INDICE
PRIMA PARTE
Introduzione
Il setting e la teoria della tecnica nella storia.
SECONDA PARTE
Il setting nel processo della relazione analitica
TERZA PARTE
Il setting in azione.
Bibliografia
PRIMA PARTE
Introduzione
L’analisi, come esperienza relazionale unica ed irripetibile sul palcoscenico del dramma personale, prende corpo nel tempo del racconto, tra memorie e transfert, sogni ed interpretazioni, all’interno della architettura organizzativa del setting che incornicia la coppia analista-analizzando, impegnata ad interpretare la trasformazione.
Argomento complesso quello del setting, non può trasformarsi in un mero elenco alfabetico di strumenti e del loro manuale d’uso progressivamente aggiornato nella sua controversa evoluzione storica.
Cuore pulsante del setting è la mente emozionale nella relazione, tra paziente richiedente ben-essere e terapeuta disposto a liberarlo dal mal-essere nel percorso psicoanalitico.
Il setting è il contesto spazio-temporale della azione analitica dove le emozioni esplorano la parola, teatro psichico(Mc Dougall,1989), su cui si consuma la metafora della scena, del set, luogo stabile di sfondo che osserva la mutevole interazione emotiva ambiente-paziente nel tempo sferico del ricordare, rivivere ed interpretare.
Il setting e la teoria della tecnica nella storia.
Freud non usò mai la parola setting ed a posteriori si potrebbe persino dire che affrontò la questione della ritualizzazione dei suoi incontri con i pazienti con disinvolto pragmatismo.
E’ noto, e si riporta ad esempio, che Freud dedicando trenta ore settimanali alla sua attività clinica a cinque pazienti per sei giorni alla settimana, a fronte della pressante richiesta, sottrasse ad ognuno di loro un’ora alla settimana, facendo spazio al sesto paziente con un bilancio matematico, semplicemente. Alla luce della evoluzione della psicoanalisi, questa scelta potrebbe apparire un agito dello stesso illustre capostipite, apparentemente incurante della sua violazione( Gabbard e Lester,1995) dei confini del contratto nel setting. In realtà, se si tiene conto che il paziente freudiano era essenzialmente ad organizzazione nevrotica, si comprende come la scena in se potesse restare in secondo piano tanto per l’analista quanto per l’analizzato, giustificando la brevità dei suoi approfondimenti in merito alla questione. Eppure, secondo diversi autori( Modell, 1990), rimane il convincimento che il contributo di Freud al setting sia sostanziale, pur non avendo mai pubblicato uno scritto dedicato, ma Consigli sulle procedure della tecnica analitica, raggruppabili in sei scritti tecnici, sebbene il progetto iniziale fosse un’opera organica intitolata Tecnica generale della psicoanalisi.
Genovese (1988) scrive che " Freud suggerì tuttavia alcuni accorgimenti pratici (regolarità dei colloqui, regola dell’astinenza, neutralità dell’analista, ecc…) il cui fine era quello di sviluppare una situazione interpersonale del tutto particolare caratterizzata da:
1. Isolamento, al fine di proteggere la relazione dalla realtà esterna;
2. Sospensione dell’azione, affinchè potesse emergere in modo più evidente la produzione emozionale e psichica del paziente;
3. Maggiore controllo delle eventuali “irruzioni” della realtà interna tanto del paziente
quanto del terapeuta;
4. Una agevolazione delle manifestazioni del tranfert ."
Freud definì molti dei suoi accorgimenti come opzionali, ossia come possibilità tecniche ritagliate sulla sua personalità e quindi applicabili o no da altri terapeuti. E via via che la teoria sul transfert evolveva, ineluttabilmente si modificava la teoria della tecnica clinica, portandosi dalla bella epoque de L’uomo dei topi(1909), cui Freud offriva tè ed aringhe, alla concettualizzazione dell’analista come specchio riflettente le manifestazioni comportamentali del paziente(Etchegoyen,1986).
Gli scritti tecnici offrono pertanto una gamma articolata di temi tanto pratici(orari, incontri, divano, contatti con i familiari), quanto dottrinali. Su questi ultimi Freud mantenne criteri esigenti e rigorosi :essi riguardavano l’atteggiamento del terapeuta (attenzione fluttuante, assenza di ambizione curativa, astinenza e neutralità stabilmente presenti), ed i contenuti (transfert, sogni, interpretazioni) che costituiscono il vero processo del percorso terapeutico. Sotto la spinta della proposta di Ferenczi, allievo di Jung, all’utilizzo di tecniche attive( consigli, divieti, rilassamento del corpo…) per vivificare la stagnazione del processo psicoanalitico, Freud fu indotto nel 1918 a revisione del contesto temporale e spaziale del trattamento, per evitare che elementi seduttivi e manipolatori potessero insidiare la relazione terapeutica. Il setting doveva restare un lavoro di simbolizzazione in cui svelare, riconoscere ed analizzare il transfert, attività correlata tanto alle competenze ed abilità del paziente di disseppellire antichi rimossi, tanto dell’analista di ricollocarli in un passato dal senso svanito.
In buona sostanza, il setting non soddisfa solo il suo funzionamento organizzativo della scenografia(orologio si-orologio no, lettino si-lettino no), ma deve necessariamente essere inteso nel suo intricato sistema di condizioni materiali e procedurali volto a promuovere il processo analitico che funziona nel suo insieme, e ciò accadeva fin dagli esordi. Sicchè, quando Freud raccomandava un ambiente protetto si riferiva alla atmosfera di sicurezza emotiva. Di più, quando Freud parlava dell’inconscio dell’analista come fosse una cornetta del telefono in ascolto dell’inconscio del paziente colto nella produzione di dati anamnestici emotivi e non, da tenere a mente piuttosto che in un taccuino di appunti, indicava un dato tecnico inscindibile dalla teoria della mente nel funzionamento relazionale.
Una trama complessa, insomma, se ci si interroga su tutte le variabili del processo e della loro reciproca e plastica rilevanza. Il setting diventa un sistema complesso biologicamente inteso, un microambiente autonomo interattivo che si riempie di oggetti in uno spazio ricco di significati nel tempo, il cui battito è la relazione(Vegetti Finzi,2014).
La consapevolezza di questa complessità si esprime nel suo spessore intorno agli anni Cinquanta- Sessanta con Winnicott(1955), Spitz( 1956) e Bleger(1967). La difformità d’opinioni sulla rilevanza degli elementi del setting si rese manifesta nella modalità di approccio al tema : si poteva trasmettere un eredità verbale (“tradizione orale” Bolko e Merini, 1988) attraverso comunicazioni maestro allievo sull’assetto materiale del setting mentre si rendeva necessario un sapere accademico della teoria nelle pubblicazioni scientifiche degli aspetti procedurali e teoretici. I consigli di Freud, che pur in origine aveva concesso flessibilità, finirono per diventare vessillo di una ortodossia ideologica irrigidita sulle dispute interne al movimento psicoanalitico(Thoma, Kakele, 1985).
Winnicott definisce in modo sintetico ed efficace il setting come la somma di tutti i particolari della tecnica e rende originale e suggestiva la sua immagine del setting di Freud con queste parole .
1.Ad un’ora fissata, ogni giorno, cinque o sei volte alla settimana, Sigmund Freud si
mette al servizio del paziente.
L’orario è deciso in modo conveniente sia per l’analista sia per il paziente.
2. All’ora stabilita l’analista è lì, si può contare su di lui. E’ vivo, respira.
3. Per il periodo di tempo limitato e prestabilito (circa un’ora) l’analista
si terrà sveglio e si preoccuperà del paziente.
4. L’analista esprime amore con il suo interesse positivo e odio con la sua rigidità
riguardo all’inizio e alla conclusione della seduta, come pure in materia d’onorario.
Odio e amore sono onestamente espressi, non negati cioè dall’analista.
5. Lo scopo dell’analisi è di entrare in contatto con il processo del paziente, di capire
il materiale presentato, di comunicare questa comprensione verbale. La resistenza
indica una sofferenza che può essere alleviata dall’interpretazione.
6. Il metodo dell’analista è quello dell’osservazione oggettiva.
7. Questo lavoro deve essere svolto in una stanza non di passaggio; una stanza
tranquilla, al riparo da rumori improvvisi e imprevedibili, senza, tuttavia, che vi sia un
silenzio di tomba e che vengano esclusi i rumori abituali di una casa. La stanza
deve essere adeguatamente illuminata, ma non da una luce diretta sugli occhi o
variabile. La stanza non è certamente buia, e deve essere calda e confortevole. Il
paziente si sdraia su di un divano in modo da essere comodo, se comodo riesce a
stare. Può eventualmente disporre si una coperta e di acqua da bere.
8. L’analista (com’è ben noto) esclude il giudizio morale dal suo rapporto con il paziente,
non prova alcun desiderio d’interferire con particolari della sua vita personale
né con le sue idee; non desidera neppure prendere le parti di nessuno nei sistemi
persecutori, nemmeno quando questi assumono la forma di situazioni reali locali,
politiche ecc., condivise.Naturalmente, se vi è una guerra o un terremoto, o se
il re muore, l’analista non può saperlo.
9. Nella situazione analitica, l’analista è una persona di cui ci si può fidare molto di
più che delle persone della vita quotidiana.Nel complesso, è puntuale, non fa capricci,
5. Lo scopo dell’analisi è di entrare in contatto con il processo del paziente, di capire
il materiale presentato, di comunicare questa comprensione verbale. La resistenza
indica una sofferenza che può essere alleviata dall’interpretazione.
6. Il metodo dell’analista è quello dell’osservazione oggettiva.
7. Questo lavoro deve essere svolto in una stanza non di passaggio; una stanza
tranquilla, al riparo da rumori improvvisi e imprevedibili, senza, tuttavia, che vi sia un
silenzio di tomba e che vengano esclusi i rumori abituali di una casa. La stanza
deve essere adeguatamente illuminata, ma non da una luce diretta sugli occhi o
variabile. La stanza non è certamente buia, e deve essere calda e confortevole. Il
paziente si sdraia su di un divano in modo da essere comodo, se comodo riesce a
stare. Può eventualmente disporre si una coperta e di acqua da bere.
8. L’analista (com’è ben noto) esclude il giudizio morale dal suo rapporto con il paziente,
non prova alcun desiderio d’interferire con particolari della sua vita personale
né con le sue idee; non desidera neppure prendere le parti di nessuno nei sistemi
persecutori, nemmeno quando questi assumono la forma di situazioni reali locali,
politiche ecc., condivise.Naturalmente, se vi è una guerra o un terremoto, o se
il re muore, l’analista non può saperlo.
9. Nella situazione analitica, l’analista è una persona di cui ci si può fidare molto di
più che delle persone della vita quotidiana.Nel complesso, è puntuale, non fa capricci,
non s’innamora in modo coatto ecc.
10. Vi è una distinzione molto netta, nell’analisi, tra realtà e fantasia, per cui l’analista
non si offende per un sogno aggressivo nei suoi confronti.
11. La legge del taglione non esiste, se ne può esser certi.
12. L’analista sopravvive (Winnicott, 1955)"
10. Vi è una distinzione molto netta, nell’analisi, tra realtà e fantasia, per cui l’analista
non si offende per un sogno aggressivo nei suoi confronti.
11. La legge del taglione non esiste, se ne può esser certi.
12. L’analista sopravvive (Winnicott, 1955)"
Uno storico articolo dello stesso autore del 1941, che pose le fondamenta della metodologia osservazionale sui comportamenti dei neonati, vede anche la comparsa per la prima volta della parola sostantivata setting dal verbo inglese to set nel suo significato di disporre, mettere a punto. Tra verbo e sostantivo corre la stessa differenza che c’è tra gli elementi fissi del set, come scenario cinematografico, e gli elementi dinamici della scena che vi si anima, via via che transfert, sogni e contenuti interpretativi dialogano tra loro su un canovaccio avvincente.
Winnicott conferisce al setting una funzione di holding environment, nel significato di cura e contenimento della relazione affettiva, per cui l’analista si fa madre-ambiente sufficientemente buono nell’adattarsi ai bisogni affettivi del paziente come opportunità di sviluppo del suo vero sé. L’autore è indicato come una delle voci più autorevoli nel significativo contributo alla riformulazione del setting sui temi del contenimento, della spontaneità, della relazione analitica e del reciproco riconoscimento tra analizzando ed analista, posto comunque in atteggiamento critico attraverso i criteri di neutralità, astinenza, ed anonimato(Gazzillo, Lingiardi, 2014).
La ricerca di Winnicott apre possibilità terapeutiche a pazienti con sindromi complesse, dal momento che l’affinamento della teoria procedurale permette un lavoro non esclusivo e diretto solo verso pazienti con capacità di rappresentazione simbolica, ma anche con pazienti a cui una relazione primaria insufficiente, non ha permesso lo svilupparsi di un Io sufficientemente strutturato per mantenere le difese nei confronti dell'angoscia. In questo ultimo caso, il setting contenitivo diventa più importante dell'interpretazione. Scrive Winnicott .
" Il setting diventa il contenitore che permette al passato del paziente di essere il presente nello studio dell'analista. ... C'è per la prima volta nella vita del paziente l'occasione che si sviluppi un Io, che esso si integri a partire dai propri nuclei, che si instauri come Io corporeo, e anche che, iniziando a relazionarsi con gli oggetti, si opponga ad un ambiente esterno. ... Questo lavoro ci coglierà in fallo se la nostra comprensione dei bisogni dei pazienti riguarderà la mente piuttosto che lo psichesoma".
Il setting di Winnicott, diviene incubatrice del processo di strutturazione dell'Io attraverso l'organizzazione dell'Io corporeo. Per cui nel setting entra anche il corpo del paziente a buon diritto come primo organizzatore dell'Io.
Si giunge, così, a valorizzare l’apparente silenzio scenico del set per dar voce al silenzio relazionale interno del paziente nel trattamento di quelli che Winnicott chiama i disturbi dello sviluppo emozionale primario.
Gli anni Cinquanta, quindi, segnano l’incipit del dibattito che lega indissolubilmente gli approfondimenti scientifici sul setting alle osservazioni sui processi transferali e controtransferali che vi si attivano.
La Klein presenta nel 1953 alla Royal Medical-Psychological Association un suo lavoro sull'uso della tecnica psicoanalitica del gioco nella terapia dei bambini.
L’introduzione del gioco, come mezzo della espressione del mondo inconscio nella infanzia, getta ulteriore scompiglio in quasi tutte le condizioni del setting freudiano: l'interdizione della motricità e del contatto visivo non è praticabile nel lavoro con i bambini; la comunicazione non è solamente verbale, ma passa attraverso tutti i canali espressivi sensoriali, tatto compreso, contravvenendo ai dettami della ortodossia.
Spitz(1956), ed anche Macalpine(1950), Greenacre(1954), Lewin(1955) e Stone(1961), si occupano contestualmente della importanza del setting nella evoluzione delle diverse reazioni di transfert, analizzando per esempio gli elementi che facilitano l’alleanza o quelli che favoriscono una nevrosi di transfert, sollevando rispettivamente un funzionamento più adulto o una regressione con dipendenza infantile. Ancora, si interessano alla disamina del valore della posizione sdraiata con limitazione alla mobilità che rimanda al sonno, la deprivazione sensoriale visiva verso un interlocutore anonimo e silenzioso, che riassumono nel loro contributo scientifico, il peso degli elementi cosiddetti esterni del setting, mentre le libere associazioni completano la dimensione onirica della posizione di riposo tenuta dal paziente nel setting, nella sua componente teorico-procedurale della parte interna al processo.
Per Ida Macalpine l’intero cerimoniale analitico del setting con la riduzione degli stimoli oggettuali esterni, amplificato dallo stile neutrale dell’analista senza consigli e senza risposte, cui il paziente è costretto ad adattarsi, è elemento rilevante per il mantenimento della regressione infantile desiderata e la emersione della nevrosi da transfert sviluppata nei confronti del terapeuta, utile allo scioglimento dei suoi nodi nevrotici fino alla elaborazione ed al dissolvimento dei conflitti inconsci.
Balint, sempre nello stesso periodo storico, si muove nella medesima direzione teorica sulle orme di Winnicott, elevando a massimo agente terapeutico il setting a discapito della interpretazione. La ragione di questo viraggio risiede nella progressiva inclusione nel trattamento analitico di pazienti con patologie psichiatriche definite gravi, il cui vissuto, strutturatosi in difese arcaiche, rischiava di essere ulteriormente scompaginato proprio dalla interpretazione, potenzialmente percepita come pericolosamente persecutoria. Si solidificava progressivamente il concetto di setting come contenimento della condizione psicotica attraverso un meccanismo di interiorizzazione del setting stesso come oggetto buono capace di guardare la propria sofferenza(Bolko M., Merini A. ,1988).
Bleger nel 1967 pubblica un articolo: “Psicoanalisi dell'inquadramento psicoanalitico”, in cui indagò il significato del setting psicoanalitico proprio nella terapia di pazienti borderline e psicotici.
Gli autori suddetti hanno il merito di aver dato un contributo sostanziale a tutti questi approfondimenti.
Per la prima volta nel 1957 nell'ambito del XX Congresso dell'International Psycho-Analytical Association si istituisce una sezione di lavoro dedicata al setting.
Il termine situazione psicoanalitica viene introdotto in letteratura da Leo Stone(1961). Con questa definizione egli intese accorpare l’interezza degli aspetti del setting fissi e dinamici, interni ed esterni, come intesi fino ad allora.
Bleger precisa, in una pubblicazione del 1966, che il setting è un insieme di sfondo e scena, fisso e dinamico nello stesso tempo, nel quale si storicizza la relazione affettiva della coppia terapeutica, al pari della coppia simbiotica madre-bambino fino alla discriminazione di se stesso del paziente . Sfondo e scena, dunque, in cui l’uno non può prescindere dall’altra, configurando quello che egli stesso chiama processo, rinominando gli elementi fissi col termine encuadre. Bleger afferma la centralità identitaria del setting nel movimento psicoanalitico, ma l’interpretazione rimane per l’autore strumento fondante del processo analitico, imprescindibile per il lavoro dell’analista(Migone,1989).
Fu Bion nel 1967 a codificare il termine contenitore-contenuto, in senso materiale e figurativo dello spazio in cui l’analista(contenitore) contiene le angosce(contenuto) del passato del paziente e fino a quando il paziente abbia conquistato strumenti autonomi di gestione delle stesse.
Ma fin dal 1950 La Macalpine avvia, insieme agli autori già citati, un nuovo campo di indagine sul significato del setting che sembra prendere, dunque, due diverse direzioni: la prima, quella in cui la stanza dell’analisi è un posto confortevole, ma inattivo, per farla breve; la seconda, quella in cui il setting si guadagna un ruolo nella epistemologia analitica come agente terapeutico attivo, inseparabile dalla regola fondamentale e dalla interpretazione.
Guardando retrospettivamente la letteratura psicoanalitica fino agli anni Sessanta, il setting, nella attuale accezione, viene discusso frammentariamente. Nei testi classici come il Dizionario critico di Psicoanalisi di Rycroft(1968) e nella Enciclopedia della Psicoanalisi di Laplanche e Pontalis(1967) si trovano voci come astinenza e regola fondamentale, ma non vengono affrontati in maniera organica come aspetti concernenti il processo(Bolko M., Merini A. ,1988).
E’ inevitabile, a questo punto, la menzione di un evento topico del movimento psicoanalitico, la Conferenza di Edimburgo del 1961, che con un deciso passo indietro, congela a lungo nella interpretazione l’elemento curativo distintivo e fondante della psicoanalisi nel processo del setting, attribuzione condivisa dalla maggioranza degli analisti che vi prese parte, salvo voci isolate come Gitelson(1962) che indicavano la strada intrapresa da Strachey(1934) come evolutivamente percorribile. All’epoca sembrò, dunque, che l’evoluzione della psicoanalisi si riorientasse verso un concetto iper-freudiano della analisi nel setting, incurante delle stesse intuizioni di Freud e di Stachey sulla importanza del legame affettivo nella terapia, quasi a disvelare nel bisogno di un concetto forte il timore di perdere l’identità del movimento.
Ma a distanza di circa venticinque anni da allora, Migone scrive(1989):
"[…]pare vi sia una linea di tendenza inversa: il concetto di “verità della interpretazione” ha perso il ruolo centrale[…], riscoprendo altri aspetti della tecnica, come il contenitore, il rapporto emotivo, l’empatia, la relazione felice, ecc. Il rischio è che si ripeta un errore uguale e contrario, svalutando del tutto l’interpretazione e attribuendo al rapporto umano il ruolo di unico fattore curativo. Una tendenza forse maggioritaria è rappresentata da coloro che credono di aver ritrovato questo nuovo nucleo della psicoanalisi nel concetto di setting(Galli, 1988), in alcuni casi innalzandolo a vero e proprio fattore curativo accanto a quello della interpretazione, mostrando così di ripercorrere dei passi fatti dalla psicologia già vari decenni fa."
Dagli anni Settanta ad oggi il dibattito ondivago sul setting non trova una pacifica collocazione e diventa uno dei campi di ricerca fondamentali della psicoanalisi. Nel post-Freud, in soli venti anni gran parte dei vincoli che Freud aveva posto come fondamentali per il lavoro psicoanalitico vengono profondamente modificati e trasformati.
Nella corrente di pensiero della relazionalità come reale elemento di cura del setting, si inserisce nel suo massimo contributo la attuale ricerca sul rapporto paziente-analista, dove la figura asimmetrica dell’analista, depositario di conoscenza autorevole, perde la sua indiscussa oggettività interpretativa(di tradizione epistemologica positivista classica e di indirizzo interpersonale) per far posto ad una autentica reciprocità col paziente. Le conoscenze dell’analista, come teoria di riferimento, cambiano il loro modo d’uso.
Mitchell così si esprime(1993)(Gazzillo, Lingiardi,2014):
"Arriviamo a conoscere la realtà esterna soltanto attraverso la nostra esperienza di essa, che è, inevitabilmente, organizzata in base alle nostre idee, ai nostri presupposti, ai nostri desideri.[…]Capire qualcosa significa organizzarlo. Poiché l’organizzazione non sta unicamente nell’esperienza da comprendere, ma anche nella attività del comprendere, sono possibili organizzazioni diverse, spiegazioni diverse. Dire che l’esperienza è fondamentalmente ambigua, significa dire che il suo significato non è intrinseco o evidente, ma si presta a comprensioni e interpretazioni multiple".
In conclusione di questa breve rassegna storica, il setting è comunque uscito a testa alta(Lingiardi, de Bei,2008) dalle baruffe ideologiche e si è conservato come status symbol della psicoanalisi tra le diverse psicoterapie, nel suo indiscutibile valore materiale e procedurale.
(fine prima parte. Continua)
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