“Sull'altro lato
della luna mi cerco.
È capodanno.
Nella lanterna accesa
leggera ascendo
misteriose correnti
e solco un mare,
di cieli oscuri e gelidi.
Fra nubi e stelle
fluttua la mia coscienza.
Da lassù il mondo
tace e si fa minuscolo
ogni dolore
paura o solitudine.
Solo puntini
E intorno l'immensità”
“Amica mia
Cammina nel vento
Veste celeste e d'arancio
Calendole fresche
Mite riparo
Lindo il suo cuore
Confuse vite ricuce
Cometa strappata alla Notte
Donna di Luce Lei !”
Lucia Fontana
Per noi che la conoscevamo e la stimavamo , Lella.
Daniela Ajovalasit , cara amica e collega di Palermo , anche lei sua allieva, me l’ha comunicato in serata.
Pochi giorni fa, mi era venuto per le mani un libricino d ispirazione cristiana che Luisa mi aveva regalato nel 2008 ai tempi in cui andavo nel suo studio di Milano a confrontarmi in sedute di supervisione e psicoanalisi didattica : s’intitola “ Vivere e Morire” a cura di “Ore Undici” , dedicato al tema della fine dal punto di vista cristiano e psicoanalitico, un binomio messo all’indice in origine , ma come sottolinea Leonardo Ancona, psichiatra e psicoanalista di fede cristiano cattolica, nel suo “il debito della Chiesa alla Psicoanalisi, degno invece d’interesse, integrazione e ricerca.
Non ho potuto non pensare alla strana sincronicità dei due eventi : dopo sei anni , spuntando improvvisamente proprio poche settimane fa, questo prezioso libricino in qualche modo mi ha anticipato la notizia della sua scomparsa. Mi piace pensare che in qualche modo le nostre menti si sono incontrate di nuovo nel pensiero che valica le distanze e nel ricordo che le presentifica.
Non mi sono stupito di sapere che ci aveva lasciato , restando sereno di una serenità che non ho mai provato verso una notizia di morte .
Nell’intervista di V.Caretti a Laing del 1979 dal titolo “Intervista sul folle e il saggio “ed. laterza , Laing diceva che la mente è molto piu estesa di quel che crediamo : è come una radio , un network con tante stazioni radio quante sono le nostre teste .
Ricordo la figura snella, con i capelli tagliati corti e gli occhi chiari, il sorriso luminoso , la grande gentilezza d’animo, la sensazione di bontà- cui pure giustamente Notarbartolo si riferisce nella sua lettera ai soci italiani dell’ IIPG - che comunicava, unita ad un grande senso di rispetto per gli allievi e gli interlocutori : il suo studio ordinato, senza lettini simbolici ed estetizzanti , ma con due sedie francescane una di fronte all’altra, un piccolo tavolino con un portatile che Luisa usava con un po’ di diffidenza e parsimonia facendosi aiutare a comprendere il suo funzionamento .
Da giovane era stata un ematologa importante con viaggi di ricerca in Canada ma poi aveva deciso di specializzarsi in psichiatria, ( scoprimmo sorridendo di aver frequentato da allievi entrambi l’istituto di Guardia II del policlinico di Milano diretta da Carlo Lorenzo Cazzullo), e di seguire due training analitici, aveva frequentato Corrao a Roma , partecipato ai gruppi romani che precedettero la fondazione dell’Istituto italiano di psicoanalisi di gruppo ,e successivamente insieme a Eugenio Gaburri fare esperienza di analisi di gruppo che precedette l’apertura negli anni 90 della scuola milanese dell’ IIPG.
Lella era molto amata dagli studenti , la sua grande signorilità,umanità e gentilezza unita all’assenza di enfasi, affettazione e spocchia , si sposavano al rigore e alla serieta dell’approccio psicoanalitico e favorivano l’intrecciarsi di relazioni , come ricorda Crialesi nel suo scritto.
Penso che lo stile di Luisa fosse una sintesi unica di approccio intersoggettivo , Bioniano e spirituale , rara nell’ambiente psicoterapeutico. Come ricorda anche Claudia Finocchiaro nelle pagine seguenti, spesso si parlava dei suoi viaggi in india, di Osho , di yoga : al di là del nostro rapporto supervisore allievo,ci univa anche l’interesse per il Bion indiano, Krishnamurti,gli studi sulla mistica e gli stati di coscienza modificati del terapeuta . Avevamo anche entrambi conosciuti il Maestro indiano Vemu Mukunda, ingegnere nucleare e grande suonatore di Veena (una specie di sitar) che aveva sviluppato un metodo musicoterapeutico basato sulla filosofia indiana del suono .Ricordo che Lella aveva nello studio un armonium indiano tradizionale, un antico organetto alimentato da un mantice manuale ad aria per accompagnare il canto dei mantra.
Ai tempi, nel 2008, io avevo appena iniziato a curare il mio blog Stati della mente , proprio dedicato a quest’area di interesse - cui ero dedito sin dagli inizi degli anni 90 facendo ricerca con Marco Margnelli neurofisiologo studioso di estasi religiose e stigmate- pubblicando contributi sulla mistica di Freni, Comes, Amadei, Giampa, Caldironi, Facchinelli, Ferenczi. Mi pareva degno d’interesse e studio lo stato mentale del terapetuta , lo stato fluttuante della sua coscienza e attenzione cui spesso faceva riferimento il nostro amato e compianto Eugenio Gaburri, uno stato quasi di trance secondo Ferenczi e per far questo venivano buoni gli sconfinamenti al di fuori del campo psicoanalitico che poco s’erano occupati del tema. Tra le ultime parole tracciate da Freud sulla carta troviamo una nota che suona : ” Mistica,l'oscura autopercezione del mondo che è al di fuori dell'Io, dell'Es” (S. Freud, “Risultati, idee, problemi”, 1938). A partire dalla quell’oscura auto percezione e dall’autodichiarata scarsa familiarità con la musica e la mistica di Freud , c’è dunque sempre stato da quel punto in poi molto da studiare .
Lella si mostrò molto interessata al tema e propose un incontro da estendere anche ad altri colleghi : sfortunatamente il gruppo , dopo 5 incontri,non decollò e tutto rimase fermo ma non senza prospettive future. Claudia Finochiaro è stata preziosa custode delle registrazioni di quegli incontri che forse un giorno ritorneremo a studiare.
E poi c’era Marion Milner .
Fu Lella a farcela conoscere a lezione : aveva curato il volume La creatività nella stanza d’analisi. Marion Milner (1900-1998) nel 2003 con i colleghi della S.I.P.P. Paolo Di Benedetto, Rutilia Collesi, Marina Campanini, Mariella Paganoni, Rosetta Bolletti, Nicolas Contisas, Marilena Morello.
Marion Milner (1900- 1998 ) è stata una psicoanalista inglese.,londinese , scrittrice e pittrice che visse per quasi tutto il XX secolo ,che ha affrontato il tema della creatività psichica, parallela a quella pittorica, esprimendo una inesauribile energia di vivere, lavorare, scrivere e dipingere. Diversamente da Winnicott suo amico e contemporaneo , l’opera di Milner è un’autrice molto poco conosciuta e diffusa.
Milner riteneva che la ricerca sulla creatività potesse essere un possibile strumento per fare esperienza di ricerca spirituale e di trascendenza .
Come Winnicott, la sua opera guarda al simbolismo religioso dalla prospettiva della relazione madre bambino in un ottica transizionale.Lavorò , infatti,anche sul ruolo dei processi inconsci nell’esperienza religiosa.
Sia la creatività che la trascendenza possono essere esperite attraverso l’interfacciarsi della mente cosciente con l’inconscio.
Secondo Milner ,Cristo ha il potere di aprire alla creatività in un modo che l’adesione alla sola legge morale non può ottenere. Cristo è l’immaginazione che permette di essere consapevoli del mondo in un modo diverso , trascendente e mistico.
Milner sperimentò personalmente una pratica personale di attenzione contemplativa non focalizzata ma diffusa come tecnica di concentrazione meditativa. Affermava che questo stato conduce ad uno stato di Beatitudine cosmica, come Freud la definì. La creatività e questo stato di beatitudine cosmica – dice la Milner – sono noti soprattutto ai bambini.
Da questi pochi passi , si può capire perche Lella amava Milner e volle contribuire alla sua conoscenza in Italia.
C’è un passo di J. Krishnamurti che m’ha fatto pensare a Lella :
“Un uomo religioso non è quello che indossa una tonaca, o un perizoma, o che consuma un solo pasto al giorno, o che ha fatto numerosi voti di essere questo e non essere quello, bensì quello che è semplice interiormente, che non tende a diventare alcunché.
Una mente simile è capace di una ricettività straordinaria, perché in essa non ci sono barriere, ne paure, ne movimento verso qualcosa; è dunque capace di ricevere la grazia, Dio, la Verità, o quel che vi pare.
Una mente che persegue la realtà, invece, non è una mente semplice.
Una mente che cerca, si affanna, brancola in preda all'agitazione, non è una mente semplice.
Una mente che si conforma a un qualsiasi modello di autorità, interna o esterna, non può essere sensibile.
E soltanto quando una mente è veramente sensibile, vigile, consapevole di tutte le sue vicende, reazioni, pensieri, quando non tende più a diventare qualcosa, quando non plasma più se stessa per diventare qualcosa, solo allora è capace di accogliere ciò che è la verità. Quando la mente e il cuore saranno divenuti semplici e dunque sensibili (ma non attraverso a forme di coazione, di autorità, di imposizione), allora vedremo che i nostri problemi possono essere affrontati con molta semplicità: per quanto complessi tali problemi siano, saremo in grado di impostarli in maniera nuova e vederli in un ottica differente.
Ecco perché è così importante essere consapevoli, avere la capacità di comprendere il processo del proprio pensiero, avere una percezione totale di sè; da ciò scaturisce una semplicità, un'umiltà che non è virtù o esercizio.
L'umiltà che si conquista attraverso uno sforzo cessa di essere umiltà.
Una mente che si fa umile non è più una mente umile.
Solo quando si è umili, ma non di un'umiltà coltivata, solo allora si è in grado di affrontare i tanti problemi pressanti della vita, perché non ci si ritiene importanti, non si guarda alle cose attraverso il filtro delle proprie urgenze e del proprio senso d'importanza; si considera invece il problema in sè e così si è in grado di risolverlo”.
Come mi ricordava il caro amico Mariano Grossi, filologo classico , grecista e latinista :
"Semplicità naturale etimologicamente vuol dire essere unici senza doppiezze e sovrastrati auto o etero o allo indotti : simplex viene dalla radice indoeuropea *SEM + il suffisso plex che indica la modalitá del dispiegamento del soggetto; *SEM è appunto la stessa radice che si trova in greco nel numerale cardinale EIS, MIA, EN che vuol dire UNO.Ho ripensato alle parole di Nostro Signore: " sufficit diei malitia sua" e "se non vi farete semplici come questi bimbi non entrerete nel Regno dei Cieli ".
Io , che sono un notorio chiacchierone, ricordo com’ero pacificato dal silenzio partecipe e gentile delle sedute di supervisione con Lella. Senza che vi fossero forzature interpretative, come anche Crialesi non a caso ricorda,il pensiero lievitava nell’intersoggettività dell’incontro , non mi spiegavo come. Lella mi ricordava di “mordermi il labbro ogni tanto “ per controllare la mia tendenza a parlare troppo in seduta con i miei pazienti, per evitare di saturare tropo il campo dell’incontro col paziente, questo “Terzo” elemento fondamentale che puo rappresentare la vera cifra della singolarità di quell’incontro in cui ognuno esce da sé e ci si incontra nel mezzo come dice il Mistico Sufi Rumi.
Lella usava parlare di sé ogni tanto , quel che i tecnici chiamano Self disclosure, e per questo era criticata in sede di ortodossia psicoanalitica. Voleva esserci nell’incontro interamente come persona e chiedeva di essere percepita come tale e ascoltata , spiazzando le aspettative o, per carità, anche i legittimi bisogni di astinenza e neutralità dell’interlocutore. Ricordo che , chi la criticava per aver parlato a lezione delle sue vicende , diceva che ci sono delle parti matte dell’analista che vivono di posizioni teoriche cha si sono man mano talmente tanto distaccate dalla realtà da fluttuano in una vera e propria irrealtà.
Raccontò senza veli l’esperienza del suo primo ricovero denunciando con fermezza il clima burocratico ospedaliero in cui ci si puo venire ancor oggi a trovare privati della possibilità di essere coinvolti nelle decisioni che ci riguardano come persone e pazienti.
Voglio concludere questo mio breve ricordo di Lella, con una frase di Winnicott, uno dei nostri grandi Maestri : “ Signore fa’ che quando arrivi la Morte, mi trovi vivo !”
Guglielmo Campione
Mi sono avvicinato alla scuola di formazione sui gruppi dell'I.I.P.G. per amore verso Bion. In questa passione, come in ogni legame autentico, era contenuta un'eredità.
La mia prima esperienza terapeutica - giovane studente del corso di laurea in Psicologia nella mia città natale - fu in un gruppo condotto dal prof. Paolo Perrotti. Giunto a Milano e per caso indirizzato allo psicoanalista A. Ferro mi trovai a frequentare un gruppo di supervisione e quindi introdotto al pensiero di Bion.
Eppure solo dopo diversi anni di lavoro mi decisi ad avviare una nuova formazione e all'I.I.P.G. incontro la dottoressa L. Citterio per le sue lezioni su Bion. Ora nel ricordo sento di poter affermare: lezioni con Bion! La dot.ssa Citterio sapeva trasmettere rispetto senza ricorrere ad atteggiamenti austeri; illustrava il suo programma e ci invitava a leggere dei capitoli o un certo numero di pagine.
Nell'incontro successivo, con lievi commenti o domande, sollecitava gli interventi degli allievi. Questo stile d'insegnamento non vuole dimenticare chi ci ha preceduto, chi abbia più talento di noi, ma invita all'imprescindibile compito di far propria e autentica un'eredità.
L'impresa psicoanalitica è un vivere eventi intersoggettivi e riflettere sugli stessi mentre accadono. Nel farsi di questa esperienza sorgeranno parole, immagini, sentimenti e in un tempo necessario si potrà definire una gestalt capace di dare senso al vivere. La ricerca e definizione di senso indicano la potenza e la fatica di essere persone; questo compito costringe ad un confronto con quanto indichiamo come realtà, verità, illusione, progetto.
La vertiginosa apertura verso temi apparentemente distanti dai travagli terapeutici è stata affrontata da Bion non solo nelle opere concettuali. Da tempo mi chiedo il motivo per cui le circa settecento pagine disponibili nella nostra lingua, relative ai suoi indimenticabili seminari, non siano mai citate o utilizzate in ambito didattico.
I migliori maestri nella loro modalità di approssimarsi ai fenomeni trasmettono con l'esempio e non per declamazioni la fiducia nel proprio pensare; la tolleranza per la fatica e il tempo necessario a far emergere un punto di vista; il rispetto per l'alterità testimoniata dai pazienti.
Credo che la Citterio fosse una di queste persone. Troppe volte invece nella storia della psicoanalisi chi ricopre incarichi didattici si limita a dar voce alla tradizione, piuttosto che accompagnare alla conoscenza ravvicinata di un modello le proprie convinzioni maturate al sole dell'esperienza clinica.
La tendenza inevitabile dei pensieri a divenire strutture abitudinarie non poteva non investire la teoria e pratica analitica. Il pensatore anglo-indiano, con le sue riflessioni infaticabili e gli abiti linguistici per trasmettere le esperienze si è fatto acuto indagatore di questi pericoli.
Sento che il mio modo di tradurre i diversi insegnamenti di Bion sia debitore dell'incontro con la dot.ssa Citterio; ad esempio quando indicava l'importanza di come si legge piuttosto che inseguire delle quantità di pagine e autori.
Fu proprio l'esperienza di quelle lezioni ad indicarmi come necessaria la sua scelta come analista di gruppo nel percorso formativo. Tale decisione implicava la rinuncia al docente, ma avrei avuto altro - questo pensavo al momento - e a distanza di molti anni sento di aver fatto una scelta giusta.
Come poter raccontare la vita - per quattro anni - di un gruppo analitico? Posso partire da un dato iniziale: per il semplice fatto di essere "più di uno" dovevo già negoziare il desiderio di attingere alla Citterio analista e invece percorrere il sentiero faticoso della responsabilità e dell'incontro interpersonale con i colleghi del gruppo.
Ci propose un setting che veniva utilizzato da alcuni suoi colleghi di Roma: due sedute nella stessa giornata separate da un intervallo di un quarto d'ora. Questa indicazione accompagnata dal commento: con l'istituzione me la vedrò io. Una scelta mai oltre giustificata (come deve essere un setting) eppure indicativa di una libertà di pensiero rispetto a chi sia convinto che operare con tre sedute alla settimana assicuri al gruppo la genuinità di un lavoro analitico.
Nel ricordo affettuoso e riconoscente non ho mai sentito la Citterio analista intervenire con: "il gruppo in questo momento...". I suoi interventi sembravano quelli di un altro partecipante eppure capaci di sollecitare curvature al flusso dei dialoghi. Rimaneva responsabilità del collettivo e del singolo saper utilizzare le sue parole.
Questo è l'elemento fondante una prassi analitica. Potevo cogliere un esempio di astinenza e non la visione di un abito da lavoro dal colore uniforme. Alcuni professionisti credono che praticare psicoanalisi di gruppo sia produrre solo interpretazioni di gruppo rivolte al gruppo; di fatto delle interpretazioni di transfert mutuate da una certa pratica nel setting duale. Altro stile pensare ad interventi di gruppo quando, e se, utili e plausibili.
Una volta la Citterio fu aggredita, di sera, mentre si recava ad un incontro tra colleghi della scuola nella vecchia sede di via Settembrini, e si dilungò in una seduta nel riferire l'accaduto. Davanti al mio crescente imbarazzo spinto sino al desiderio di non sapere nulla mi rispose con semplicità: "Claudio non vuoi ascoltare, ma sono una persona".
Un giorno ricevetti la telefonata che informava dei problemi di salute della dott.ssa; avrebbe richiamato alla ripresa dell'attività. Al momento non colsi la portata di quella notizia sembrava solo l'avvertimento per una seduta saltata. Impiegai qualche ora per capire che l'assenza era imprecisata ed eravamo davanti ad un serio problema di salute. Passarono infatti sei mesi!
Il sollievo per la ripresa delle sedute non poteva esser disgiunto dalla speranza di ricevere delle informazioni. Ritrovammo la Citterio col suo sorriso e la sua integrità, seppur con gli indizi di un benessere ancora lontano. Pur evitando i dettagli ci raccontò delle sue peripezie e di alcuni pensieri intorno all'esser malata e al percolo di lasciare la vita. Altro esempio di come l'autenticità personale, essere "maestro", condividere con semplici parole quanto sperimentato (il linguaggio dell'effettività?) potesse aiutare il gruppo a far circolare pensieri e sentimenti.
Quel periodo difficile lo ricordo come centrale per strutturare la mia esperienza analitica nel percorso formativo. Un evento reale s'impone e induce pensieri, sentimenti, fantasie. Convivere con queste realtà mentali e reali produrrà degli effetti. Ognuno di noi sarà in grado, per come potrà, di tollerare il tempo necessario, ancor più critico se indipendente da nostre azioni, per modificare quei pensieri e sentimenti e renderli capaci di approssimarsi a quanto accade.
L'attesa ambigua di notizie; il ritorno al lavoro di gruppo; il termine del percorso formativo, nel succedersi di stati mentali, ha permesso di rievocare momenti della mia storia e recuperare fiducia nella capacità d'iniziativa. Fu incentivo ad operare scelte importanti nel futuro prossimo.
Ad un anno dal termine dell'analisi fui coinvolto in un gruppo di studio promosso dalla Citterio intorno a possibili convergenze tra il pensiero di Bion e gli insegnamenti derivati dalla tradizione orientale. Potei conoscere la Citterio animata da un fervore mistico e intellettuale che praticava da anni la meditazione come altra via per incontrare se stessi.
Il silenzio come compagno di strada; nella sospensione dal parlare (le pause nella musica sono indispensabili!) un momento di attesa... allora un'idea o parola potranno alimentare percorsi imprevisti. Nella sorpresa poter vivere la necessaria componente creativa di un lavoro terapeutico analitico; creatività volta a risolvere i problemi emotivi implicati nei legami e non come esercizio disincarnato. Le riflessioni su alcuni concetti di Bion assumevano il sapore di un pensare intorno alla mente per illuminare la nuda vita degli incontri terapeutici.
Diversi problemi organizzativi fecero sì che l'esperienza fosse interrotta.
In seguito ognuno prese le sue strade, ma portavo dentro di me il ricordo implicito e benevolo di un buon incontro. Confortato dalla presenza della Citterio.
Di colpo la notizia della sua scomparsa. Tristezza e nostalgia.
Ho sentito impellente il desiderio di partecipare alle sue esequie. Sorpreso che si svolgessero nella basilica di S. Ambrogio e qui insieme alla commozione l'ultima sorpresa! Venivo a conoscere la Citterio credente che frequentava settimanalmente una messa in latino (dalle parole di un sacerdote). Avevo intuito che oltre la sua pratica meditativa potesse esserci una fede religiosa, ma in nessuno dei contesti in cui l'avevo incontrata aveva esplicitato questa affiliazione. Altro insegnamento di neutralità e protezione di uno spazio personale senza venir meno alla generosa condivisione. Ammetto di esser rimasto stupito dalla scarna presenza di colleghi, ma forse era solo un freddo sabato pomeriggio.
Grazie ancora Lella Citterio.
Felice per averti conosciuto.
Riconoscente per le tue parole e i tuoi insegnamenti.
Claudio Crialesi
Fu una scelta dettata dal cuore.
Vidi Lella per la prima a volta a lezione nel corso del primo anno di frequentazione dell’IIPG e me ne “innamorai”. La sua voce, il suo paziente ed attento metodo di lettura e condivisione dei testi di W. Bion mi appassionò a tal punto che la scelsi come tutor per tutti gli anni di scuola. Ricordo i suoi occhi, intensi e profondi, la sua voce calda a rassicurante e il suo naturale modo di mettere chiunque a proprio agio, libero di esprimere senza resistenze ogni idea e sensazione in un dialogo alla pari, di crescita reciproca. La immagino nell’angolo del suo studio sulla sua semplice sedia da regista e ricordo ancora oggi le sensazioni che provavo durante i nostri incontri.
Lella era per me un contenitore capace di accogliere qualsiasi contenuto, sensibile forte e curiosa. Forse proprio per questo era così capiente da potersi permettere self-disclosure che lasciavano sbalorditi. Era capace di parlare di se stessa e delle sue esperienza con piena lucidità e consapevolezza, come novelle zen capaci di mostrare il suo autentico essere e di trasmettere messaggi che ti colpivano nel profondo. C’era sempre spazio in lei per ogni idea, era capace di incoraggiare ogni parte dell’essere umano. Quando timidamente, attraverso cenni nei miei primi scritti, le confessai la mia passione per l’oriente e per le discipline che si occupano del corpo e della meditazione fu la prima ad incoraggiarmi. Temevo che questa mia parte poco “ortodossa” potesse essere contestata, trovai invece un’alleata, capace di farmi mettere a nudo e di dare coerenza ed armonia alle tante anime che si celavano dentro di me. Esplorando con me i miei pensieri mi ha insegnato ad essere tollerante, a cogliere senza paura la complessità del mondo e dell’essere umano, a mettere insieme insegnamenti che dall’occidente all’oriente univano il mondo. Fu così che iniziammo a parlare di psicoanalisi e di meditazione ed in particolare ci divertivamo, mano a mano che io scoprivo i testi di Bion, a ragionare liberamente sui collegamenti tra il pensiero bioniano e la meditazione. Lella era appassionata di Osho Rajneesh, aveva visitato la sua comunità Indiana e sperimentato la meditazione dinamica. Io avevo seguito la tradizione di Paramahansa Yogananda e sperimentato in india diverse forme di meditazione. I nostri incontri erano curiosi, interessanti ricchi di spunti e riflessioni. Anche le idee più bizzarre erano oggetto di confronto e discussione, le nostre esperienze dirette fonte di analisi e osservazione. Lella mi ha fatto comprendere cosa fosse realmente apprendere dall’esperienza, non semplicemente leggere un libro ma portarlo a frutto dentro di me, dargli vita e spazio attraverso la riflessione ed il confronto.
Un’idea accarezzò le nostre menti. W. Bion era nato a Muttra, nelle Province Unite dell’India nel 1897. Da molte generazioni la sua famiglia prestava servizio in India. Bion fu mandato in Inghilterra a frequentare la scuola preparatoria all’età di 8 anni. Possibile che la tradizione, la filosofia, la cultura indiana avessero piantato dei semi nella giovane mente di Bion? Che i ricchi pensieri esposti nei suoi libri non presentassero delle assonanze con l’antica tradizione indiana e con l’esplorazione della mente che la meditazione propone?.
Da qui nacque l’idea di fondare un piccolo gruppo su Bion e la meditazione a cui insieme ad altri colleghi partecipai. Ci trovavamo nello studio di Lella che ci accoglieva con dei grandi sorrisi e seduti in cerchio lasciavamo che i nostri pensieri prendessero il largo, come degli esploratori curiosi che non sapevano che cosa avrebbero potuto trovare. Questa esperienza, che durò il tempo di 5 incontri, è stata breve ma intensa, conservo con gelosia le registrazioni di quegli incontri.
Dopo aver saputo della scomparsa di Lella ho ricercato le registrazioni sul mio computer. Sentire la sua voce mi ha fatto fare un salto indietro nel tempo, è stato come sentire la sua presenza e riconoscere dentro di me i semi che ha piantato. Sento profonda gratitudine per averla incontrata sul mio percorso e profondo rispetto ed affetto.
Vorrei ricordarla attraverso uno stralcio delle sue parole che risalgono al primo incontro del gruppo, il 17 febbraio del 2010. A partire da alcune riflessioni di spunto da un libro di Lucio Russo eravamo arrivati a toccare il tema della malattia e della morte. Le mia esperienza clinica in ospedale mi ha spesso portato a dover fare i conti con la fine, tema che mi è molto caro. Alla mia affermazione del piacere di leggere novelle arabe come le mille e una notte e novelle indiane che sono caratterizzate dal non avere una fine, l’assenza di un lieto fine a cui siamo tanto abituati nella narrazione occidentale, Lella raccontò una sua esperienza personale :
“Questo senza fine è come la vita, il fatto è lasciare il corpo, quindi lo spirito lascia il corpo e ritorna nell’universo, nell’oceano, è la goccia d’acqua che raggiunge l’oceano… la morte pensata in questo modo è la dissolvenza. Come nelle novelle arabe”.
Io ho accompagnato mia zia fino all’ultimo respiro. Una esperienza con la morte come non avevo mai avuto prima. Ho fatto i certificati di morte ma è un’altra cosa che stare al capezzale. Le ultime 3 notti e l’ultima notte. Il suo trapasso, è scesa una grande pace nell’ultima mezzora, il respiro si è acquietato, i lineamenti si son distesi e ha detto “mamma” … è stata un’esperienza. In quella mezzora, ultima, ho avuto il senso del trascendente dello spirito, come mai nella mia vita l’ho avuto così intenso. Aveva 94 anni, non aveva avuto figli, ero la parente più prossima.
Questo senso della mamma a 94 anni dove la mamma è quella da cui hai avuto la vita in presa diretta, c’è questo legame in cui la vita e la morte sono insieme in qualche modo.
Pensate che c’era in camera con mia zia una donna down di 60 anni assistita dalla sorella che si era dedicata a lei. Quando io ho capito che mia zia stava morendo mi sono messa a piangere e questa ragazza down è stata tenerissimo “Lella lella, non piangere per la nonnina”. È stata veramente molto tenera. Prima avevano messo una tenda e la sorella non voleva che lei si avvicinasse, non le abbiamo detto che mia zia era morta, ma lei se ne era accorta ugualmente e mi ha accarezzata così delicatamente. Parlavo dei down perché Osho si riferisce al tema di azzittire la mente. È la mente che ha delle rigidità, deve separare, catalogare, mentre se scendi ad un livello più basso è come a 360 gradi e si colgono tanti aspetti a tanti livelli e li c’è davvero la sapienza che è quella che poi la bibbia chiama la sapienza del cuore, io adesso lo capisco così.”
Me la immagino così attraverso le tue parole. Una goccia d’acqua che raggiunge l’oceano, un respiro di pace, pura consapevolezza nel ritorno alla madre.
Grazie Lella per la tua presenza!
Claude Yvonne Finocchiaro
Aprile 2013.
Come ogni mercoledì, alle 10.00, da ormai 4 anni suono alla porta della dott.ssa Citterio per la nostra supervisione settimanale. Mi sta seguendo da diverso tempo nel mio lavoro di conduzione di un gruppo terapeutico per pazienti con malattia di Parkinson. E’ un progetto al quale ho lavorato duramente e per diverso tempo e che ho portato per il diploma di specializzazione all’IIPG di Milano nel 2012. Anche se sono diventata psicoterapeuta, continuo ad andare in supervisione da lei. Non c’è stato neanche bisogno di dirselo, entrambe teniamo a questo gruppo e al buon funzionamento della mia mente. Lei mi sprona ad usare con libertà e competenza i miei pensieri, a non andare in ansia, a non avere fretta, a non parlare troppo. Mi insegna a stare in ascolto. Mi aiuta a comprendere che i pensieri che prendono forma nella mia mente sono frutto della mia competenza e di quello che ho imparato in tanti anni di studio. Il suo stile di supervisione per me è rassicurante e allo stesso tempo mi sprona a fare sempre meglio e a sviluppare un mio stile di conduzione. La sua esperienza clinica decennale e la sua esperienza di conduzione di un gruppo di pazienti con Sclerosi Multipla è un importante spunto di riflessione. Tra noi c’è stato un bellissimo scambio di esperienze e di confronto. Il mio gruppo deve molto alla dott.ssa Citterio. Lella, per affetto, ha condotto un gruppo con pazienti con Sclerosi Multipla per diversi anni. La sua esperienza con questi pazienti, per alcuni versi simile ai miei, con storie di lutti importanti e in alcuni casi patologie psichiatriche associate severe, è stata molto utile nella costruzione del mio gruppo e nella sua conduzione. Lella era sempre pronta a condividere le sue impressioni cliniche e i suoi pensieri in supervisione per arricchire lo spazio di lavoro tra noi. Uno degli insegnamenti più importanti che conservo del nostro lavoro con i pazienti con malattia neurologica è l’importanza che riveste nel lavoro clinico con questi pazienti da un lato l’attenzione alla tecnica analitica di gruppo e dall’altro l’attenzione alla reale malattia della persona, che viene in gruppo. Ad entrambe capitò in seduta di avere un paziente con difficoltà motorie serie e di dover gestire questo evento dal punto di vista analitico ed insieme pratico. Con questi pazienti l’oscillazione campo analitico – concretezza è continua e costitutiva del gruppo stesso. Busso ancora alla porta. Non risponde nessuno. Sono molto felice in questo periodo perché aspetto il mio primo figlio e Lella con rispetto per la maternità e la sua infinita gentilezza condivide con me questo momento davvero speciale. La gravidanza nel gruppo è un momento delicato della conduzione, lei ha saputo guidarmi, ha saputo insegnarmi a godere dello scambio relazionale che avviene in ogni istante del lavoro con i nostri pazienti. Era molto attenta a connettere le emozioni e ad insegnare come le esperienze passate, anche le più dolorose o in questo caso le più belle, attraverso la funzione trasformativa e contenitiva della mente del terapeuta, possono trovare accoglimento e accogliere il seme del cambiamento. Lei stessa di ogni esperienza della sua vita sapeva fare occasione di riflessione e insegnamento. Generosamente metteva a disposizione anche fatti personali per insegnare qualcosa. “è il gruppo che ci deve guidare, è il gruppo che ci dice in modo implicito le cose, bisogna saper ascoltare” mi diceva sempre. Il mio gruppo si era accorto del cambiamento fisico che stava avvenendo in me molto prima che si potesse vedere. Ma d’altronde come ho imparato bene da Lella in un gruppo con pazienti affetti da patologia organica il corpo è sempre sotto l’attenzione conscia e inconscia del gruppo. Suono ancora. Decido di chiamarla al cellulare. Non è la prima volta che capita che cambiamo un pò l’orario o scordiamo qualcosa che fa saltare la seduta. Una delle cose che mi è sempre piaciuta della Citterio è stata sempre la sua capacità di fare di ogni piccola cosa un motivo di lezione. “Cara dottoressa vede com’è importante il setting? Noi ci vediamo sempre allo stesso orario e lo stesso giorno, è bastato cambiare orario per sbagliare”, mi disse un giorno in cui non ci trovammo allo stesso orario”. Anche la sua prima esperienza con l’ictus era diventata l’occasione per dare una lezione di psicoanalisi. Aveva raccontato un giorno ad una lezione la sua esperienza in ospedale, apparentemente per parlare di sé, in realtà nell’intento di usare se stessa come un caso clinico e spiegare a noi quanto sia terribile e sconcertante la malattia acuta, che ti sorprende e spaventa terribilmente. Lei sottolineava come anche nella malattia, il paziente ha bisogno di essere ascoltato e coinvolto. “Trovai conforto in una tazza di caffè caldo portata dal vicino di letto”. Le sue parole su questa esperienza mi sono rimaste molto impresse per lo spessore delle sue osservazioni cliniche e per la lucidità dei suoi pensieri. Un giorno nel suo studio mi fece vedere anche dei quadri fatti da lei con i suoi elettrocardiogrammi nel periodo di convalescenza. Era riuscita a realizzare qualcosa di bello e significativo partendo da una esperienza dolorosa e traumatica. Dopo diversi squilli al telefono, risponde la figlia. La figlia tanto amata, di cui parlava sempre con grande amore, così come dei suoi nipoti. Mi diceva sempre che l’esperienza di essere stata nonna per lei era stata davvero bella, più che essere madre. Si era sentita libera di essere nonna e questo era stato molto gratificante, mentre da mamma – come tutti i genitori – c’erano state anche le responsabilità e i doveri genitoriali. Parlava molto delle persone a lei vicine con dolcezza e rispetto ed anche questo era un esempio di “essere nel mondo”, insieme alla sua grande spiritualità e religiosità, all’amore per l’India, alle esperienze in Canada come giovane ematologa. La sua vita raccontata con un senso di ordine e di serenità molto bello. All’inizio la figlia è un po’ restia a spiegarmi ciò che è accaduto. Le spiego che sono una giovane collega che fa supervisione. So allora che la sera prima la dottoressa ha avuto un secondo ictus, molto forte e che è ricoverata in ospedale in gravi condizioni. Non l’ho più rivista. In questi anni, da allora, ho pensato molto alle nostre sedute, ai suoi insegnamenti e più ho ricordato più ho compreso quanto importante sia stato questo percorso con lei nella mia crescita professionale. Lei ha contribuito a rendermi la professionista che sono, ha permesso a parti di me di emergere nel lavoro e nella vita con serenità, dando il giusto peso alle emozioni e ai pensieri, non dimenticando mai le lezioni cliniche di chi ci ha preceduto, il confronto e l’approfondimento teorico-clinico. So che sembrano parole un po’ di circostanza, forse questo è più un ritratto della persona che non dell’analista, ma mi ha addolorato molto sapere del suo male e non potere chiudere la nostra supervisione in altro modo, con un saluto. Mi è spiaciuto sapere della difficile e incompleta ripresa. Del suo ritiro professionale forzato e degli ultimi anni difficili. E quando il caro Guglielmo, amico e collega, mi ha chiesto di scrivere un piccolo omaggio a Lella, è così che ho sentito di rievocare il suo ricordo e i nostri momenti insieme.
Ciao carissima Lella! Grazie per il viaggio che abbiamo percorso insieme!
Daniela Ajovalasit.
Io , che sono un notorio chiacchierone, ricordo com’ero pacificato dal silenzio partecipe e gentile delle sedute di supervisione con Lella. Senza che vi fossero forzature interpretative, come anche Crialesi non a caso ricorda,il pensiero lievitava nell’intersoggettività dell’incontro , non mi spiegavo come. Lella mi ricordava di “mordermi il labbro ogni tanto “ per controllare la mia tendenza a parlare troppo in seduta con i miei pazienti, per evitare di saturare tropo il campo dell’incontro col paziente, questo “Terzo” elemento fondamentale che puo rappresentare la vera cifra della singolarità di quell’incontro in cui ognuno esce da sé e ci si incontra nel mezzo come dice il Mistico Sufi Rumi.
Lella usava parlare di sé ogni tanto , quel che i tecnici chiamano Self disclosure, e per questo era criticata in sede di ortodossia psicoanalitica. Voleva esserci nell’incontro interamente come persona e chiedeva di essere percepita come tale e ascoltata , spiazzando le aspettative o, per carità, anche i legittimi bisogni di astinenza e neutralità dell’interlocutore. Ricordo che , chi la criticava per aver parlato a lezione delle sue vicende , diceva che ci sono delle parti matte dell’analista che vivono di posizioni teoriche cha si sono man mano talmente tanto distaccate dalla realtà da fluttuano in una vera e propria irrealtà.
Raccontò senza veli l’esperienza del suo primo ricovero denunciando con fermezza il clima burocratico ospedaliero in cui ci si puo venire ancor oggi a trovare privati della possibilità di essere coinvolti nelle decisioni che ci riguardano come persone e pazienti.
Voglio concludere questo mio breve ricordo di Lella, con una frase di Winnicott, uno dei nostri grandi Maestri : “ Signore fa’ che quando arrivi la Morte, mi trovi vivo !”
Guglielmo Campione
Mi sono avvicinato alla scuola di formazione sui gruppi dell'I.I.P.G. per amore verso Bion. In questa passione, come in ogni legame autentico, era contenuta un'eredità.
La mia prima esperienza terapeutica - giovane studente del corso di laurea in Psicologia nella mia città natale - fu in un gruppo condotto dal prof. Paolo Perrotti. Giunto a Milano e per caso indirizzato allo psicoanalista A. Ferro mi trovai a frequentare un gruppo di supervisione e quindi introdotto al pensiero di Bion.
Eppure solo dopo diversi anni di lavoro mi decisi ad avviare una nuova formazione e all'I.I.P.G. incontro la dottoressa L. Citterio per le sue lezioni su Bion. Ora nel ricordo sento di poter affermare: lezioni con Bion! La dot.ssa Citterio sapeva trasmettere rispetto senza ricorrere ad atteggiamenti austeri; illustrava il suo programma e ci invitava a leggere dei capitoli o un certo numero di pagine.
Nell'incontro successivo, con lievi commenti o domande, sollecitava gli interventi degli allievi. Questo stile d'insegnamento non vuole dimenticare chi ci ha preceduto, chi abbia più talento di noi, ma invita all'imprescindibile compito di far propria e autentica un'eredità.
L'impresa psicoanalitica è un vivere eventi intersoggettivi e riflettere sugli stessi mentre accadono. Nel farsi di questa esperienza sorgeranno parole, immagini, sentimenti e in un tempo necessario si potrà definire una gestalt capace di dare senso al vivere. La ricerca e definizione di senso indicano la potenza e la fatica di essere persone; questo compito costringe ad un confronto con quanto indichiamo come realtà, verità, illusione, progetto.
La vertiginosa apertura verso temi apparentemente distanti dai travagli terapeutici è stata affrontata da Bion non solo nelle opere concettuali. Da tempo mi chiedo il motivo per cui le circa settecento pagine disponibili nella nostra lingua, relative ai suoi indimenticabili seminari, non siano mai citate o utilizzate in ambito didattico.
I migliori maestri nella loro modalità di approssimarsi ai fenomeni trasmettono con l'esempio e non per declamazioni la fiducia nel proprio pensare; la tolleranza per la fatica e il tempo necessario a far emergere un punto di vista; il rispetto per l'alterità testimoniata dai pazienti.
Credo che la Citterio fosse una di queste persone. Troppe volte invece nella storia della psicoanalisi chi ricopre incarichi didattici si limita a dar voce alla tradizione, piuttosto che accompagnare alla conoscenza ravvicinata di un modello le proprie convinzioni maturate al sole dell'esperienza clinica.
La tendenza inevitabile dei pensieri a divenire strutture abitudinarie non poteva non investire la teoria e pratica analitica. Il pensatore anglo-indiano, con le sue riflessioni infaticabili e gli abiti linguistici per trasmettere le esperienze si è fatto acuto indagatore di questi pericoli.
Sento che il mio modo di tradurre i diversi insegnamenti di Bion sia debitore dell'incontro con la dot.ssa Citterio; ad esempio quando indicava l'importanza di come si legge piuttosto che inseguire delle quantità di pagine e autori.
Fu proprio l'esperienza di quelle lezioni ad indicarmi come necessaria la sua scelta come analista di gruppo nel percorso formativo. Tale decisione implicava la rinuncia al docente, ma avrei avuto altro - questo pensavo al momento - e a distanza di molti anni sento di aver fatto una scelta giusta.
Come poter raccontare la vita - per quattro anni - di un gruppo analitico? Posso partire da un dato iniziale: per il semplice fatto di essere "più di uno" dovevo già negoziare il desiderio di attingere alla Citterio analista e invece percorrere il sentiero faticoso della responsabilità e dell'incontro interpersonale con i colleghi del gruppo.
Ci propose un setting che veniva utilizzato da alcuni suoi colleghi di Roma: due sedute nella stessa giornata separate da un intervallo di un quarto d'ora. Questa indicazione accompagnata dal commento: con l'istituzione me la vedrò io. Una scelta mai oltre giustificata (come deve essere un setting) eppure indicativa di una libertà di pensiero rispetto a chi sia convinto che operare con tre sedute alla settimana assicuri al gruppo la genuinità di un lavoro analitico.
Nel ricordo affettuoso e riconoscente non ho mai sentito la Citterio analista intervenire con: "il gruppo in questo momento...". I suoi interventi sembravano quelli di un altro partecipante eppure capaci di sollecitare curvature al flusso dei dialoghi. Rimaneva responsabilità del collettivo e del singolo saper utilizzare le sue parole.
Questo è l'elemento fondante una prassi analitica. Potevo cogliere un esempio di astinenza e non la visione di un abito da lavoro dal colore uniforme. Alcuni professionisti credono che praticare psicoanalisi di gruppo sia produrre solo interpretazioni di gruppo rivolte al gruppo; di fatto delle interpretazioni di transfert mutuate da una certa pratica nel setting duale. Altro stile pensare ad interventi di gruppo quando, e se, utili e plausibili.
Una volta la Citterio fu aggredita, di sera, mentre si recava ad un incontro tra colleghi della scuola nella vecchia sede di via Settembrini, e si dilungò in una seduta nel riferire l'accaduto. Davanti al mio crescente imbarazzo spinto sino al desiderio di non sapere nulla mi rispose con semplicità: "Claudio non vuoi ascoltare, ma sono una persona".
Un giorno ricevetti la telefonata che informava dei problemi di salute della dott.ssa; avrebbe richiamato alla ripresa dell'attività. Al momento non colsi la portata di quella notizia sembrava solo l'avvertimento per una seduta saltata. Impiegai qualche ora per capire che l'assenza era imprecisata ed eravamo davanti ad un serio problema di salute. Passarono infatti sei mesi!
Il sollievo per la ripresa delle sedute non poteva esser disgiunto dalla speranza di ricevere delle informazioni. Ritrovammo la Citterio col suo sorriso e la sua integrità, seppur con gli indizi di un benessere ancora lontano. Pur evitando i dettagli ci raccontò delle sue peripezie e di alcuni pensieri intorno all'esser malata e al percolo di lasciare la vita. Altro esempio di come l'autenticità personale, essere "maestro", condividere con semplici parole quanto sperimentato (il linguaggio dell'effettività?) potesse aiutare il gruppo a far circolare pensieri e sentimenti.
Quel periodo difficile lo ricordo come centrale per strutturare la mia esperienza analitica nel percorso formativo. Un evento reale s'impone e induce pensieri, sentimenti, fantasie. Convivere con queste realtà mentali e reali produrrà degli effetti. Ognuno di noi sarà in grado, per come potrà, di tollerare il tempo necessario, ancor più critico se indipendente da nostre azioni, per modificare quei pensieri e sentimenti e renderli capaci di approssimarsi a quanto accade.
L'attesa ambigua di notizie; il ritorno al lavoro di gruppo; il termine del percorso formativo, nel succedersi di stati mentali, ha permesso di rievocare momenti della mia storia e recuperare fiducia nella capacità d'iniziativa. Fu incentivo ad operare scelte importanti nel futuro prossimo.
Ad un anno dal termine dell'analisi fui coinvolto in un gruppo di studio promosso dalla Citterio intorno a possibili convergenze tra il pensiero di Bion e gli insegnamenti derivati dalla tradizione orientale. Potei conoscere la Citterio animata da un fervore mistico e intellettuale che praticava da anni la meditazione come altra via per incontrare se stessi.
Il silenzio come compagno di strada; nella sospensione dal parlare (le pause nella musica sono indispensabili!) un momento di attesa... allora un'idea o parola potranno alimentare percorsi imprevisti. Nella sorpresa poter vivere la necessaria componente creativa di un lavoro terapeutico analitico; creatività volta a risolvere i problemi emotivi implicati nei legami e non come esercizio disincarnato. Le riflessioni su alcuni concetti di Bion assumevano il sapore di un pensare intorno alla mente per illuminare la nuda vita degli incontri terapeutici.
Diversi problemi organizzativi fecero sì che l'esperienza fosse interrotta.
In seguito ognuno prese le sue strade, ma portavo dentro di me il ricordo implicito e benevolo di un buon incontro. Confortato dalla presenza della Citterio.
Di colpo la notizia della sua scomparsa. Tristezza e nostalgia.
Ho sentito impellente il desiderio di partecipare alle sue esequie. Sorpreso che si svolgessero nella basilica di S. Ambrogio e qui insieme alla commozione l'ultima sorpresa! Venivo a conoscere la Citterio credente che frequentava settimanalmente una messa in latino (dalle parole di un sacerdote). Avevo intuito che oltre la sua pratica meditativa potesse esserci una fede religiosa, ma in nessuno dei contesti in cui l'avevo incontrata aveva esplicitato questa affiliazione. Altro insegnamento di neutralità e protezione di uno spazio personale senza venir meno alla generosa condivisione. Ammetto di esser rimasto stupito dalla scarna presenza di colleghi, ma forse era solo un freddo sabato pomeriggio.
Grazie ancora Lella Citterio.
Felice per averti conosciuto.
Riconoscente per le tue parole e i tuoi insegnamenti.
Claudio Crialesi
"Nan-in, un maestro giapponese
dell’èra Meiji (1868-1912),
ricevette la visita di un professore
universitario che era andato da lui
per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il té.
Colmò la tazza del suo ospite,
e poi continuò a versare.
Il professore guardò traboccare il té,
poi non riuscì più a contenersi.
« È ricolma. Non ce n’entra più! ».
« Tu, come questa tazza, » disse Nan-in
« sei ricolmo delle tue opinioni e congetture.
Come posso spiegarti lo Zen,
se prima non vuoti la tua tazza? ".
Fu una scelta dettata dal cuore.
Vidi Lella per la prima a volta a lezione nel corso del primo anno di frequentazione dell’IIPG e me ne “innamorai”. La sua voce, il suo paziente ed attento metodo di lettura e condivisione dei testi di W. Bion mi appassionò a tal punto che la scelsi come tutor per tutti gli anni di scuola. Ricordo i suoi occhi, intensi e profondi, la sua voce calda a rassicurante e il suo naturale modo di mettere chiunque a proprio agio, libero di esprimere senza resistenze ogni idea e sensazione in un dialogo alla pari, di crescita reciproca. La immagino nell’angolo del suo studio sulla sua semplice sedia da regista e ricordo ancora oggi le sensazioni che provavo durante i nostri incontri.
Lella era per me un contenitore capace di accogliere qualsiasi contenuto, sensibile forte e curiosa. Forse proprio per questo era così capiente da potersi permettere self-disclosure che lasciavano sbalorditi. Era capace di parlare di se stessa e delle sue esperienza con piena lucidità e consapevolezza, come novelle zen capaci di mostrare il suo autentico essere e di trasmettere messaggi che ti colpivano nel profondo. C’era sempre spazio in lei per ogni idea, era capace di incoraggiare ogni parte dell’essere umano. Quando timidamente, attraverso cenni nei miei primi scritti, le confessai la mia passione per l’oriente e per le discipline che si occupano del corpo e della meditazione fu la prima ad incoraggiarmi. Temevo che questa mia parte poco “ortodossa” potesse essere contestata, trovai invece un’alleata, capace di farmi mettere a nudo e di dare coerenza ed armonia alle tante anime che si celavano dentro di me. Esplorando con me i miei pensieri mi ha insegnato ad essere tollerante, a cogliere senza paura la complessità del mondo e dell’essere umano, a mettere insieme insegnamenti che dall’occidente all’oriente univano il mondo. Fu così che iniziammo a parlare di psicoanalisi e di meditazione ed in particolare ci divertivamo, mano a mano che io scoprivo i testi di Bion, a ragionare liberamente sui collegamenti tra il pensiero bioniano e la meditazione. Lella era appassionata di Osho Rajneesh, aveva visitato la sua comunità Indiana e sperimentato la meditazione dinamica. Io avevo seguito la tradizione di Paramahansa Yogananda e sperimentato in india diverse forme di meditazione. I nostri incontri erano curiosi, interessanti ricchi di spunti e riflessioni. Anche le idee più bizzarre erano oggetto di confronto e discussione, le nostre esperienze dirette fonte di analisi e osservazione. Lella mi ha fatto comprendere cosa fosse realmente apprendere dall’esperienza, non semplicemente leggere un libro ma portarlo a frutto dentro di me, dargli vita e spazio attraverso la riflessione ed il confronto.
Un’idea accarezzò le nostre menti. W. Bion era nato a Muttra, nelle Province Unite dell’India nel 1897. Da molte generazioni la sua famiglia prestava servizio in India. Bion fu mandato in Inghilterra a frequentare la scuola preparatoria all’età di 8 anni. Possibile che la tradizione, la filosofia, la cultura indiana avessero piantato dei semi nella giovane mente di Bion? Che i ricchi pensieri esposti nei suoi libri non presentassero delle assonanze con l’antica tradizione indiana e con l’esplorazione della mente che la meditazione propone?.
Da qui nacque l’idea di fondare un piccolo gruppo su Bion e la meditazione a cui insieme ad altri colleghi partecipai. Ci trovavamo nello studio di Lella che ci accoglieva con dei grandi sorrisi e seduti in cerchio lasciavamo che i nostri pensieri prendessero il largo, come degli esploratori curiosi che non sapevano che cosa avrebbero potuto trovare. Questa esperienza, che durò il tempo di 5 incontri, è stata breve ma intensa, conservo con gelosia le registrazioni di quegli incontri.
Dopo aver saputo della scomparsa di Lella ho ricercato le registrazioni sul mio computer. Sentire la sua voce mi ha fatto fare un salto indietro nel tempo, è stato come sentire la sua presenza e riconoscere dentro di me i semi che ha piantato. Sento profonda gratitudine per averla incontrata sul mio percorso e profondo rispetto ed affetto.
Vorrei ricordarla attraverso uno stralcio delle sue parole che risalgono al primo incontro del gruppo, il 17 febbraio del 2010. A partire da alcune riflessioni di spunto da un libro di Lucio Russo eravamo arrivati a toccare il tema della malattia e della morte. Le mia esperienza clinica in ospedale mi ha spesso portato a dover fare i conti con la fine, tema che mi è molto caro. Alla mia affermazione del piacere di leggere novelle arabe come le mille e una notte e novelle indiane che sono caratterizzate dal non avere una fine, l’assenza di un lieto fine a cui siamo tanto abituati nella narrazione occidentale, Lella raccontò una sua esperienza personale :
“Questo senza fine è come la vita, il fatto è lasciare il corpo, quindi lo spirito lascia il corpo e ritorna nell’universo, nell’oceano, è la goccia d’acqua che raggiunge l’oceano… la morte pensata in questo modo è la dissolvenza. Come nelle novelle arabe”.
Io ho accompagnato mia zia fino all’ultimo respiro. Una esperienza con la morte come non avevo mai avuto prima. Ho fatto i certificati di morte ma è un’altra cosa che stare al capezzale. Le ultime 3 notti e l’ultima notte. Il suo trapasso, è scesa una grande pace nell’ultima mezzora, il respiro si è acquietato, i lineamenti si son distesi e ha detto “mamma” … è stata un’esperienza. In quella mezzora, ultima, ho avuto il senso del trascendente dello spirito, come mai nella mia vita l’ho avuto così intenso. Aveva 94 anni, non aveva avuto figli, ero la parente più prossima.
Questo senso della mamma a 94 anni dove la mamma è quella da cui hai avuto la vita in presa diretta, c’è questo legame in cui la vita e la morte sono insieme in qualche modo.
Pensate che c’era in camera con mia zia una donna down di 60 anni assistita dalla sorella che si era dedicata a lei. Quando io ho capito che mia zia stava morendo mi sono messa a piangere e questa ragazza down è stata tenerissimo “Lella lella, non piangere per la nonnina”. È stata veramente molto tenera. Prima avevano messo una tenda e la sorella non voleva che lei si avvicinasse, non le abbiamo detto che mia zia era morta, ma lei se ne era accorta ugualmente e mi ha accarezzata così delicatamente. Parlavo dei down perché Osho si riferisce al tema di azzittire la mente. È la mente che ha delle rigidità, deve separare, catalogare, mentre se scendi ad un livello più basso è come a 360 gradi e si colgono tanti aspetti a tanti livelli e li c’è davvero la sapienza che è quella che poi la bibbia chiama la sapienza del cuore, io adesso lo capisco così.”
Me la immagino così attraverso le tue parole. Una goccia d’acqua che raggiunge l’oceano, un respiro di pace, pura consapevolezza nel ritorno alla madre.
Grazie Lella per la tua presenza!
Claude Yvonne Finocchiaro
Aprile 2013.
Come ogni mercoledì, alle 10.00, da ormai 4 anni suono alla porta della dott.ssa Citterio per la nostra supervisione settimanale. Mi sta seguendo da diverso tempo nel mio lavoro di conduzione di un gruppo terapeutico per pazienti con malattia di Parkinson. E’ un progetto al quale ho lavorato duramente e per diverso tempo e che ho portato per il diploma di specializzazione all’IIPG di Milano nel 2012. Anche se sono diventata psicoterapeuta, continuo ad andare in supervisione da lei. Non c’è stato neanche bisogno di dirselo, entrambe teniamo a questo gruppo e al buon funzionamento della mia mente. Lei mi sprona ad usare con libertà e competenza i miei pensieri, a non andare in ansia, a non avere fretta, a non parlare troppo. Mi insegna a stare in ascolto. Mi aiuta a comprendere che i pensieri che prendono forma nella mia mente sono frutto della mia competenza e di quello che ho imparato in tanti anni di studio. Il suo stile di supervisione per me è rassicurante e allo stesso tempo mi sprona a fare sempre meglio e a sviluppare un mio stile di conduzione. La sua esperienza clinica decennale e la sua esperienza di conduzione di un gruppo di pazienti con Sclerosi Multipla è un importante spunto di riflessione. Tra noi c’è stato un bellissimo scambio di esperienze e di confronto. Il mio gruppo deve molto alla dott.ssa Citterio. Lella, per affetto, ha condotto un gruppo con pazienti con Sclerosi Multipla per diversi anni. La sua esperienza con questi pazienti, per alcuni versi simile ai miei, con storie di lutti importanti e in alcuni casi patologie psichiatriche associate severe, è stata molto utile nella costruzione del mio gruppo e nella sua conduzione. Lella era sempre pronta a condividere le sue impressioni cliniche e i suoi pensieri in supervisione per arricchire lo spazio di lavoro tra noi. Uno degli insegnamenti più importanti che conservo del nostro lavoro con i pazienti con malattia neurologica è l’importanza che riveste nel lavoro clinico con questi pazienti da un lato l’attenzione alla tecnica analitica di gruppo e dall’altro l’attenzione alla reale malattia della persona, che viene in gruppo. Ad entrambe capitò in seduta di avere un paziente con difficoltà motorie serie e di dover gestire questo evento dal punto di vista analitico ed insieme pratico. Con questi pazienti l’oscillazione campo analitico – concretezza è continua e costitutiva del gruppo stesso. Busso ancora alla porta. Non risponde nessuno. Sono molto felice in questo periodo perché aspetto il mio primo figlio e Lella con rispetto per la maternità e la sua infinita gentilezza condivide con me questo momento davvero speciale. La gravidanza nel gruppo è un momento delicato della conduzione, lei ha saputo guidarmi, ha saputo insegnarmi a godere dello scambio relazionale che avviene in ogni istante del lavoro con i nostri pazienti. Era molto attenta a connettere le emozioni e ad insegnare come le esperienze passate, anche le più dolorose o in questo caso le più belle, attraverso la funzione trasformativa e contenitiva della mente del terapeuta, possono trovare accoglimento e accogliere il seme del cambiamento. Lei stessa di ogni esperienza della sua vita sapeva fare occasione di riflessione e insegnamento. Generosamente metteva a disposizione anche fatti personali per insegnare qualcosa. “è il gruppo che ci deve guidare, è il gruppo che ci dice in modo implicito le cose, bisogna saper ascoltare” mi diceva sempre. Il mio gruppo si era accorto del cambiamento fisico che stava avvenendo in me molto prima che si potesse vedere. Ma d’altronde come ho imparato bene da Lella in un gruppo con pazienti affetti da patologia organica il corpo è sempre sotto l’attenzione conscia e inconscia del gruppo. Suono ancora. Decido di chiamarla al cellulare. Non è la prima volta che capita che cambiamo un pò l’orario o scordiamo qualcosa che fa saltare la seduta. Una delle cose che mi è sempre piaciuta della Citterio è stata sempre la sua capacità di fare di ogni piccola cosa un motivo di lezione. “Cara dottoressa vede com’è importante il setting? Noi ci vediamo sempre allo stesso orario e lo stesso giorno, è bastato cambiare orario per sbagliare”, mi disse un giorno in cui non ci trovammo allo stesso orario”. Anche la sua prima esperienza con l’ictus era diventata l’occasione per dare una lezione di psicoanalisi. Aveva raccontato un giorno ad una lezione la sua esperienza in ospedale, apparentemente per parlare di sé, in realtà nell’intento di usare se stessa come un caso clinico e spiegare a noi quanto sia terribile e sconcertante la malattia acuta, che ti sorprende e spaventa terribilmente. Lei sottolineava come anche nella malattia, il paziente ha bisogno di essere ascoltato e coinvolto. “Trovai conforto in una tazza di caffè caldo portata dal vicino di letto”. Le sue parole su questa esperienza mi sono rimaste molto impresse per lo spessore delle sue osservazioni cliniche e per la lucidità dei suoi pensieri. Un giorno nel suo studio mi fece vedere anche dei quadri fatti da lei con i suoi elettrocardiogrammi nel periodo di convalescenza. Era riuscita a realizzare qualcosa di bello e significativo partendo da una esperienza dolorosa e traumatica. Dopo diversi squilli al telefono, risponde la figlia. La figlia tanto amata, di cui parlava sempre con grande amore, così come dei suoi nipoti. Mi diceva sempre che l’esperienza di essere stata nonna per lei era stata davvero bella, più che essere madre. Si era sentita libera di essere nonna e questo era stato molto gratificante, mentre da mamma – come tutti i genitori – c’erano state anche le responsabilità e i doveri genitoriali. Parlava molto delle persone a lei vicine con dolcezza e rispetto ed anche questo era un esempio di “essere nel mondo”, insieme alla sua grande spiritualità e religiosità, all’amore per l’India, alle esperienze in Canada come giovane ematologa. La sua vita raccontata con un senso di ordine e di serenità molto bello. All’inizio la figlia è un po’ restia a spiegarmi ciò che è accaduto. Le spiego che sono una giovane collega che fa supervisione. So allora che la sera prima la dottoressa ha avuto un secondo ictus, molto forte e che è ricoverata in ospedale in gravi condizioni. Non l’ho più rivista. In questi anni, da allora, ho pensato molto alle nostre sedute, ai suoi insegnamenti e più ho ricordato più ho compreso quanto importante sia stato questo percorso con lei nella mia crescita professionale. Lei ha contribuito a rendermi la professionista che sono, ha permesso a parti di me di emergere nel lavoro e nella vita con serenità, dando il giusto peso alle emozioni e ai pensieri, non dimenticando mai le lezioni cliniche di chi ci ha preceduto, il confronto e l’approfondimento teorico-clinico. So che sembrano parole un po’ di circostanza, forse questo è più un ritratto della persona che non dell’analista, ma mi ha addolorato molto sapere del suo male e non potere chiudere la nostra supervisione in altro modo, con un saluto. Mi è spiaciuto sapere della difficile e incompleta ripresa. Del suo ritiro professionale forzato e degli ultimi anni difficili. E quando il caro Guglielmo, amico e collega, mi ha chiesto di scrivere un piccolo omaggio a Lella, è così che ho sentito di rievocare il suo ricordo e i nostri momenti insieme.
Ciao carissima Lella! Grazie per il viaggio che abbiamo percorso insieme!
Daniela Ajovalasit.
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