1. La necessità di recuperare le origini storiche della comunità terapeutica.
La comunita terapeutica è un dispositivo terapeutico e pedagogico , fondamentale nell’evoluzione della terapia e riabilitazione dei disturbi mentali nella seconda meta del XX secolo .
Secondo E.Pedriali, uno degli studiosi italiani più attenti al nostro tema purtroppo recentemente scomparso, i meriti storici del concetto di Comunita terapeutica sono stati tre : aver messo in primo piano il valore della gruppalità e svelarne il potenziale terapeutico, aver definito una concezione di equipe come strumento di comprensione dell’universo frammentato del paziente , aver sottolineato come la condivisione della quotidianita permette di trovare risposte ai bisogni dei pazienti mediando tra realtà interna ed esterna.
La comunita terapeutica è stato e resta un “luogo” di incontri importanti tra persone ma anche fra modelli ermeneutici e operativi , come quello fra psicoanalisi e pedagogia, psicoanalisi e medicina , psicoanalisi e psichiatria, psicoanalisi e psicologia , psicoanalisi e Arte nella sua declinazione riabilitativo-espressiva.
In Italia le comunità per dipendenti hanno attraversato un lungo periodo di sperimentazione condotto prevalentemente seguendo un modello comportamentale : da una parte secondo il modello Americano (l’esperienza fondative di Carl Ederick delle comunita per tossicomani di Synanon Ocean Park in California del 1958 e di quella di Daniel Casriel di Daytop lodge) originatosi dalle prassi gruppali degli Alcolisti anonimi , programma dei 12 passi ecc. e dall’altra secondo prassi pedagogiche comportamentali di stampo cattolico più recentemente confluite nel modello epistemologico di tipo sistemico familiare.
Come ho sottolineato in altri lavori (G.Campione, 2007) la storia del rapporto della psicoanalisi con le tossicomanie ricalca per certi versi la storia non facile dei rapporti fra psicoanalisi e pedagogia e quella del rapporto fra psicoanalisi e pedagogia .Le comunità terapeutiche per dipendenti, nate quasi trent’anni dopo l’esperienza fondativa inglese di stampo psicoanalitico della fine della seconda guerra mondiale, hanno viaggiato sin dal momento della loro nascita, su un binario parallelo non condividendo con le comunita psichiatriche storia e modelli epistemologici. (G.Campione, 2007)
Lo sviluppo italiano di una cultura della valutazione pichiatrico-psicodiagnostica delle dipendenze da una parte e l’incidenza crescente di casi di gravi tossicomanie di marca psicotica dall’altra ha però da circa 15 anni messo il modello pedagogico comportamentale delle Comunita in scacco , inaugurando un nuovo e più fecondo periodo di riflessione su prassi e modelli sin lì in uso.
Si è così assistito ad una prima storica differenziazione , frutto di una maggiore consapevolezza di sè : comunita pedagogico riabilitative,comunita terapeutiche e Comunità per doppia diagnosi .
La comunità per doppia diagnosi che ospita pazienti dell’area narcisistico-psicotica è stata ,a mio parere , l’occasione storica per l’incontro con le radici psicoanalitiche del modello comunitario.
L’idea di comunità terapeutica nasce infatti,storicamente, in Inghilterra alla fine della seconda Guerra Mondiale da un particolare ripensamento sull’organizzazione di un reparto tradizionale di Psichiatrìa Militare del Northfield Hospital ad opera di W.R.Bion .
La comunità condivide, quindi, con la psicoanalisi ed in particolare con la psicoanalisi di gruppo e sociale un’ inestricabile relazione fondativa ,storica, teorica e clinica :apre alla gruppalità, apre al “terzo”, introduce la categoria del sostegno alla crescita e alla differenziazione .
La prima definizione storica di CT è infatti dello Psicoanalista Tom Main, fondatore della comunita terapeutica del Cassel Hospital : “Un tentativo di utilizzare l'istituzione non come un'organizzazione condotta da medici che vogliono realizzarsi al meglio da un punto di vista tecnico, ma come una comunità il cui scopo immediato è la piena partecipazione di tutti i suoi membri alla vita quotidiana, mentre l'obiettivo finale è la reintegrazione dell'individuo nella vita sociale”.
Dobbiamo a Foresti, Ferruta, Vigorelli e Pedriali la più importante e sistematica ricognizione storica del fenomeno “Comunità terapeutica “ in Italia che ha l’unica ma importante lacuna però per quel che riguarda le comunita terapeutiche per Dipendenti patologici.
Secondo questi autori in Inghilterra si sono distinte importanti esperienze come quella dell’Henderson Hospital di Maxwel Jones, delle comunità per adolescenti di Winnicott, della Tavistock clinic, in Francia l’esperienza francese di Racamier alla Comunita La Villette ,quella di Sassolas a Ville Urbane e quella di Olivenstein del Centre Marmottain di Parigi .In Italia sono state storicamente importanti le esperienze Italiane dell'Ospedale di Giorno di Palazzo Boldù a Venezia , quelle di Basaglia a Trieste, di Fabrizio Napolitani , prima in Svizzera a“Villa Landegg” e poi alla “Comunità Terapeutica “di Roma”, l’esperienza storica di Villa Serena e la Comunità Omega a Milano. A queste aggiungerei l’esperienza di Eugenio Gaburri all’ospedale di Varese, le esperienze di Zapparoli e Charmet, l’esperienza di Marco Sarno e Francesco Comelli al reparto ospedaliero di Psichiatrìa di Cinisello ,Milano.
La comunità è stato il luogo dove è nata e si è sviluppata la cultura dell’indagine sull’Istituzione e le sue dinamiche emotive e sociali , i suoi rischi , le sue opportunità lungo l’asse di Ricerca individuo- gruppo-famiglia-società.fino alla nascita del concetto chiave di Istituzione totale e alle sua analisi da parte di autori centrali come Foucault, Gofmann e F.Basaglia : un’istituzione la cui caratteristica principale è quella di impossessarsi del tempo dei suoi partecipanti prefiggendosi come unico scopo quello della sua esclusiva sopravvivenza, allontanandosi dallo scopo che, ab initio, si era prefissa e per il quale era nata
In una definizione più moderna Correale (1999) ha descritto l’istituzione come un grande campo emotivo in cui, da una parte, si intrecciano fantasie, desideri, paure, sistemi difensivi contro l’angoscia e la frammentazione, sospetti, attacchi, e, dall’altra, si cerca di perpetuare e confermare se stessa attraverso l’autoreferenza e l’autoconferma .
La comunita è stato anche il “Luogo” dove si è sviluppata la cultura psicoanalitica clinica sulla famiglia, storicamente ancor prima che Gregory Bateson e Margaret Mead elaborassero i principi ecologico- relazionali sulla base dei quali nascerà la scuola sistemica.
La comunita è infine un luogo elettivo di riflessione sull’abitare e condividere lo Spazio in condizioni di sofferenza secondo coordinate psicoanaliticamente fondate (realtà esterna e realtà interna, mondo interno e mondo esterno, spazio interno e spazio esterno) .
E’ quindi un’ occasione d’incontro tra le Culture della cura (la psicoanalisi fra queste) e le culture dello Spazio (l’ architettura tra queste).
2. Il modello pedagogico tradizionale delle comunità cattoliche e i contributi innovativi del modello psicoanalitico .
La pedagogia, nonostante sia passato un secolo dalle prime, rivoluzionarie scoperte di Freud sul funzionamento della psiche, continua in gran parte a prescindere dalle acquisizioni introdotte dalla psicoanalisi e a servirsi di modelli cognitivi in cui il rapporto fra emozione e pensiero è completamente ignorato e manca a tutt’oggi un'ipotesi complessiva che tenga conto significativamente della presenza dell'Inconscio in tutte le sue molteplici forme d’espressione. Concetti cruciali relativi alla distinzione necessaria fra sensazioni, emozioni e pensieri, oppure alla conflittualità insita nella relazione mente-corpo o ancora al modo con cui la mente si libera delle frustrazioni, evacuandole o negandole, dovrebbero far parte del bagaglio culturale di ogni educatore così come un atteggiamento di ascolto verso “tutti” i contenuti emotivi, interamente scevro da giudizi moralistici dovrebbe aiutare il paziente ad avere attenzione e rispetto per i propri e gli altrui pensieri. L'obiettivo, naturalmente, non è quello di sovvertire le regole delle diverse funzioni di terapeuta e di educatore. Piuttosto è forte la convinzione che una migliore conoscenza della realtà psichica possa consentire a quest’ultimo di svolgere al meglio la sua attività, senza per altro sconfinare in campi differenti ed inadeguati alla propria competenza ed al contesto in cui opera, proprio come un insegnante di educazione fisica può trarre vantaggio da una conoscenza approfondita del corpo umano, senza per questo sentirsi né in diritto né in dovere di fare il medico. (Ginzburg, 1996)
La cultura psicoanalitica, come si sa, è piuttosto diffusa nei centri che si occupano di salute mentale per quanto non sempre con la sufficiente chiarezza dei compiti, dei limiti, dei metodi, delle condizioni del setting. Questo vale in particolar modo, a mio parere, nel caso dei centri pedagogico-riabilitativi, specie se di impostazione religiosa, dove spesso la cultura psicoanalitica fatica ad affermarsi. D’altro canto è noto che la dottrina cattolica esclude l’esistenza di una dimensione inconscia e mitica privilegiando il primato dell’intelletto, della volontà e della morale. (E.Drewerman, Psicoanalisi e teologìa morale , Psicologia del profonda ed Esegesi ).
In un recente saggio Ancona (2006), psichiatra e psicoanalista cattolico in una delle sue ultime opere intitolata “Il debito della chiesa alla psicoanalisi” (2006) ha raccontato la complessa storia dei rapporti tra Chiesa cattolica e Psicoanalisi: «All’inizio fu guerra guerreggiata e ciò senza risparmio di colpi; da ambedue le parti si parlava di morte, un evento che ciascuno auspicava per l’altra. Poi gradualmente, per il venir meno dei rispettivi fondamentalismi, le opposte posizioni cominciarono a smussarsi. L’antropologia cristiana e quella religiosa rimasero certo in contraddizione, ma subentrò fra loro un certo distacco, un ignoramento reciproco e venne col tempo l’apprezzamento di singoli aspetti del campo avverso; si avviò così uno scambio fra psicoanalisti e credenti, portando ad un incontro che oggi è andato molto avanti. Il pensiero di Matte Blanco, in particolare, ha, di fatto, provato la conciliabilità dell’apparentemente inconciliabile così come la gruppoanalisi di Foulkes ha permesso di vedere la sovrapponibilità dell’antropologìa analitica con quella propria della Chiesa. Al punto di rendere oggi possibile il riconoscimento che la Chiesa istituzionale indipendentemente dal merito della sua realtà mistica, deve molto alla Psicoanalisi: le è debitrice!».
La diffusione della cultura psicoanalitica ad opera delle università e delle scuole di specializzazione in psicoterapia ha consentito più recentemente il suo diffondersi, al di là delle più o meno rigide impostazioni ideologiche degli enti riabilitativi, attraverso la figura professionale dello psicologo e dello psichiatra un tempo assai rara.
Lo snodo storico fondamentale di questo processo è stato – come si è detto- quello della cosiddetta doppia diagnosi (gravi tossicomanie psichiatriche ): progressivamente si è diffusa la consapevolezza della natura psicopatologica dei comportamenti da dipendenza e questo ha convinto anche gli enti di cura a carattere pedagogico più recalcitranti a dotarsi di psicologi e psichiatri. È successo quindi che gli interventi psicoanalitici hanno potuto ugualmente fecondare e arricchire la cultura di queste istituzioni, anche se non apertamente e programmaticamente , ma -come spesso succede- “al chiuso” delle riunioni d’équipe.
Questo processo ha favorevolmente posto le basi per una ripresa del confronto con i fondamenti storico-scientifici delle comunità terapeutiche, nate durante la seconda guerra mondiale nell’ambito della psichiatria psicoanalitica in Inghilterra ad opera di Bion , Foulkes ,Main e Jones .
L’affrontare il rapporto con il paziente tossicomane con psicopatologia associata ha comportato necessariamente il passaggio da un’impostazione tradizionale di tipo pedagogico-comportamentale, che forse aveva anche funzionato con tossicomani-eroinomani di tipo nevrotico, ad un’impostazione di tipo clinico-medico-psico-pedagogico più adatta ai nuovi tossicomani, sempre più spesso borderline, narcisisti patologici, antisociali, paranoidei, con sempre più frequenti disturbi del sé. Questo passaggio non poteva, a mio parere che avvenire nell’integrazione delle conoscenze diagnostiche e dei trattamenti in un’ottica complementare individuale-familiare, e con un atteggiamento di apertura al confronto delle conoscenze scientifiche.
3. La critica psicoanalitica dell’impostazione super-egoica delle comunità pedagogiche.
Una delle critiche della psicoanalisi all’impostazione tradizionale superegoica delle comunità terapeutiche era -ed è ancora - infatti questa: se il disturbo consiste, a livelli profondi dell’essere, in un ritiro narcisistico dalle relazioni, puntare sul super-io non ha senso. L’impostazione supergoica può condurre ad una pseudo-individuazione, ad un esito sul piano del conformismo, sul piano dell’iperadattamento più che ad una vera cura personale, o, come si dice, ad un reale trattamento individualizzato. Dal punto di vista della psicoanalisi il nucleo del disturbo, come s’è visto, è un narcisismo mortifero, con conseguente assenza del valore morale della sollecitudine verso l’altro da sé. L’incapacità di molti di questi pazienti di concepire l’Altro, di avere una relazione affettiva con l’altro, e la chiusura in un godimento autarchico in cui l’altro non è più controllabile in modo onnipotente, certo non possono essere affrontate solo censurando e rimproverando. Questo mi sembra un importante punto d’incontro tra pedagogìa e psicoanalisi .
Come diceva Mitchell (1995) “ Si ritiene che oggi molti pazienti soffrano non di passioni infantili conflittuali trasformabili con la ragione e la comprensione, ma di uno sviluppo personale stentato. La psicopatologia moderna può essere oggi definita non in termini conflittuali, ma dalla povertà dell’esperienza del paziente. Spesso il problema del paziente è quello di riuscire a reinvestire di affetto e di significato l’altro da sé, uscendo dallo stato timoroso di rifugio in cui permane. Il paziente ha bisogno di una rivitalizzazione ed espansione della capacità di generare un’esperienza reale, significativa e valida (...). Ciò che gli occorre è essere visto, coinvolto personalmente e fondamentalmente apprezzato e accudito nella possibilità di scoprire ed esplorare giocosamente la propria soggettività e immaginazione”.
4. Lo stato attuale: dal rimedio per tutti i mali all’intervento su soggetti selezionati in alcune fasi del trattamento.
Per anni la comunita terapeutica è stata vita e proposta come una “strategia assoluta “ una panacea contro tutti i mali , buona per tutte le stagioni.
Oggi si inizia a riflettere sulla necessità di transitare da un organizzazione ideologica ad un’ organizzazione clinica che preveda il trattamento come un processo articolato in fasi diverse da affrontare con tecniche diverse e propedeutiche (G.Campione, 2009).
Secondo Enrico Pedriali la Comunità Terapeutica, ha attualmente due possibilità: o la sua cultura riuscirà ad esprimere una flessibilità che le consenta di affrontare esigenze diversificate (e allora occorrerà abbandonare la pretesa fedeltà ad una malintesa ortodossia) o diversamente dovrà rinunciare a proporsi come metodo idoneo ad una larga parte di patologia (segnatamente la patologia psicotica grave): in ogni caso si dovrà abbandonare l'illusione di un setting comunitario proponibile per tutte le tipologie d'utenza
Dopo decenni di sperimentazioni e improvvisazioni ,nella situazione attuale si è giunti ad una sufficiente conoscenza teorico clinica del dispositivo comunitario per poter definire i fattori predittivi della sua efficacia o inefficacia terapeutica : secondo Correale essi sono legati alla possibilità di elaborare il lutto del distacco dalla famiglia prima di entrare e al grado soggettivo di stabilità o frammentarietà del sè mentre i fattori terapeutici sono da individuare nel condivisione della quotidianità, nella rete di relazioni, nel sentimento di appartenenza e nella possibilità di attivazioni di emozioni e scene psichicamente significative.
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5. La supervisione dello staff di Comunità come luogo di confronto della psicoanalisi e della pedagogìa .
Espongo qui di seguito alcune riflessioni sulla mia esperienza come supervisore dell’equipe di una storica comunita per terapeutica Milanese , fondata circa 30 anni fa dal cardinale Martini : la comunita Alisei del Centro Ambrosiano di Solidarietà (CEAS) di Milano.
La Supervisione è uno dei “luoghi” del pensiero dove è possibile la frequentazione della cultura psicoanalitica anche in ambienti clinici non psicoanalitici come la comunita terapeutica .
In questi servizi , spesso, secondo la mia esperienza ,gli operatori possono trovarsi a condurre un lavoro ad alto impatto emotivo, non potendo disporre di strumenti per poterlo elaborare e comprendere a sufficienza .D’altro canto, il modello pedagogico- in questo non dissimile da quello medico tradizionale- che punta tutto sul primato dell’intelletto e della volontà come fonti dell’etica esclude le motivazioni affettive-inconsce del comportamento. Queste professioni hanno, quindi, in comune la relazione con l’altro - ineluttabilmente affettivizzata, in negativo o in positivo- come oggetto di lavoro, condividono in modo assai simile motivazioni riparativo-depressive inconsce nella scelta della professione ma paradossalmente sono , almeno parzialmente, inconsapevoli di tutto ciò.
La supervisione permette non solo di esplorare lo stato emotivo dell’equipe, come vedremo in seguito ma anche l’organizzazione clinica, lo stato etico-professionale, il progetto terapeutico, le connessioni fra il particolare dell’agire quotidiano e lo stato generale della mission dell’ente e del regolamento della struttura. Da questo punto di vista rappresenta uno strumento fondamentale perché un gruppo , pur attratto inconsapevolmente e costantemente verso l’organizzazione e primitiva degli assunti di base di dipendenza , accoppiamento e attacco e fuga (Bion) , possa rimanere pur sempre un gruppo di lavoro controllando costantemente i suoi obiettivi dichiarati e la sua organizzazione per far ciò.
Aggiungerei che è un occasione importante per la Dirigenza dell’ente per dotarsi di strumenti per di distinguere fra il non volere , il non capire e il non essere capace- tout court- di svolgere il proprio compito di educatore e le difficoltà emotive, cognitive tipiche di questo ruolo .
Per alcuni operatori la condivisione in equipe è fonte di sofferenza: il gruppo, infatti, può amplificare emotivamente i timori, espone al vis a vis, espone ad un intimità chi per sue necessità la fugge, può far regredire a stadi evolutivi che si ritenevano superati, pone frequenti questioni di sovrapposizione e conflitti fra gli ambiti professionali che fanno risuonare le corde di altri e più antichi confronti e tematiche oscillanti tra l’invidia e la cooperazione. Indubbiamente l’attuale momento storico e culturale pare favorire questo genere di organizzazioni mentali più orientate alla difesa ed alla scissione che alla consapevolezza dell’orizzonte esperienziale più ampio che il lavoro di mentalizzazione promette.
Per gli operatori il gruppo e la supervisione possono certamente rappresentare anche occasioni di perdita di potere, o meglio di perdita delle fantasie di potere inerenti ad una professione, ma anche di crescita personale e professionale. Ammettere che non siamo così mono dimensionali e interi, che non abbiamo tutto il potere su di noi e sui pazienti può sicuramente indispettire. Ammettere che esiste una dimensione inconscia (la nostra, quella del paziente e quella dei colleghi) con cui siamo in relazione, volenti o nolenti, e che ci può influenzare, è una ferita possibile che non tutti tollerano. La formazione possibile anche grazie alla supervisione effettivamente mette in discussione l’immagine di sé, la forma e la definizione del sé, l’identificazione, ed è indispensabile tollerare momenti di incertezza in cui si naviga con la sensazione di aver perso la bussola .
La supervisione in gruppo rappresenta un lavoro che permette di connettere, mettere insieme, condividere, ibridare e integrare ciò che è scisso e separato nella cultura dominante, nella mente individuale degli operatori ancor prima che nella mente dei pazienti. Essa può a ragione costituirsi , dunque, come uno dei luoghi possibili – al di là del suo specifico indirizzarsi al lavoro clinico- di costruzione del pensiero condiviso e – proprio in quanto tale - di risposta al disagio del vivere contemporaneo
Inoltre il gruppo degli operatori al lavoro in supervisione è una dimensione ideale per coniugare l’elemento individuale con l’elemento collettivo e si pone dunque al confine fra oggetto della formazione e soggetto della formazione. La supervisione nell’istituzione è , in effetti, uno strumento indispensabile per rimobilitare le risorse personali-professionali bloccate a causa delle forti identificazioni proiettive del paziente che potrebbero non trovare altra possibilità di contenimento e di elaborazione .Nella supervisione ,dunque, sembrerebbero convivere una funzione formativa ed una funzione terapeutica nel momento in cui diviene necessario prendersi cura anche degli affetti degli operatori .
Da questo punto di vista, la supervisione è ritenuta da tempo di importanza fondamentale per garantire la qualità dell’intervento clinico tanto quanto il benessere degli operatori perchè permette di strutturare nel tempo, in modo costante, una serie di occasioni per dare una pensabilità a certe emozioni senza nome, per sospendere il giudizio, per osservarsi nell’interazione intellettiva, fisica ed emozionale con il paziente e per sospendere la necessità di agire e decidere nell’immediato.
Quello che emerge chiaramente dalle supervisioni è che l’accudimento coerente è una funzione fondamentale del dispositivo comunitario in grado di rappresentare in una visione d’insieme l’universo mentale frammentato , di contenerlo e di dargli un senso. La composizione multiprofessionale permette di prendere in carico le diverse parti dei pazienti dando loro dignità d’esistenza (democrazia degli affetti interna ancora prima che esterna). I pazienti vivono infatti parti di sé diverse con i diversi operatori (soprattutto con i cosiddetti case manager ) ed è quindi fondamentale comunicare tali aspetti scissi in uno spazio come la supervisione per ricomporre questo caleidoscopio. Da queste operazioni di connessione tra le proprie emozioni, le emozioni dei colleghi, quelle ipotizzate dei pazienti e quelle del supervisore possono emergere, come in un puzzle, in un mosaico variegato e ricco, le identità complesse dei pazienti, le parti scotomizzate alla loro coscienza che affiorano in forma di emozioni grezze nella mente degli operatori e, in quanto tali, vengono digerite, riconosciute e simbolizzate (funzione gamma ).
Ci sono due condizioni che rappresentano un rischio reale di passaggio dalla funzione terapeutica dell’accudimento coerente a quella della funzione “ burocratica” di vigilanza sul rispetto delle regole comunitare : da una parte la tendenza degli operatori ad anelare ad un sistema di intervento meno ricco, ma più semplice e meno faticoso in cui i confini tra le singole professionalità sono più sicuri, rigidi e meno travalicabili ed in cui vengono privilegiate le soluzioni pratiche e organizzative. Dall’altra l’ instabilità timica e relazionale, l’aggressività, la trasgressione delle regole e l’ orientamento a ottenere tutto e subito dei pazienti .
Gli operatori sono dunque spesso impegnati a cercare di mediare fra queste due opposte posizioni difficilmente conciliabili razionalmente .
6. Gli operatori in equilibrio tra Famiglia simbolica e Famiglia naturale .
Nonostante l’operatore di comunità sia quindi – come dice Charmet- sempre sull’orlo di una crisi di nervi ,parodiando il titolo di un famoso film di Almodovar, a mio parere la comunita è uno dei laboratori sociali all'interno dei quali è possibile capire più che in qualsiasi altro luogo .
Da questo punto di vista concordo con Charmet quando afferma che la Comunità Terapeutica non guarisce, ma mette nelle condizioni ineguagliabili di riuscire a capire .
Penso che la possibilità di capire e di farsi capire meglio che altrove dipenda proprio dal dormire, mangiare, decidere assieme,le migliori condizioni per poter ricostruire al proprio interno le scissioni e le proiezioni del paziente . Diversamente infatti da quel che si verifica nella cura –per cosi dire esterna- dove il paziente mette diversi parti di se nelle figure professionali con cui interagisce (medico, psichiatra, psicoterapeuta, counselor,educatore, assistente sociale, infermiere,mediatore culturale) e sociali ( familiari, datori di lavoro, ecc) in comunita questi movimenti affettivo difensivi avvengono non solo su un'equipe unitaria, ma anche in uno spazio antropologico e logistico che è il setting comunitario e questo consente, di ricomporre come in un puzzle -nel sé mentale dell'equipe- il vero sé del paziente.
Essa rappresenta, quindi, la rara possibilità per lo psicoanalista di lavorare nella vita reale del paziente , osservandone e valutandone gli aspetti quotidiani (le azioni parlanti ,Racamier) , gli aspetti emotivo-affettivi del suo co-abitare in relazione con altri (una “residenza emotiva” ,una casa per le loro emozioni dove -secondo Zapparoli - gli aspetti di attaccamento e accudimento possono essere visti e presi in carico attraverso l’approccio indiretto , mediato, transizionale delle “situazioni come se “ G.Campione, 2009).
Non solo, ma in questa condizione la possibilità di capire meglio coincide anche con la possibilità di farsi capire meglio: cioè di mettere a disposizione del paziente e del suo gruppo di appartenenza, il vero sé dell'equipe comunitaria, che vive fino in fondo l'esperienza di Comunità. Da questo punto di vista questa è un'equipe che ha una naturale propensione a collassarsi sulle funzioni della famiglia naturale del proprio utente e non riesce quasi mai a rimanere la famiglia simbolica, la famiglia culturale . Da cui l’indispensabilità di una supervisione Psicoanalitica. Perché la Comunità Terapeutica, nel momento in cui si appresta a divenire la famiglia e a condividere la quotidianità col paziente , evita di diventarlo nella misura in cui apre la dimensione del rapporto a una dimensione eccezionale: cioè la gruppalità. Apre al terzo nella misura in cui tutte le pratiche dell'istituzione comunitaria diventano di tipo gruppale. E' il riferimento al terzo l'antidoto nei confronti dell'eventualità di collassarsi sulla identificazione con la famiglia .
Quindi la Comunità Terapeutica è una istituzione che pensa in termini di progetti di nascita sociale; anche se è vero che la pratica reale che effettua è quella di una reinfetazione materna, (Charmet) del tener dentro, però la sua grande speranza è quella di poter far rinascere. Non tiene dentro per brama, non tiene dentro in nome della rassegnazione, ma della possibilità di riorganizzare la speranza di una rinascita; si tratta di vedere in nome di chi, in nome di quali valori. E a me sembra che si possa dire che gli aspetti più evolutivi della Comunità Terapeutica, quelli che meritano la maggior manutenzione da parte del supervisore, sono quelli legati al fatto che la Comunità Terapeutica è la casa dove si effettua oggettivamente un'operazione di reinfetazione (Charmet) che però-differenza fondamentale- avviene in vista di una nascita e la si affida al gruppo dei fratelli; ma i fratelli lavorano sotto l'egida della funzione simbolica paterna, per cui da questo punto di vista mi sembra che la rinascita possa avvenire all' ombra dei valori del padre e quindi in funzione della nascita sociale. E da questo punto di vista la Comunità Terapeutica può davvero diventare la famiglia non incestuosa, quella del padre e quella della norma. ”(Charmet)
In comunita terapeutica- infatti- molti pazienti che provengono da un esperienza con il cosiddetto “genitore unico” ( in realtà un genitore prevaricante sull’altro che è generalmente assente , abbandonico, dipendente) possono esperire invece relazioni sia con gli aspetti protettivi , accuditivi (simbiotico-fusionali,femminili,materni) che con gli aspetti maschili,paterni della Legge simbolica e reale (le regole,il limite,il confine , la differenziazione, la separazione, l’individuazione) ) (G.Campione, 2009).
Questo può avvenire lì dove il lavoro sia consapevole di questi aspetti e quindi anche dal punto di vista pedagogico condivida un modello epistemologico ermeneutico che accetta di confrontarsi con quello psicoanalitico .
Per la mia settennale esperienza, la C.T. Alisei del CEAS di Milano è uno di questi luoghi.
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Racamier, P.-C., “Una comunità di cura psicoterapeutica. Riflessioni a partire da un’esperienza di vent’anni”, in A. Ferruta, G. Foresti, E. Pedriali, M. Vigorelli, (a cura di) La comunità terapeutica, cit., pp. 90-103.
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