressivi nuovi e compatibili con la finalità armonica del prodotto finale. Se gli inconsci dei due musicisti non si fossero fusi insieme, non ci sarebbe stata un’armonia finale; ognuno, infatti, avrebbe interpretato a modo suo i vari “crescendo”, “diminuendo”, “piano” o “fortissimo” con il risultato di una totale disarmonia espressiva. Avremmo costatato che, come è inevitabile, il “piano” del flautista avrebbe sovrastato quello del chitarrista, o forse sarebbe stato il contrario; l’effetto finale sarebbe stato di sicuro non armonico, ci sarebbe stata la preponderanza di uno strumento sull’altro e così via. Per descrivere in maniera metaforica ciò che invece è accaduto mi piace, a questo punto suggerire un’immagine al lettore: il prodotto finale di quella prova si potrebbe assimilare ad un fiotto d’acqua che ha finalmente avuto la forza di risalire in superficie perché risultato dell’incontro di due fonti sotterranee che, mescolandosi hanno sicuramente perso le loro caratteristiche primordiali, ma hanno acquistato il vigore necessario per oltrepassare il muro che li divide dall’esterno.
Posta quindi come “conditio sine qua non” dell’espressione musicale di gruppo, la creazione di un inconscio gruppale, è inevitabile osservare fenomeni che ne sono strettamente correlati. Nel corso della mia indagine, a questo proposito, mi sono imbattuto in episodi che sono a mio avviso identificabili con quelle particolari dinamiche di gruppo che Bion ha chiamato assunti di base.
In particolare, mi è capitato di osservare che in un’orchestra sinfonica, non di rado a situazioni difficili si risponde con l’assunto di base di dipendenza che, per definizione inibisce il lavoro del gruppo o, quanto meno ne rallenta lo svolgimento.
In questo caso, naturalmente il “nume” dal quale si dipende ed al quale si affidano le sorti del gruppo è il direttore, che deve organizzare e guidare la formazione10. Questo personaggio, come è prevedibile, viene fatto oggetto di idealizzazione; il problema sorge quando questa idealizzazione serve all’orchestra per demandare al direttore ogni responsabilità di un eventuale momento d’impasse o di insuccesso del gruppo. Questo è il momento in cui si smette di credere nelle possibilità del gruppo e ci si affida completamente a questa figura che, in un certo senso, essendo idealizzata viene distanziata dal gruppo e, di conseguenza, può anche essere attaccata e contestata. “Questo capita molto spesso, in tutte le formazioni orchestrali e soprattutto con i direttori stabili, perché, naturalmente, il rapporto con un capo di passaggio è tollerato meglio di quello con uno stabile” ci ha dichiarato il maestro Persichilli.
A me, al di là delle interpretazioni più evidenti (e, di certo, non di minor valore) piace vedere, in questo rapporto sicuramente connotato da ambivalenza, un origine arcaica: così come gli adolescenti, ancora dipendenti dal padre, avvertendo questa dipendenza, scalpitano con rabbia e non perdono occasione per agire la propria diversità, magari con distacco e denigrazione, i componenti dell’orchestra, allo stesso modo, denigrano più o meno velatamente ed osteggiano il direttore-padre con la stessa forza con la quale sentono di esserne dipendenti. Naturalmente il sentimento di dipendenza il più delle volte rimane sommerso nelle profondità dell’inconscio del singolo e di tutto il gruppo, e di conseguenza viene allontanato dalla coscienza, senza in alcun modo perdere di potere.
Il secondo assunto di base che ho osservato è quello dell’accoppiamento; per descrivere le modalità con cui interviene in un ensamble musicale ricorrerò ad un esperienza personale che risale al 1996. Nell’inverno di quell’anno mi fu chiesto di collaborare come batterista in una band di rhythm and blues composta da una decina di elementi; nonostante l’indiscussa bravura dei membri, dopo numerose prove la musica prodotta non era caratterizzata da quell’amalgama fondamentale di cui si nutrono sia il pubblico sia i musicisti. Questo fenomeno oltre ad innescare un malumore generale
10 A questo proposito il maestro Angelo Persichilli, rispondendo ad una precisa domanda sulle qualità che dovrebbe avere un direttore d’orchestra, mi ha dichiarato:” Un vero maestro d’orchestra, che io differenzio dai semplici direttori, è un individuo che possiede tre qualità fondamentali: la leadership, cioè l’autorità e l’autorevolezza per comandare; la fantasia musicale, cioè l’estro che gli permette di intervenire in qualsiasi momento e su qualsiasi partitura modificandola a favore del risultato finale; la capacità di mettere in pratica le sue idee, l’elemento pragmatico senza del quale le idee restano tali”. Allo stesso modo F. Corrao (citato da C. Neri in Rivista di psicoanalisi, XXVII, 1981, p. 361) scrive: “L’analista non deve essere solo in grado di promuovere la ricerca della verità (il leader) ed essere all’unisono con essa (il mistico) ma deve poterla comunicare efficacemente (l’artista).
Funzione Gamma Journal – Verità e evoluzione in “O” nell’opera di Bion - 19 8
generò un vero e proprio blocco motivazionale che il gruppo, durante una prova, decise di risolvere proponendo la seguente soluzione: le varie sezioni12 della band si sarebbero incontrate successivamente per cercare prima un amalgama all’interno del singolo sottogruppo, per poi trasportarlo nella band al completo. Con questo stratagemma il gruppo evitò esplicitamente di affrontare i problemi che aveva nel presente, demandando il tutto a sottogruppi che nel futuro, accoppiandosi, probabilmente li avrebbero risolti. Tutto ciò, come è intuibile, era a servizio di un’aura inibente che sovrastava il gruppo che, cieco, s’illudeva di aver risolto, ma in realtà aveva solo rimosso.
Per dimostrare l’intervento del terzo assunto di base, l’attacco-fuga, come causa inibente del lavoro di gruppo in un ensamble musicale, ricorrerò ad un episodio che mi è stato raccontato dal maestro Andrea Apostoli, flautista: “Ero con Massimo De Lorenzi in un’auletta attigua al palcoscenico, e ci stavamo riscaldando, quando dalla stanza vicina veniamo letteralmente inondati da una pioggia di note suonate con una facilità tecnica impressionante. Si trattava del duo favorito per la vittoria finale del concorso, che, come noi si riscaldava; per qualche secondo ancora stemmo lì, inermi, a subire quella violenza, scambiandoci sguardi attoniti, in silenzio”. A questo punto, il maestro fa una breve pausa, forse ripercorrendo quegli attimi e poi, d’improvviso riprende: “C’è da premettere una cosa, e cioè che le mie doti tecniche sono decisamente inferiori a quelle espressive, e questo ha, nel tempo, condizionato anche la personalità del duo, che ha sempre scelto di eseguire un repertorio che avesse nella ricerca del suono e dell’espressività i suoi punti di forza. Si può immaginare, quindi, il peso che quell’aggressione avrebbe dovuto assumere ai fini dell’esecuzione finale. Invece accadde che, dopo alcuni attimi di sbigottimento, senza proferir parola, io e il mio collega iniziammo a contrattaccare, naturalmente a modo nostro: cominciammo a suonare il passaggio più intenso del nostro repertorio di quella sera, e quando ci accorgemmo che i nostri due rivali, incuriositi si erano fermati per ascoltare, lo ripetemmo, e con enfasi ancora più grande. Ad un certo punto sentimmo la porta dell’aula accanto alla nostra chiudersi nervosamente: era arrivato il momento dell’esibizione, per loro come per noi. La nostra fu una splendida esecuzione, tant’è che vincemmo il concorso; quell’episodio che avrebbe dovuto scoraggiarci, si era rivelato, invece, un ottimo stimolo..Al contrario ci fu qualcosa di strano che caratterizzò l’esecuzione dei nostri rivali: suonarono come slegati…bravi, si, ma nervosi, infastiditi da qualcosa…” Poi rivolgendosi a me: “Lei crede possibile che la nostra controffensiva abbia potuto in qualche modo danneggiare la loro integrità e, di conseguenza, farli suonare decisamente al di sotto delle loro possibilità?”. La mia risposta, ovviamente fu affermativa.
In realtà credo che, in questo episodio siano chiaramente identificabili due dinamiche che stanno alla base dell’interazione tra i componenti di un gruppo.
Il duo Apostoli-De Lorenzi ha risposto all’attacco che proveniva dall’esterno in primo luogo con una sintonizzazione ed un’elaborazione di ciò che stava accadendo durante quegli attimi di sbigottimento in cui i due si sono cercati con gli sguardi, poi con una risposta che definirei immediata (usando questo termine sia nel significato corrente, sia nell’accezione che proviene dalla sua etimologia: in-medium= senza mediazioni). L’aggressione proveniente dall’esterno ha fatto scattare delle componenti motivazionali e, per dirla con Bion, ha stimolato il lavoro di gruppo finalizzato al contrattacco prima, alla vittoria poi.
L’assunto di base attacco-fuga, invece, ha dominato nel gruppo dei rivali. Questi ultimi che, ricordiamo, partivano come favoriti, hanno risentito della risposta dei primi che, invece di stimolarli ha innescato il meccanismo inibente di “fuga” compromettendo inevitabilmente il “lavoro del gruppo”.
In questo lavoro ci siamo occupati di alcuni fenomeni che, presentandosi fin dall’inizio, caratterizzano l’interazione nei gruppi e ne configurano gli andamenti. Ci sembra, anche con un pizzico di soddisfazione, di aver confermato l’inevitabile vicinanza dei due tipi di gruppo, partendo
12 Una band di rhythm and blues è solitamente composta da uno o più cantanti, una sezione di fiati (trombe, tromboni,sassofoni,ecc), una sezione armonica (piano, chitarra), e da una sezione ritmica (basso elettrico o contrabbasso, batteria, percussioni).
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e via via sviluppando il concetto cardine che, d’altra parte, ci ha ispirato sin dall’inizio: sia nei gruppi musicali sia in quelli psicoanalitici l’elemento imprescindibile si può identificare nella κοινή degli inconsci che è alla base dei processi coscienti ed incoscienti, volontari ed involontari, e da cui dipendono la motivazione e la sopravvivenza del gruppo stesso.
Gregorio Simonelli
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