Seconda parte.
Il setting nel processo della relazione analitica
Il setting scivola nel processo coinvolgendo nello strumento terapeutico la coppia analista-analizzando.
Entra in scena la relazione analitica.
Già nel 1938 Glover avvia una famosa inchiesta volta a verificare cosa facciano effettivamente gli psicoanalisti nel setting. Il risultato di quella indagine rivela che nonostante le dichiarazioni in favore dell’atteggiamento analitico neutrale, dell’astensione, del silenzio e delle restanti prescrizioni intrinseche ed estrinseche(Gill,1984), in realtà vengono applicate nel setting una serie di deroghe, come contatti telefonici ed epistolari coi pazienti, la introduzione della dimensione giocosa e così via(sia pure con riluttanza e non nella accezione del parametro della tecnica).
Eissler(1953) introduce per primo questo concetto per cercare di disciplinare in qualche modo le costanti variazioni della tecnica classica, definita dall’autore come modello di tecnica di base(basic model technique).
Essa risulta efficace per un Io che tollera la frustrazione della pura interpretazione, quale quello dei pazienti nevrotici, ma si manifesta inidonea nel momento in cui si lavora con pazienti difficili che hanno una struttura deficitaria e sono bisognosi di rassicurazioni, consigli, modificazioni della posizione, che non trovano spazio in una applicazione rigida ed esclusiva della interpretazione.
Da ciò scaturisce la questione della differenziazione tra psicoanalisi e psicoterapia: per ottenere un reale cambiamento dell’Io, sostiene Eissler, non bisogna incorrere nel rischio del sequestro di materiale non analizzato proprio a causa della variazione del setting col parametro, senza un adeguato approfondimento dell’insight. Il parametro secondo Eissler, si rende strumento temporaneo al superamento di una impasse, per cui rimosso l’ostacolo, il parametro diventa esso stesso oggetto di esame interpretativo.
Secondo Eissler si definisce psicoterapia quella attività terapeutica con introduzione di parametri non eliminati, e dunque elementi stabili del setting, non analizzati.
La rassicurazione o il suggerimento comportamentale, dona al paziente un intuitivo ed evidente effetto benefico, ma ha lo svantaggio di non raggiungere un obbiettivo più potente e duraturo desiderato, attraverso l’introiezione del benessere ottenuto. La psicoterapia, così intesa, non raggiunge per l’autore lo scopo della psicoanalisi: ossia, le modificazioni strutturali dell’Io .
In realtà, il setting andava adeguandosi alle esigenze del benessere di un paziente di più ampio respiro, sempre più complesso, meno elitario, nella sua ambivalente funzione di scena psicoanalitica e/o psicoterapeutica.
Autori come Gill mettono in discussione il modello della tecnica di base di Eissler fondato sulla analisi classica. Gill sottolinea che la pretenziosità di un unico tipo di setting utile alla rivelazione di un tranfert più puro di altri nell’ambito del processo psicoanalitico, si scontra con la stessa evidenza che il transfert risulta specifico di ogni paziente che a sua volta caratterizza il setting stesso. Pertanto, le posizioni successive di Gill (1984), ben si inserirono all’interno della tradizione interpersonale o relazionale in psicoanalisi.
A Gill (1984) va il merito di aver sistematizzato le regole del setting, definendo i criteri intrinseci e quelli estrinseci della psicoanalisi, corrispondenti a quelli che Leo Stone, chiamò rispettivamente funzionali e formali(1954), includendo nei criteri intrinseci i riferimenti teorici della tecnica, e nei criteri estrinseci gli aspetti descrittivi della tecnica stessa come strumenti di lavoro.
A proposito dei criteri intrinseci della psicoanalisi, si può riassumere la sistematizzazione di Gill(1954)nella centralità dell’analisi del transfert, nella neutralità dell’analista, utilità della induzione di una nevrosi di transfert regressiva e quindi nella interpretazione come strumento risolutivo la nevrosi transferale regressiva. Nei criteri estrinseci Gill includeva la trattazione di temi come la frequenza delle sedute, di cui a tutt’oggi non vi sono dimostrazioni scientifiche sul numero ottimale correlato al risultato, ma la cui silente continuità è di per se strumento del concetto di setting di valore epistemologico; inoltre, l’uso del lettino, che raggiunge lo strumentario del setting attuale: leggendario è l’uso che Freud fece del lettino in senso controtransferale, di difesa personale dagli sguardi dei suoi pazienti per otto ore al giorno e non ne fece mistero, sebbene non applicò regolarmente il criterio con tutti i suoi pazienti (l’Uomo dei lupi). In realtà, Gill pur restando fedele alla analisi classica lascia aperta e flessibile la questione dei criteri estrinseci.
Questi stessi criteri subirono più tardi ulteriore revisione a seguito della inclusione di setting in strutture pubbliche e con terapie brevi su pazienti con sindromi complesse(Bolko, Merini 1988). La necessità del rimaneggiamento dei concetti che Gill pubblica nel 1984, segue alla revisione teorica della analisi del transfert in una prospettiva relazionale del setting come l’evoluzione dei tempi indica, con inclusione di trattamenti in strutture pubbliche e con più ampio bacino di patologia.
Dunque, anche sulla interpretazione come fattore curativo nel setting e sul suo concetto si sono ugualmente avvicendate sorti alterne. L’interpretazione esce dalla Conferenza di Edimburgo, di cui si è fatta menzione, come concetto forte nel senso di verità della interpretazione.
A parere di Migone, oggi si rischia una tendenza inversa alle posizioni rigide prese ad Edimburgo, in favore di un setting empatico e felice dove il rapporto ed il calore umano diventa unico fattore di cura (Migone,2002).
La direzione impressa da Ida Macalpine fin dal 1950, infatti, nonostante la Conferenza di Edimburgo, lascia la sua impronta sulla psicoanalisi che […]pone e mantiene l’analizzando in un setting infantile, sia ambientale che emotivo e l’analizzando si adatta gradualmente a esso regredendo e sviluppando una nevrosi di tranfert(Del Corno, 1989).
Si precorrono concetti di regolazione reciproca (si veda l’Infant research degli anni Settanta) della relazione madre-bambino applicata al setting: ci sarebbero comportamenti strategici consci e inconsci ( volti a provocare, inibire, modulare o rafforzare esperienze emotive) che rimangono costanti per il resto della vita la cui conoscenza può essere utilmente applicabile nella azione analitica(Gazzillo, Lingiardi,2014).
Da allora in poi cambia la riflessione sul valore ed il ruolo del setting : Paula Heimann negli anni Cinquanta, col suo articolo Sul controtransfert(1950) viene considerata analista che aggiunge un ulteriore tassello di conoscenza del processo analitico. Persino le risposte dell’analista che rompe il silenzio ed interviene emotivamente sul set, perde il significato dominante di violazione da conflitto irrisolto dell’analista stesso, per trasformarsi in elemento di conoscenza del processo. L’analista non è più uno specchio appeso sulla parete di fronte al paziente su cui riflettere la archeologia mnemonica o riverberare luce nelle catacombe delle resistenze, ma interprete emotivamente ed attivamente coinvolto nel processo.
Ritrovano spazio nel setting, come detto, concetti di holding e di area transizionale di Winnicott, e di contenitore e contenuto di Bion.
Winnicott si esprime con queste parole nel 1971:
"La psicoterapia si fa nella sovrapposizione di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. Se il terapeuta non sa giocare, allora non è adatto a questo lavoro. Se il paziente non sa giocare bisogna fare qualcosa per metterlo in condizione di poter giocare, dopo di che la psicoterapia può cominciare".
Nel giuoco delle parti, il fluttuare si fa dell’atteggiamento analitico che oscilla insieme al processo tra transfert e controtransfert nel tempo del processo.
Il progresso nella conoscenza del vissuto del paziente passa proprio attraverso l’attenzione alla individuazione di queste trasformazioni. Il setting materiale, garante stabile che non ha possibilità di interferire, permette un distillato della relazione nella osservazione delle oscillazioni tranfert-controtranfert. In ciò l’ipotesi nella visione di Codignola(1977).
Il setting esterno, la cornice di lavoro, diventa punto di riferimento del setting interno, esperienza e conoscenze teoriche, dell’analista(Del Corno).
In tempi più recenti, la fissità della cornice trova in Semi (1997) una riproposizione, per cui per l’autore il setting costituisce quell’assetto relazionale analitico che l’analista deve assumere e conservare per tutta la durata del trattamento: è la condizione fondamentale e insostituibile perché si possa fare psicoanalisi.
La condizione suddetta[…]serve a consentire al paziente di realizzare esperienze che abbiano relazione con il proprio inconscio, con la propria infanzia, con i propri conflitti (Di Chiara ,1971).
Lo stesso Di Chiara(1977) riflette poi sul rapporto tra paziente e setting. Secondo l’autore il paziente mette in atto difese specifiche attraverso un vero e proprio esercizio di pressione sull’analista atto a modificare il setting stesso perché esso meglio si accomodi al soddisfacimento delle proprie fantasie. Inizialmente il setting è vissuto dal paziente come una situazione esterna, si potrebbe dire stravagante, e quindi la fissità del cerimoniale aiuta a cogliere le oscillazioni come anche in tutte quelle condizioni di conflitto della coppia terapeutica. La riconosciuta bi-direzionalità tranfert-controtranfert ridisegna complessivamente il significato del setting negli ultimi decenni: esso opera attraverso il potere trasformante delle emozioni inconsce di entrambi, analista ed analizzando, ponendo sempre più in primo piano l’interesse per l’azione terapeutica della relazione piuttosto che dei movimenti esclusivi del paziente. L’inconscio dell’analista carico delle sue stesse istanze biografiche di personalità eccede il processo analitico stesso invece di essere ad esso subordinato.
Schafer(1983) fa notare che negli analisti può farsi largo un bisogno narcisistico di star bene con l’altro a seguito di vissuti di deprivazione e solitudine, depressione ed allo stesso tempo di grandiosità nelle cure analitiche. L’analista per Schafer corre il rischio di interpretare una figura benevola, non istintuale, riparatrice. L’autore sentenzia che(Del Corno,1989)[…] Per tutti questi motivi e per altri ancora, può accadere che per l’analista diventi troppo importante mantenere la pace resistendo all’analisi della resistenza. La scena analitica, di conseguenza, può essere tranquilla ma molto confusa. E’ un caso di collusione. Bisogna essere in due per confondere le acque.
La criticità del setting passa, dunque, attraverso la complessità delle emozioni relazionali bidirezionali e la sua area spazio-temporale deve potersi prestare a renderle pensabili. La psicoanalisi si orienta progressivamente dalla focalizzazione sul setting alla centralità della relazione, dall’individuo alla coppia che interagisce, nella logica della modalità affettiva per condurre l’individuo-soggetto-persona fino alla creatività primaria di Winnicott.
La Infant Research, è innegabile, dà una spinta significativa all’atteggiamento nel setting, che caratterizza come un’onda sotterranea trasversale le diverse correnti psicoanalitiche fino ad oggi, a partire dallo stesso Ferenczi, passando attraverso la analisi interpersonale di Sullivan fino alla psicologia del Sé di Kohut, dissidente storico della ortodossia americana, ed allo stesso tempo protagonista del successo della empatia come metodo di cura nel setting della ferita narcisistica cronica, iatrogena ortodossa, si potrebbe aggiungere, inferta dagli psicoanalisti americani fedeli alla interpretazione tout court.
Una sorta di ricorso storico è quello del dibattito Kohut-Kernberg sul ruolo curativo relazionale empatico delle personalità narcisistiche, sovrapponibile a quello di Gitelson nella citata Conferenza.
Ricerche fatte da Leff(1988) ed Hooney(1985) sulla schizofrenia, mettono in luce il valore terapeutico di concetti di attaccamento e della identificazione col terapeuta piuttosto che il lavoro di insight.
L’isolamento di una tecnica pura depurata del fattore umano è puramente teorica secondo Gunderson (1988). La pretesa separazione teorica della diade” attaccamento-comprensione”, è impraticabile nella evidenza clinica e dunque sulla scena del setting dove invece i due termini appaiono strettamente congiunti .
Nella più recente ricerca scientifica, sia attinente il processo nel setting che l’esito terapeutico(Luborsky,1984), vi è che l’alleanza terapeutica correla col risultato positivo per il raggiungimento dello scopo.(Migone,1989)
L’alleanza è una componente fondamentale del setting, presupposto di esperienze di transfert e di identificazioni col terapeuta che possono mutare l’esperienza del vissuto patogenico del paziente. L’alleanza terapeutica, dunque, fatta della fiducia della coppia terapeutica verso uno scopo correla positivamente col risultato. Meissner identifica le componenti principali della alleanza terapeutica nella empatia, responsabilità, autorità, libertà, fiducia, autonomia, iniziativa ed etica.
Far conscio l’inconscio, coi limiti del significato, era stata l’indicazione di Freud(Freud, L’inconscio) e resta ancora oggi una indiscussa eredità compresa tra i fattori curativi della psicoanalisi, i cui meccanismi di azione nel processo del setting, alla stregua di un farmaco etiologico, sono stati e sono oggetto di una messe prolifica di concettualizzazioni, mostrando di volta in volta nuove proprietà o effetti collaterali. L’aforisma, che riassume il fare esperienza di transfert nel setting, chiarito attraverso l’interpretazione, conserva cionondimeno la promessa di liberazione dalla dimensione maledetta della ripetizione traumatica, radicalizzandola a proprio vantaggio od addirittura trasformandola insieme all’analista, che si lascia usare emotivamente nella sua soggettività sul set della relazionalità, nella visione contemporanea.
Già nel 1938 Glover avvia una famosa inchiesta volta a verificare cosa facciano effettivamente gli psicoanalisti nel setting. Il risultato di quella indagine rivela che nonostante le dichiarazioni in favore dell’atteggiamento analitico neutrale, dell’astensione, del silenzio e delle restanti prescrizioni intrinseche ed estrinseche(Gill,1984), in realtà vengono applicate nel setting una serie di deroghe, come contatti telefonici ed epistolari coi pazienti, la introduzione della dimensione giocosa e così via(sia pure con riluttanza e non nella accezione del parametro della tecnica).
Eissler(1953) introduce per primo questo concetto per cercare di disciplinare in qualche modo le costanti variazioni della tecnica classica, definita dall’autore come modello di tecnica di base(basic model technique).
Essa risulta efficace per un Io che tollera la frustrazione della pura interpretazione, quale quello dei pazienti nevrotici, ma si manifesta inidonea nel momento in cui si lavora con pazienti difficili che hanno una struttura deficitaria e sono bisognosi di rassicurazioni, consigli, modificazioni della posizione, che non trovano spazio in una applicazione rigida ed esclusiva della interpretazione.
Da ciò scaturisce la questione della differenziazione tra psicoanalisi e psicoterapia: per ottenere un reale cambiamento dell’Io, sostiene Eissler, non bisogna incorrere nel rischio del sequestro di materiale non analizzato proprio a causa della variazione del setting col parametro, senza un adeguato approfondimento dell’insight. Il parametro secondo Eissler, si rende strumento temporaneo al superamento di una impasse, per cui rimosso l’ostacolo, il parametro diventa esso stesso oggetto di esame interpretativo.
Secondo Eissler si definisce psicoterapia quella attività terapeutica con introduzione di parametri non eliminati, e dunque elementi stabili del setting, non analizzati.
La rassicurazione o il suggerimento comportamentale, dona al paziente un intuitivo ed evidente effetto benefico, ma ha lo svantaggio di non raggiungere un obbiettivo più potente e duraturo desiderato, attraverso l’introiezione del benessere ottenuto. La psicoterapia, così intesa, non raggiunge per l’autore lo scopo della psicoanalisi: ossia, le modificazioni strutturali dell’Io .
In realtà, il setting andava adeguandosi alle esigenze del benessere di un paziente di più ampio respiro, sempre più complesso, meno elitario, nella sua ambivalente funzione di scena psicoanalitica e/o psicoterapeutica.
Autori come Gill mettono in discussione il modello della tecnica di base di Eissler fondato sulla analisi classica. Gill sottolinea che la pretenziosità di un unico tipo di setting utile alla rivelazione di un tranfert più puro di altri nell’ambito del processo psicoanalitico, si scontra con la stessa evidenza che il transfert risulta specifico di ogni paziente che a sua volta caratterizza il setting stesso. Pertanto, le posizioni successive di Gill (1984), ben si inserirono all’interno della tradizione interpersonale o relazionale in psicoanalisi.
A Gill (1984) va il merito di aver sistematizzato le regole del setting, definendo i criteri intrinseci e quelli estrinseci della psicoanalisi, corrispondenti a quelli che Leo Stone, chiamò rispettivamente funzionali e formali(1954), includendo nei criteri intrinseci i riferimenti teorici della tecnica, e nei criteri estrinseci gli aspetti descrittivi della tecnica stessa come strumenti di lavoro.
A proposito dei criteri intrinseci della psicoanalisi, si può riassumere la sistematizzazione di Gill(1954)nella centralità dell’analisi del transfert, nella neutralità dell’analista, utilità della induzione di una nevrosi di transfert regressiva e quindi nella interpretazione come strumento risolutivo la nevrosi transferale regressiva. Nei criteri estrinseci Gill includeva la trattazione di temi come la frequenza delle sedute, di cui a tutt’oggi non vi sono dimostrazioni scientifiche sul numero ottimale correlato al risultato, ma la cui silente continuità è di per se strumento del concetto di setting di valore epistemologico; inoltre, l’uso del lettino, che raggiunge lo strumentario del setting attuale: leggendario è l’uso che Freud fece del lettino in senso controtransferale, di difesa personale dagli sguardi dei suoi pazienti per otto ore al giorno e non ne fece mistero, sebbene non applicò regolarmente il criterio con tutti i suoi pazienti (l’Uomo dei lupi). In realtà, Gill pur restando fedele alla analisi classica lascia aperta e flessibile la questione dei criteri estrinseci.
Questi stessi criteri subirono più tardi ulteriore revisione a seguito della inclusione di setting in strutture pubbliche e con terapie brevi su pazienti con sindromi complesse(Bolko, Merini 1988). La necessità del rimaneggiamento dei concetti che Gill pubblica nel 1984, segue alla revisione teorica della analisi del transfert in una prospettiva relazionale del setting come l’evoluzione dei tempi indica, con inclusione di trattamenti in strutture pubbliche e con più ampio bacino di patologia.
Dunque, anche sulla interpretazione come fattore curativo nel setting e sul suo concetto si sono ugualmente avvicendate sorti alterne. L’interpretazione esce dalla Conferenza di Edimburgo, di cui si è fatta menzione, come concetto forte nel senso di verità della interpretazione.
A parere di Migone, oggi si rischia una tendenza inversa alle posizioni rigide prese ad Edimburgo, in favore di un setting empatico e felice dove il rapporto ed il calore umano diventa unico fattore di cura (Migone,2002).
La direzione impressa da Ida Macalpine fin dal 1950, infatti, nonostante la Conferenza di Edimburgo, lascia la sua impronta sulla psicoanalisi che […]pone e mantiene l’analizzando in un setting infantile, sia ambientale che emotivo e l’analizzando si adatta gradualmente a esso regredendo e sviluppando una nevrosi di tranfert(Del Corno, 1989).
Si precorrono concetti di regolazione reciproca (si veda l’Infant research degli anni Settanta) della relazione madre-bambino applicata al setting: ci sarebbero comportamenti strategici consci e inconsci ( volti a provocare, inibire, modulare o rafforzare esperienze emotive) che rimangono costanti per il resto della vita la cui conoscenza può essere utilmente applicabile nella azione analitica(Gazzillo, Lingiardi,2014).
Da allora in poi cambia la riflessione sul valore ed il ruolo del setting : Paula Heimann negli anni Cinquanta, col suo articolo Sul controtransfert(1950) viene considerata analista che aggiunge un ulteriore tassello di conoscenza del processo analitico. Persino le risposte dell’analista che rompe il silenzio ed interviene emotivamente sul set, perde il significato dominante di violazione da conflitto irrisolto dell’analista stesso, per trasformarsi in elemento di conoscenza del processo. L’analista non è più uno specchio appeso sulla parete di fronte al paziente su cui riflettere la archeologia mnemonica o riverberare luce nelle catacombe delle resistenze, ma interprete emotivamente ed attivamente coinvolto nel processo.
Ritrovano spazio nel setting, come detto, concetti di holding e di area transizionale di Winnicott, e di contenitore e contenuto di Bion.
Winnicott si esprime con queste parole nel 1971:
"La psicoterapia si fa nella sovrapposizione di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. Se il terapeuta non sa giocare, allora non è adatto a questo lavoro. Se il paziente non sa giocare bisogna fare qualcosa per metterlo in condizione di poter giocare, dopo di che la psicoterapia può cominciare".
Nel giuoco delle parti, il fluttuare si fa dell’atteggiamento analitico che oscilla insieme al processo tra transfert e controtransfert nel tempo del processo.
Il progresso nella conoscenza del vissuto del paziente passa proprio attraverso l’attenzione alla individuazione di queste trasformazioni. Il setting materiale, garante stabile che non ha possibilità di interferire, permette un distillato della relazione nella osservazione delle oscillazioni tranfert-controtranfert. In ciò l’ipotesi nella visione di Codignola(1977).
Il setting esterno, la cornice di lavoro, diventa punto di riferimento del setting interno, esperienza e conoscenze teoriche, dell’analista(Del Corno).
In tempi più recenti, la fissità della cornice trova in Semi (1997) una riproposizione, per cui per l’autore il setting costituisce quell’assetto relazionale analitico che l’analista deve assumere e conservare per tutta la durata del trattamento: è la condizione fondamentale e insostituibile perché si possa fare psicoanalisi.
La condizione suddetta[…]serve a consentire al paziente di realizzare esperienze che abbiano relazione con il proprio inconscio, con la propria infanzia, con i propri conflitti (Di Chiara ,1971).
Lo stesso Di Chiara(1977) riflette poi sul rapporto tra paziente e setting. Secondo l’autore il paziente mette in atto difese specifiche attraverso un vero e proprio esercizio di pressione sull’analista atto a modificare il setting stesso perché esso meglio si accomodi al soddisfacimento delle proprie fantasie. Inizialmente il setting è vissuto dal paziente come una situazione esterna, si potrebbe dire stravagante, e quindi la fissità del cerimoniale aiuta a cogliere le oscillazioni come anche in tutte quelle condizioni di conflitto della coppia terapeutica. La riconosciuta bi-direzionalità tranfert-controtranfert ridisegna complessivamente il significato del setting negli ultimi decenni: esso opera attraverso il potere trasformante delle emozioni inconsce di entrambi, analista ed analizzando, ponendo sempre più in primo piano l’interesse per l’azione terapeutica della relazione piuttosto che dei movimenti esclusivi del paziente. L’inconscio dell’analista carico delle sue stesse istanze biografiche di personalità eccede il processo analitico stesso invece di essere ad esso subordinato.
Schafer(1983) fa notare che negli analisti può farsi largo un bisogno narcisistico di star bene con l’altro a seguito di vissuti di deprivazione e solitudine, depressione ed allo stesso tempo di grandiosità nelle cure analitiche. L’analista per Schafer corre il rischio di interpretare una figura benevola, non istintuale, riparatrice. L’autore sentenzia che(Del Corno,1989)[…] Per tutti questi motivi e per altri ancora, può accadere che per l’analista diventi troppo importante mantenere la pace resistendo all’analisi della resistenza. La scena analitica, di conseguenza, può essere tranquilla ma molto confusa. E’ un caso di collusione. Bisogna essere in due per confondere le acque.
La criticità del setting passa, dunque, attraverso la complessità delle emozioni relazionali bidirezionali e la sua area spazio-temporale deve potersi prestare a renderle pensabili. La psicoanalisi si orienta progressivamente dalla focalizzazione sul setting alla centralità della relazione, dall’individuo alla coppia che interagisce, nella logica della modalità affettiva per condurre l’individuo-soggetto-persona fino alla creatività primaria di Winnicott.
La Infant Research, è innegabile, dà una spinta significativa all’atteggiamento nel setting, che caratterizza come un’onda sotterranea trasversale le diverse correnti psicoanalitiche fino ad oggi, a partire dallo stesso Ferenczi, passando attraverso la analisi interpersonale di Sullivan fino alla psicologia del Sé di Kohut, dissidente storico della ortodossia americana, ed allo stesso tempo protagonista del successo della empatia come metodo di cura nel setting della ferita narcisistica cronica, iatrogena ortodossa, si potrebbe aggiungere, inferta dagli psicoanalisti americani fedeli alla interpretazione tout court.
Una sorta di ricorso storico è quello del dibattito Kohut-Kernberg sul ruolo curativo relazionale empatico delle personalità narcisistiche, sovrapponibile a quello di Gitelson nella citata Conferenza.
Ricerche fatte da Leff(1988) ed Hooney(1985) sulla schizofrenia, mettono in luce il valore terapeutico di concetti di attaccamento e della identificazione col terapeuta piuttosto che il lavoro di insight.
L’isolamento di una tecnica pura depurata del fattore umano è puramente teorica secondo Gunderson (1988). La pretesa separazione teorica della diade” attaccamento-comprensione”, è impraticabile nella evidenza clinica e dunque sulla scena del setting dove invece i due termini appaiono strettamente congiunti .
Nella più recente ricerca scientifica, sia attinente il processo nel setting che l’esito terapeutico(Luborsky,1984), vi è che l’alleanza terapeutica correla col risultato positivo per il raggiungimento dello scopo.(Migone,1989)
L’alleanza è una componente fondamentale del setting, presupposto di esperienze di transfert e di identificazioni col terapeuta che possono mutare l’esperienza del vissuto patogenico del paziente. L’alleanza terapeutica, dunque, fatta della fiducia della coppia terapeutica verso uno scopo correla positivamente col risultato. Meissner identifica le componenti principali della alleanza terapeutica nella empatia, responsabilità, autorità, libertà, fiducia, autonomia, iniziativa ed etica.
Far conscio l’inconscio, coi limiti del significato, era stata l’indicazione di Freud(Freud, L’inconscio) e resta ancora oggi una indiscussa eredità compresa tra i fattori curativi della psicoanalisi, i cui meccanismi di azione nel processo del setting, alla stregua di un farmaco etiologico, sono stati e sono oggetto di una messe prolifica di concettualizzazioni, mostrando di volta in volta nuove proprietà o effetti collaterali. L’aforisma, che riassume il fare esperienza di transfert nel setting, chiarito attraverso l’interpretazione, conserva cionondimeno la promessa di liberazione dalla dimensione maledetta della ripetizione traumatica, radicalizzandola a proprio vantaggio od addirittura trasformandola insieme all’analista, che si lascia usare emotivamente nella sua soggettività sul set della relazionalità, nella visione contemporanea.