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ALESSITIMIA E DIPENDENZE PATOLOGICHE :LA MEDIAZIONE ESPRESSIVA COME TATTICA PSICOPEDAGOGICA DI INGAGGIO E PROPEDEUTICA ALLA PSICOTERAPIA di Guglielmo Campione e Paolo Pozzi

     
Si definisce alessitimia (o alexitimia) un insieme di deficit della competenza emotiva ed emozionale, palesato dall'incapacità di mentalizzare, percepire, riconoscere e descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi.   Viene attualmente considerato anche come un possibile deficit della funzione riflessiva del Sé. Letteralmente significa "non avere le parole per le emozioni”

Il termine Alessitimia fu coniato da John Nemiah e Peter Sifneos all'inizio degli anni settanta, per definire un insieme di caratteristiche di personalità evidenziate nei cosiddetti pazienti psicosomatici. Il nome venne divulgato per la prima volta nel 1976 alla XI° Conferenza Europea sulle Ricerche Psicosomatiche.[1]

L'alessitimia si manifesta nella difficoltà di identificare e descrivere i propri sentimenti, ed a distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche. I soggetti alessitimici hanno grandi difficoltà ad individuare quali siano i motivi che li spingono a provare od esprimere le proprie emozioni, ed al contempo non sono in grado di interpretare le emozioni altrui. La loro capacità immaginativa ed onirica è ridotta, talvolta inesistente; mancano di capacità d'introspezione, e tendono ad assumere comportamenti conformati alla media. I soggetti alessitimici tendono anche a stabilire relazioni di forte dipendenza o, in mancanza di essa, preferiscono l'isolamento.
L'alessitimia è risultata significativamente correlata a numerose condizioni patologiche di Dipendenza e compulsione oltre che a patologiche sia di natura psicosomatica che psicologica, come l'ipertensione, la dispepsia i disturbi sessuali, ed alcuni disturbi d'ansia.
L'alessitimia è stata associata ad uno stile di attaccamento insicuro-evitante, caratterizzato da un bisogno talvolta ossessivo di attenzioni e cure.

Processo psichico frequente nei soggetti con tratti di personalità alessitimici è l'incapacità di mentalizzare e simbolizzare l'emozione. L'emozione viene vissuta per via somatica (direttamente sul corpo e senza elaborazione mentale), e non interpretata cognitivamente, né concettualizzata per immagini mentali o parole che la sintetizzino e contengano. L'emozione è, per il soggetto alessitimico, la mera percezione fisica, disregolata e presimbolica, dei correlati psicofisiologici dell'attivazione emotiva.

Sono tre le caratteristiche ritenute alla base del disturbo:
  • la difficoltà nell'identificare i sentimenti;
  • la difficoltà nel descrivere i sentimenti altrui;
  • il pensiero orientato quasi solo all'esterno, e raramente verso i propri stessi processi endopsichici.
Dal punto di vista psicodiagnostico sono 3 gli strumenti specifici per valutare l’alessitimia :

la TAS-20 (Toronto Alexithymia Scale), una scala psicometrica[2],[3] di autovalutazione a 20 domande (item),il test proiettivo TAT (Tematic apperception test) e il il SAT9 (Objectively Scored Archetypal Test).

La proverbiale difficoltà dei nostri pazienti alla riflessione , alla consapevolezza di sè e della realtà, la  loro propensione ad un pensiero concreto e operatorio privo di capacità di astrazione, rappresentazione e simbolizzazione (base dell'alessitimia e delle psicosomatosi) li priva della capacità di sublimare gli istinti e di dilazionarne la soddisfazione, spingendoli ad agire compulsivamente e impulsivamente con conseguenze disastrose.
Questa caratteristica mentale è anche alla base dell' angosciante solitudine relazionale dei pazienti dipendenti, spesso concausa delle depressioni concomitanti e dei non rari suicidi. Un quadro così complesso e compromesso rende estremamente difficile il lavoro terapeutico, rendendo necessari approcci diversificati che, spesso, escludono un approccio psicoterapeutico diretto. Ci si trova così a muoversi in una zona grigia, (buona metafora trattando di un congelamento delle emozioni),  il che  rende necessaria l’individuazione di nuove coordinate di orientamento e di esplorazione. E' fondamentale  a tale scopo  poter disporre di strumenti pedagogici  specializzati e non più" naif", che  siano propedeutici ad una successiva psicoterapia secondo un’ ottica processuale e polifasica.

Uno di questi  è la mediazione operata attraverso lo strumento espressivo non verbale, che consente l’emersione di contenuti mentali  ancora privi di  lessico per essere detti a parole in primis a sè stessi e poi comunicati agli altri.
Sono contenuti spesso afasici o, per così dire, balbettanti: dare un nome all’emozione, al proprio stato d’animo, riconoscerla e condividerla in un processo terapeutico può essere più facile se, aggirando le difese del  codice verbale, si sceglie di utilizzare  (e qui, propedeuticamente e terapeuticamente,  si scelgono le modalità che rendono possibile l’ingaggio), l’uso di codici espressivi alternativi,  che possono essere anche  usati parallelamente a questo e che alla parola consentiranno un  ritorno.
E’ qui che il ricorso a tecniche, materiali, prassi artistiche può essere utile.
Il gioco del comunicare  senza dire, dell’espressione anche caotica e grezza del proprio mondo interno in quegli spazi di mediazione che sono il setting ed il supporto possono aiutare ad acquisire una alfabetizzazione affettiva ed emotiva e codici espressivi più raffinati e finalizzati, naturalmente non o non necessariamente in senso estetico. 
La nozione di arteterapia si costituisce quindi nell’incontro di due poli distinti, quello dell’arte e quello della terapia (Rudolf Arnheim"Per la salvezza dell’arte" (1994) . L'arte (intesa, fenomenologicamente,  come“ …tutto ciò che gli uomini  chiamano arte”) è intesa come uso di materiali, codici, procedure e tecniche propri della prassi artistica, la terapia come presa in carico, relazione d’aiuto e percorso  strutturato e verificato. L’arteterapia si fonda su un’esperienza non verbale e si avvale del potenziale terapeutico e riabilitativo insito nel processo creativo. L’atto creativo può far affiorare emozioni, conflitti, problematiche, bisogni e può dare inizio all’avventura della messa  in forma di tutto ciò,  attraverso la creazione di  oggetti di mediazione che, pur utilizzando, come si è detto più sopra, strumenti e codici della prassi artistica, non necessariamente vanno valutati e considerati secondo un metro estetico, ma secondo la loro carica espressiva, sia essa latente o consapevole, in quanto sono strumento di espressione e contemporaneamente oggetto di questa espressione,  e si caratterizzano come oggetti esterni, altro da sé, ma anche come contenitori di elementi del sé.

Gli  oggetti prodotti nel percorso arteterapeutico sono profondamente inseriti nel tessuto  della relazione tra utente ed arteterapeuta, (ne scaturiscono quasi), relazione che dà protezione e contenimento e, pur rispettando i meccanismi di difesa, attiva la percezione di emozioni, ricordi, vissuti  da elaborare: è il setting, quell’insieme di dimensioni materiali, relazionali, affettive, di regolazione  che definiscono lo spazio della terapia: una cornice che presenta una doppia funzione, di elaborazione da una parte, di protezione e preservazione dall’altra. Offrendo un contenitore rassicurante rende possibile  il trattamento dell’esperienza, è contenitivo ma sufficientemente aperto a ciò che il pz. porta e dice di sé senza dire, è una pelle che respira,  che si adatta al corpo dell’incontro tra le aree di gioco del paziente e del terapista, senza sfaldarsi o irrigidirsi.  Con il passare del tempo e con l’infittirsi del gioco terapeutico deve sempre essere contenente, come la pelle si adatta sempre al corpo, anzi ne è parte. La stabilità del setting ( inteso come “spazio sufficientemente buono” in cui si può “stare da soli anche in presenza di qualcuno”)  incoraggia movimenti in autonomia, favoriti dall’assenza di un giudizio estetico su quanto si sta creando, bilancia l’abbandono della razionalità e del controllo evidenti nella produzione, si configura come l’ambiente che rende possibile il dare e prendere forma. In tale contesto, la funzione del terapeuta (compagno di viaggio, ascoltatore e visitatore, attento al processo come al prodotto) è accompagnare l’utente nella scoperta delle proprie potenzialità, accompagnandone la progressiva consapevolezza: l’arte porta l’utente a fare come il bambino nel gioco,  (“il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine quello di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace.” “Si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta.
La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme.” Winnicott) rendendo plasmabile il confine tra realtà e fantasia, tra realtà soggettiva ed oggettiva, oscillando dall’una all’altra.  Il tutto in  uno spazio limitato dai confini del foglio (il supporto)o da colore e consistenza del materiale,  nonchè  dai confini spaziali, temporali, di relazione, del setting, in cui il terapeuta continua ad essere disponibile e rispecchiante ciò che avviene nel gioco. Gioco che porta alla produzione di oggetti definiti, nella loro apparenza immediatamente percepibile, dai materiali che li costituiscono, più o meno trasformati ed elaborati : l’oggetto è quindi percepibile fuori di sé e contemporaneamente investito di una parte molto intima di sé, è un ponte tra mondo esterno e mondo interno, ma anche, in trasparenza,  la visualizzazione di una relazione “buona” tra paziente e terapeuta.



Arteterapia : brevi cenni storici .

Il 900 è  il secolo in cui il mondo dell’arte, configurato come uno spazio aperto e dai confini mutevoli, sperimenta fitte e spesso biunivoche relazioni  con la psichiatria, che, frequentemente, nate nel segno della fascinazione, si evolveranno, specie dagli anni quaranta in poi, in senso terapeutico. diffondendosi principalmente in quei paesi che hanno avuto importanti tradizioni di studi psicoanalitici e psichiatrici: Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti.
L’uso di linguaggi non verbali (noi qui ci soffermeremo in particolare su quelli grafico-pittorico e plastico) ha quindi ormai acquisito diritto di cittadinanza in ambiti terapeutici non solo psichiatrici. Dal  saggio di Morgenthaler su Woelffli  (Ein Geisteskranker als Kunstler, 1921) al testo di Prinzhorn (Bildnerei der Geisteskranken,1922) numerose sono le esperienze, ampiamente storicizzate,  che utilizzano le possibilità di mediazione consentite dalla prassi artistica.
Il tutto non privo di equivoci: ad esempio, facile è stato riproporre l’abusato binomio “genio e follia”  sotto l’etichetta dell’”arte psicopatologica”, interpretando le espressioni artistiche come corrispondenti ai sintomi caratteristici delle varie sindromi cliniche. In realtà (Dubuffet) “non esiste un’arte malata”, come, paradossalmente, non esiste” un’arte dei dispeptici o dei malati del ginocchio”, ma (ancora Dubuffet) “…può trascrivere in maniera immediata …i moti  dello spirito… trasporta le cose nel loro corpo, e il loro corpo è meglio del loro nome,  può prestare un corpo a chi non ne ha, può fare dare di  un albero un’idea, può fare di un’idea un albero”.
I primi gruppi di arteterapia nascono nel 1942 in Gran Bretagna ad opera di Adrian Hill, all’interno di un sanatorio. L’introduzione di attività artistiche si diffonderà dapprima in strutture ospedaliere che accoglievano veterani di guerra e poi sarà comune a partire dalla metà del secolo.   Inizialmente il metodo è quello di una scuola d’arte, ma dopo qualche anno una prospettiva più consapevolmente terapeutica viene approfondita dall’analista junghiana Champernowne.
L’arteterapia si sviluppa anche in Francia, Germania e Stati Uniti principalmente nel campo della riabilitazione psichiatrica.
Nel Nord America intorno agli anni ’40 si inizia a parlare di Art Therapy: le pioniere in questo campo sono Edith Kramer e Margaret Naumburg.  La  Naumburg, di stretta derivazione psicodinamica, ha una visione molto vicina a quella di Freud e considera il prodotto artistico del paziente come uno strumento d’accesso ai suoi contenuti inconsci, da utilizzare nel corso della terapia come materiale da interpretare e favorire così l’insight e la risoluzione dei conflitti interni. L’espressione artistica del paziente è dunque vista ed utilizzata esclusivamente come strumento diagnostico. L’arte, dunque, come strumento ai fini della terapia, e non arte come terapia.
Edith Kramer (1958), invece, si muove da un’ ottica completamente diversa e concentra l’attenzione sul processo creativo, ritenuto di per sé uno strumento terapeutico. L’espressione artistica del paziente non è vista solo come mezzo per l’espressione dei conflitti inconsci, ma come strumento per la loro risoluzione e come risorsa per la crescita e la maturazione personale. Arte, dunque, come terapia, con lo spostamento dell’attenzione dal prodotto artistico come materiale da interpretare, al processo creativo vero e proprio, che, avvalendosi di simboli e metafore, coinvolgendo il soggetto in attività che implicano un impegno sensoriale e cinestesico, si propone come un mezzo per identificare ed esprimere le proprie emozioni, e per comprendere e risolvere le proprie  difficoltà. La Kramer fa risalire il proprio interesse al valore dell’arte in situazioni di grave stress alla fine degli anni ’30, quando insegnava arte ai figli dei profughi della Germania nazista rifugiati a Praga, in una scuola fondata dall’artista Friedl Dicker-Brandeis, poi deportata a Terezin. Dicker-Brandeis, non a caso, si era formata al Bauhaus con Itten; pare quindi non casuale la tangenza tra l’attenzione al processo creativo della Kramer e quel monumento al processo creativo che, in ambito squisitamente pedagogico e artistico, è la “Teoria della forma e della figurazione” di Paul Klee, anch’egli insegnante al Bauhaus in quegli anni.
In Francia negli anni ’50 durante il congresso mondiale di psichiatria si inizia a parlare delle ricerche sulla psicopatologia dell’espressione e si aprono i primi atelier all’interno di alcuni ospedali di Parigi. Poco prima,nel 1947 – altro momento di altissima tangenza tra psichiatria e arte del 900 -  Jean Dubuffet fonda la  ”Compagnie de l’Art Brut”, a conferma dell’interesse per la produzione artistica di persone fuori dal condizionamento culturale e sociale, che datava dal 1923 ( si ricordi, Prinzhorn pubblica il suo testo nel 1922) e che, oltre alla proteiforme attività artistica di Dubuffet, ha dato origine alla spettacolare collezione di opere di artisti “irregolari”,  oggi ospitata stupendamente all’Hotel du Beaulieu di Losanna.

In Italia  l’interesse per la produzione artistica manicomiale, sia pure messa al servizio di impianti teorici fuorvianti, era comunque coltivato da Cesare Lombroso  all’inizio del 900. Pionieristico quindi appare il lavoro compiuto tra gli anni 50 e 60 al manicomio S.Giovanni della Tomba di Verona, dove viene aperto nel 1957 un laboratorio artistico, e dove un giovanissimo Vittorino Andreoli “scoprirà” Carlo Zinelli, oggi considerato uno dei più significativi esponenti italiani dell’art brut. L’esperienza delll’atelier La Tinaia di Firenze, presso il manicomio di San Salvi si inserisce nel movimento dell’antipsichiatria che culminerà nell’esperienza basagliana e nell’entrata in vigore della Legge 180, che segna il passaggio dalle strutture manicomiali a quelle di tipo riabilitativo sul territorio. Le esperienze in questo nuovo ambito consentono di valorizzare l’esperienza creativa la sua capacità di attivare processi di rinnovamento anche nelle forme psicotiche più gravi. Gaetano Benedetti nel suo lavoro con pazienti schizofrenici esprime chiaramente come la creatività sia da considerare una risorsa umana di grande valore capace di ristrutturare stati del sè frammentati e discontinui.
La relazione tra terapie Espressive e psicoanalisi.

Dalla seconda metà del XX secolo l'Arte terapia O terapia espressiva, è una tecnica psicologica di trattamento per i disturbi psichici la cui applicazione si rivolge a contesti sensoriali e percettivi che permettono comunicazione senza parole. Condivide con il processo della comunicazione artistica il contenuto inconsapevole, rimosso e represso al tempo stesso, espresso con linguaggio essenzialmente metaforico o simbolico per analogia. Questo fenomeno, oltre le possibilità di comunicazione che comporta sul piano sensoriale e percettivo, è utilizzato in Psicoanalisi per l'analisi dei contenuti inconsci la cui espressione è facilitata dalla spontaneità ed impulsività del mezzo così come accade nei sogni, nelle associazioni libere, negli atti mancati età. (Freud)
Al di là quindi delle preoccupazioni estetiche l'arte terapia punta essenzialmente sull’espressione dell'inconscio attraverso un'attività veloce ed impulsiva che poi richiede un lavoro aggiunto psicoterapico d’analisi dinamico o psicoanalitico attraverso la verbalizzazione. La rappresentazione diventa espressione e la metafora per analogia assume il carattere simbolico che può essere sottoposto ai processi d’insigth . La Psicoterapia si conclude pertanto con l'elaborazione verbale e la presa di coscienza di contenuti inconsci oggetto di rimozione attraverso la liberazione agita d’oggetti repressi, mentre l'Arte terapia resta una risoluzione catartica d’oggetti psichici repressi o rimossi.
L’interesse della psicologia, della psicoanalisi e della psichiatria nei confronti dell’arte arriva da lontano, già Sigmund Freud nel 1905-1907 nei due saggi "Il motto di spirito e le sue relazioni con l’inconscio e Il poeta e la fantasia esprimeva il suo pensiero riguardante il collegamento tra l’esperienza ludica del bambino ed il processo dell’immaginario nella vita adulta.
Ernst Kris, psicoanalista e studioso di estetica e di storia dell’arte, nella sua opera "Ricerche psicoanalitiche sull’arte" (1952), rifacendosi al saggio di Freud sul motto di spirito, considera la sublimazione una via importante per la comprensione dell’attività artistica, attribuendole però una funzione più ampia rispetto a quella difensiva in cui la psicoanalisi classica l’aveva relegata. Il suo interesse si rivolge soprattutto alle
deformazioni caricaturali, che nascono da una sorta di piacere funzionale di padronanza, della capacità di dominare la paura e l’angoscia. Secondo Kris la differenza tra l’artista ed il nevrotico è che il primo ha la capacità di operare una regressione al servizio dell’Io, cioè una regressione controllata e reversibile, mentre il secondo si trova in preda a dinamiche incontrollabili.
E’ nell’ambito della psicoanalisi infantile che il gioco, la creatività e la fantasia acquistano una specifica rilevanza in qualità di processi intermedi tra conscio ed inconscio: Anna Freud introduce la tecnica del disegno, mentre Melanie Klein approfondisce il metodo del gioco spontaneo.
Negli anni ’60 e ’70 la pratica dell’arteterapia viene influenzata dal contributo psicoanalitico di Donald W. Winnicott, che nel suo libro Gioco e realtà (1971) considera il rapporto psicoterapeutico come un’esperienza di gioco dove i bambini manipolano delle cose e gli adulti combinano delle parole. In questa esperienza l’analista non è uno spettatore, ma si immerge nel gioco: nella tecnica dello scarabocchio bambino e terapeuta intervengono a turno sullo stesso disegno. E’ proprio nella compenetrazione delle esperienze che si può scorgere quella zona intermedia che Winnicott chiama “spazio transizionale”, dove i confini psichici precostituiti si fondono e i processi transizionali, il gioco, la creazione e la fantasia consentono di infrangere le barriere tra il dentro e il fuori e tra il me e non-me .
Un’altra grande psicoanalista, Marion Milner, si è occupata di psicoterapia a mediazione artistica  sottolineando nell’espressione artistica un forte bisogno di fusione con la materia ed una perdita transitoria di differenziazione tra sé e l’oggetto.

Neuroscienze e attività espressive :  l'accesso alla memoria implicita.

Come afferma LeDoux (1996), "i sentimenti emotivi risultano dal fatto che diventiamo coscienti dell'attività di un sistema cerebrale emotivo . Gli stati del cervello e le risposte del corpo sono i fatti fondamentali di un'emozione, e i sentimenti coscienti sono solo decorazioni, la ciliegina sulla torta emotiva" .
La memoria implicita è un'area della mente di natura preverbale e presimbolica, risalente per lo più ai primi due anni di vita, dunque a una fase dello sviluppo in cui non sono ancora mature le strutture nervose necessarie al funzionamento della memoria esplicita, di per sé autobiografico-narrativa e come tale accessibile alla coscienza e verbalizzabile. Infatti la memoria esplicita dipende dall'ippocampo e dalle aree corticali temporali e baso-frontali, strutture appunto non sufficientemente attive nelle prime fasi della vita. In queste fasi invece altre strutture, soprattutto la corteccia posteriore temporo-parieto-occipitale - in particolare dell'emisfero destro - e ancora poi l'amigdala, sono già pienamente attive, e determinano perciò la quasi esclusiva archiviazione delle più fondamentali esperienze in un "formato" non accessibile alla coscienza, non verbalizzabile e caratterizzato da un'intensa sensorialità affettiva.

Da queste evidenze deriva l'idea secondo cui l'attività mentale successiva, più adulta, a forte predominanza logico-riflessiva, si trovi inconsapevolmente costretta a rielaborare un serbatoio di vissuti che le sfuggono, perché archiviati in un formato motorio, sensoriale ed emotivo che soltanto la concomitante modalità extra-riflessiva, non verbale, artistica, espressiva può invece "raccogliere". Anzi, la modalità extra-riflessiva tenderebbe automaticamente a raccogliere e a incanalare questo genere di vissuti, offrendo la "traduzione" a loro più vicina, vale a dire quella non-narrativa, racchiusa in "insiemi" percettivo-affettivi di tipo globale e non-sequenziale.

Certamente anche quest'ultima sarebbe poi comunque una "traduzione" infedele, perché i contenuti della memoria implicita, in quanto costitutivamente inaccessibili, sarebbero pressoché virtuali. Però la modalità extra-riflessiva consentirebbe a tali vissuti l'unica via di sbocco realmente confacente, perché composta degli stessi processi e dello stesso "linguaggio", vale a dire processi e linguaggi di natura commistamente psicofisica, vale a forte connotazione corporeo-affettiva..

Questa capacità del "pensare extra-riflessivo", consistente nell'attingere in via diretta aree mentali che sono sede di esperienze e di ricordi non-pensabili, permetterebbe quindi di riattraversare queste "tracce", tentandone così la "reinscrizione" in un formato definito, di per sé motorio, sensoriale ed affettivo. Tale reinscrizione consentirebbe una pensabilità sensoriale-emotiva, una sorta di coscienza di natura subliminale e sinestesica, la quale - in quanto è comunque cognizione e coscienza - può condurre al superamento di traumi, di conflitti o di altri nodi emotivi. Questi altrimenti resterebbero depositati in un formato che sfugge alla psiche e che perciò tende di continuo a invaderla e a minarla.

L'organizzazione di un atelier di Attività espressive nella Clinica delle dipendenze.

I fondamenti per un utilizzo clinico dell’at. si rintracciano nell’attenzione costante alle dinamiche di relazione e nello sviluppo della libertà espressiva con la sua quota di imprevedibilità.   La scelta di una relazione condotta attraverso un codice specifico come quello grafico-plastico permette di utilizzare strumenti che si saturano di valore terapeutico solo se collocati in una prospettiva di intervento integrata con altre figure professionali.
Un disegno,  ad esempio, visto in équipe, è significativo, per la comprensione del mondo interno di un paziente, quanto il verbale di un colloquio. Questo per il fatto che viene prodotto in un contesto che ha caratteristiche sempre consapevolmente terapeutiche o propedeutiche a una terapia, che possono andare di pari passo (ma non sempre e non necessariamente!) a connotazioni  anche ludiche. Questo  non lo relega nel puro intrattenimento o nell’esercizio di abilità grafiche o plastiche, che non  sono necessarie e che, a volte, dove presenti, sono solo una ulteriore difesa;
Gli strumenti specifici di analisi e valutazione dell’attività di arteterapia che possono essere messi a disposizione dell’equipe sono il diario di laboratorio, la cartella di arteterapia e la relazione finale.
La cartella di arteterapia analizza i manufatti maggiormente significativi prodotti da ogni utente in termini di utilizzo dello spazio, del colore, del tratto, dei contenuti, della relazione con il setting (materiali, arteterapeuta e gruppo). La relazione finale di arteterapia viene redatta al termine del programma di trattamento e sintetizza ciò che è emerso durante il percorso, ne valuta l’efficacia e, soprattutto,  indica eventuali problematiche aperte. E’chiaro che occorra contestualizzare tali strumenti  in un’ottica di ingaggio e di propedeutica ad un percorso terapeutico più generale,  senza mai dimenticare che l’obiettivo principale dell’attività è dare un contributo all’osservazione e diagnosi degli utenti: l’osservazione di materiali creativi può a sua volta, attraverso l’elaborazione di ipotesi, fantasie, rèverie, stimolare la creatività dell’équipe stessa


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1 commento:

  1. Mi chiedevo se l'alessitimia possa essere correlabile ad un trend sociale materno di comportamento verso i bambini. Quanti bambini hanno sviluppato uno stile di attaccamento insicuro a causa dei "tempi di lavoro" non conciliabili con i "tempi di vita"? Quale l'incidenza e la prevalenza della dipendenza nelle tribù amazzoniche e nella società "occidentale"?!Stella

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