Introduzione
Nell’affrontare questo nuovo lavoro ho ritenuto utile proporre preliminarmente
alcune riflessioni a partire dalla storia e dallo sviluppo dell’etimo di alcune
definizioni diagnostiche che in origine, come si vedrà, univano, forse
intuitivamente o in modo preconscio, conoscenze scientifiche che in seguito
hanno invece “vissuto separate” nei loro ambiti accademici per anni, per via della loro scarsa
conoscenza, fino a “convivere” e divenirci
più familiari oggi che le conosciamo di più.
Le parole che usiamo per descrivere la realtà, infatti, influenzano la nostra comprensione della realtà, condizionano la nostra capacità di leggerla e comprenderla, ci offrono un punto di vista, ma ne negano altri.
Le parole che usiamo per descrivere la realtà, infatti, influenzano la nostra comprensione della realtà, condizionano la nostra capacità di leggerla e comprenderla, ci offrono un punto di vista, ma ne negano altri.
Nell’ambito scientifico delle dipendenze patologiche, come sottolinea Di
Petta (2004), si sente il bisogno «di guardare, per la prima
volta, da una prospettiva unitaria e nuova ad ambiti patologici che fin’ora
considerati per sé hanno condotto in molti casi lontano dal cuore del problema
e in altri casi ad una vera e propria secca.(…) Si tratta della concreta
possibilità di re-istituire delle connessioni di senso tra ambiti che sono
ricchi di omologie e sinergie ma che per vari motivi sono finiti storicamente
separati. Questo non per ridurre il complesso al semplice ma per valorizzare e
combinare dopo anni di operatività distante, saperi e prassi».
Lo studio scientifico delle dipendenze patologiche ha negli ultimi
dieci anni fatto passi da giganti. L’uscita dalle secche dell’impostazione
sociologica degli anni ’60, ’70 e ’80 ha permesso la riappropriazione e
l’utilizzazione della prassi diagnostica clinica che, a sua volta, ha condotto
ad una notevole crescita delle conoscenze sia dal punto di vista biomedico, sia
da quello psicologico.
L’affermazione di ieri, tanto cara anche a certa psichiatria italiana,
che si è o malati psichiatrici o tossicomani, appare ormai obsoleta e,
soprattutto, non in grado di fornire indicazioni euristiche ed operative, anche
perché la scienza delle dipendenze patologiche si occupa ormai da tempo di
fenomeni come il gambling, la dipendenza da internet, la dipendenza da sesso,
che esulano dallo stretto ambito delle tossicodipendenze e di cui non si occupa
comunemente la psichiatria istituzionale. La scienza delle dipendenze
patologiche può a ragione definirsi una scienza moderna proprio perché è, forse
più della stessa psichiatria classica, sintonizzata maggiormente sui mutamenti
della psicopatologia contemporanea. Si pensi, per esempio, all’alta prevalenza
dei disturbi di personalità nella casistica dei servizi delle dipendenze, ma
anche all’alta prevalenza di questi disturbi nella casistica della
psicopatologia generale.
Oggi più che mai la scienza delle dipendenze patologiche si avvale, mi
si conceda la licenza, di una “sua” psichiatria delle dipendenze, senz’altro
più motivata, interessata e preparata della psichiatria classica a cogliere il
senso, la natura e le evoluzioni del fenomeno .
Se si va oltre la sua pura nominalizzazione, il termine “dipendenza”,
più che essere chiuso in sé ed autoreferenziale, appare indicare piuttosto un
crocevia di processi psichici e somatici non intuibili automaticamente, ma descrivibili
richiamandosi ad altri termini e ad altri percorsi della psicopatologia
clinica: impulsività, ossessività, compulsione, egosintonìa, egodistonìa, manìa,
narcisismo, dissociazione, alessitimia, psicopatia, personalità patologica.
Quello che emerge da questa disamina è che, per esempio, i confini categoriali
imposti dalla quarta e ultima versione del DSM alla definizione dei quadri di
dipendenza patologica, che del resto non a caso risale al 1983, risultano, per
lo meno in parte, superati e non più in grado di cogliere la realtà proteiforme
di questi disturbi.
Etimologia di “addiction” e di “dipendenza”
Come sottolinea Canali (2002) in uno dei pochi lavori in letteratura di
riflessione epistemologica sul termine, «il concetto di dipendenza è
centrale nella ricerca e nei diversi approcci esplicativi. Ed è forse per
questo motivo che solitamente lo si considera chiaro e inequivocabile. Al
contrario, come per la gran parte dei termini ovvi, uno sguardo solo meno
superficiale rivela immediatamente la pluralità dei significati, la misura
della vaghezza e delle contraddizioni di questo concetto, singolare commistione
di elementi di carattere normativo, clinico e farmacologico». Le incongruenze e la
confusione sono così radicali che si perpetuano sostanzialmente anche
all'interno dei singoli modelli teorici di dipendenza, come quello medico,
quello sociale, quello comportamentale.
Formulato per la prima volta nel 1793 da Benjamin Rush, padre della psichiatria
statunitense, il modello medico della dipendenza come malattia è supportato
dalle acquisizioni delle ricerche anatomiche, fisiologiche, neurofarmacologiche
e genetiche che stanno progressivamente svelando le basi biologiche di questa
condizione. Fondamentalmente, il modello medico spiega la compulsione alla
ricerca e all'uso di sostanze psicoattive (considerati sintomi primari) come
l'effetto di strutture e funzioni nervose rese patologiche da un uso prolungato
della sostanza e su cui il soggetto non ha più controllo. La compulsione qui,
diversamente che nel modello psichiatrico, è il risultato sul piano neuronale
di un comportamento patologico.
I criteri per la dipendenza del DSM-IV ricalcano in larga parte quelli precedentemente
fissati dell'ICD-10. Quest’ultimo, tuttavia, enfatizza come «caratteristica descrittiva
centrale, (…) il craving, il desiderio (spesso forte, talora soverchiante) di
assumere la sostanza psicoattiva», tanto che nell'ICD-10, “il
senso di compulsione” al consumo rappresenta il primo criterio diagnostico
della sindrome da dipendenza». Secondo Canali (2002), «entrambi i sistemi
diagnostici non definiscono esplicitamente il concetto di addiction, un termine
fondamentale nel dibattito sulla dipendenza e difficilmente traducibile in italiano.
Questa lacuna nelle definizioni è forse all'origine dello scarso consenso su
ciò che significhi realmente il termine “addiction” anche tra gli stessi psichiatri
e neuroscienziati. Esso così viene impropriamente usato al posto di “dipendenza”,
generando non poca confusione sia a livello teorico e della ricerca sia nella
messa a punto e nella pratica degli interventi e dei trattamenti.
Secondo il modello medico il termine addiction indica uno stato comportamentale caratterizzato da un coinvolgimento assoluto nell'impiego di una sostanza (uso compulsivo), nell’assicurarsi l'approvvigionamento della sostanza, e da un’alta tendenza alla ricaduta dopo la sua interruzione, mentre per “dipendenza” si deve intendere lo stato fisiologico di neuroadattamento prodotto dalla ripetuta somministrazione della sostanza, che necessita di continue somministrazioni per prevenire l'insorgenza di una sindrome d’astinenza. Questa è la distinzione che tutti i più autorevoli testi di psicofarmacologia rimarcano con enfasi. Sembra chiaro e molto semplice».
Secondo il modello medico il termine addiction indica uno stato comportamentale caratterizzato da un coinvolgimento assoluto nell'impiego di una sostanza (uso compulsivo), nell’assicurarsi l'approvvigionamento della sostanza, e da un’alta tendenza alla ricaduta dopo la sua interruzione, mentre per “dipendenza” si deve intendere lo stato fisiologico di neuroadattamento prodotto dalla ripetuta somministrazione della sostanza, che necessita di continue somministrazioni per prevenire l'insorgenza di una sindrome d’astinenza. Questa è la distinzione che tutti i più autorevoli testi di psicofarmacologia rimarcano con enfasi. Sembra chiaro e molto semplice».
Questa sottolineatura dell’aspetto comportamentale condurrebbe in modo
contradditorio (cinque criteri su sette sono relativi a condizioni comportamentali)
a quella che Canali (2002) chiama «deriva del concetto di
addiction, provocata da alcune deprecabili frange della psichiatria
contemporanea e dalle pressioni di mercato visto che medicalizzare i
comportamenti significa infatti anche (o soprattutto?) vendere cure». Il concetto di addiction
avrebbe in tal modo subito un’inflazione stupefacente tanto da accomunare sotto
la stessa egida la sex addiction, il gioco d'azzardo, lo shopping compulsivo,
la dipendenza da lavoro, da Internet, dalla televisione, dal fitness, dal cibo.
Un esempio di questa tendenza, come si vedrà successivamente, è rappresentato
dal modello dimensionale proposto da Goodmann (1993)
in stile categoriale che riunisce per la prima volta tutte le dipendenze.
Sebbene concordi con Canali (2002) nello stigmatizzare l’eccesso
nell’uso del termine “dipendenza”, penso
che la preponderanza dei criteri comportamentali nell’inquadramento
nosologico medico della dipendenza rappresenti invece un lucido tributo
all’evidenza clinica (anche se di modello diverso) e la dimostrazione che il
fenomeno della dipendenza non possa essere affrontato e compreso con un solo
modello. Può infatti un modello, per mantenersi coerente, scotomizzare aspetti
evidenti e descrivibili consensualmente come quelli comportamentali? Penso anche che, di fronte al
vorticare di tante nuove etichette diagnostiche, sia lecito chiedersi se il loro conio corrisponda ad un esclusivo
bisogno nosografico e sociale di classificare e controllare il comportamento o
se esso rappresenti, che è quello che ci interessa di più, un autentico
progresso nella comprensione del fenomeno e quindi sia un naturale epifenomeno
di tale sviluppo di conoscenza.
Sfogliando i vocabolari italiano e inglese incontriamo queste
definizioni:
Addiction:
1. dipendenza; assuefazione:
addiction to heroin, dipendenza dall’eroina; drug addiction, tossicodipendenza;
2. passione; mania;
fanatismo.
Addict:
1. persona dedita a un vizio;
dipendente; -mane: drug addict, tossicodipendente; tossicomane; heroin addict,
eroinomane; (fam.) telly addict, videodipendente;
2. appassionato; patito.
Dependance:
1. dipendenza; (il) dipendere:
our dependence on the phone, la nostra dipendenza dal telefono; dependence on
other, il dipendere dagli altri; alcohol dependence, dipendenza dall’alcol.
2. fiducia;
3. (l’) essere a carico (di
qc).
Dipendenza:
1. latino parlato: dependere,
letteralmente “pendere in giù”, composto di de- e pendere;
2. condizione di dipendente: in
dipendenza di ciò, in conseguenza di ciò.
Avere qualcuno alle proprie dipendenze, essere datore di lavoro. Essere
alle dipendenze di qc., lavorare in posizione subordinata;
3. assenza di autonomia nei
confronti di persona o gruppo;
4. invincibile bisogno
psicofisico di assumere una determinata sostanza, spec. droga; cfr. assuefazione.
Dipendere:
v. intr. “trarre origine, essere causato” (1304-08, Dante), “essere
sottoposto all’autorità, al potere altrui” (av. 1540, F . Guicciardini), “in
sintassi, essere retto, detto di caso o di complemento” (av. 1589, L . Salviati).
Dipendere:
v. intr.
1. trarre origine, costituire
la conseguenza di determinate premesse, essere legato al verificarsi di una
condizione;
2. essere sottoposto all’autorità
di altri, essere subordinato alle decisioni di qc., al contributo economico di
qc.;
3. in sintassi, essere retto,
detto di caso, complemento o proposizione subordinata.
Indipendente:
Esente da rapporti che implichino il riconoscimento o l’accettazione
di motivi più o meno ufficiali di
subordinazione.
L’indipendenza non significa fare a meno degli altri o vivere da soli,
significa solo non essere subordinati dove non serve.
Controdipendente:
Atteggiamento reattivo compensatorio di natura narcisistica che
consiste nell’assumere atteggiamenti ribelli, antiautoritari, che mirano
all’indipendenza in forma per così dire “assoluta” e che nascondono un bisogno
di dipendenza negato dal timore di essere troppo in balìa del soggetto da cui
si dipende.
Tossicodipendenza:
Stato in cui cade un tossicomane abituale, che non può fare a meno di sostanze
stupefacenti.
«Il
termine “tossicodipendenza”, come sottolinea Bignamini (2003), è usato al di là, anzi soprattutto al
di là dell’ambito tecnico ed ha assunto nel linguaggio comune un significato
ristretto che implica anche un atteggiamento di giudizio valoriale e specifiche
reazioni emotive negative(…). La sua forza evocativa ne condiziona troppo il
significato rendendo impossibile diversi modi di pensarlo.(…). D’altro canto
gli oggetti da cui si dipende non sono tossici in sé stessi (si veda il gioco
d’azzardo, la sex addiction) e la dipendenza può essere definita dalle
caratteristiche della relazione di un soggetto con un oggetto (…); non è la
sostanza quindi a definire la patologia da dipendenza ma la relazione tra il
soggetto e l’oggetto, la particolare modalità di quella relazione.
La dipendenza è una condizione patologica correlata ad un’alterazione
del sistema della gratificazione e ad una coartazione delle modalità e dei
mezzi con cui il soggetto si procura piacere caratterizzata da craving e da una
relazione con un oggetto-sostanza, situazione,comportamento, connotata da reiterazione
e marcata difficoltà alla rinuncia.
Secondo Zucca Alessandrelli (2002) il termine anglosassone “addiction”
ci fa pensare allo stato psichico di schiavitù, prima che a quello fisico: «La
vittima, non solo subisce un impulso superiore alle sue forze di controllo, ma
è costretta a collaborare con la prepotenza di quest’impulso. Il termine comprende
sia la dipendenza coatta da varie sostanze (l’alcol, le droghe, i farmaci), sia
i cosiddetti “disturbi alimentari”, quali la bulimia e la sua rigida formazione
reattiva, l’anoressia, sia altri aspetti di dipendenza, come la cleptomania, i
tentativi di suicidio ripetuti, la compulsione agli acquisti, al gioco, al
sesso (… )».
Nella lingua inglese, ci fa notare Zucca Alessandrelli (2002), il termine
“addiction” significa “inclinazione”, “dedizione”, in genere, in senso
spregiativo, come se volesse indicare un’inclinazione eccessiva a qualcosa.
Esso si è diffuso in tutti i paesi occidentali.
Il termine “addiction” indica
quindi, come da etimologia, il significato di schiavitù, di depersonalizzazione
e di sottomissione. Per quelle lingue in cui la traduzione letterale non come ad
esempio l’italiano in cui la parola “addizione” non può
affermarsi, si usa il termine inglese. I francesi se la sono cavata,appunto,
pronunciando alla francese il termine inglese.
È curioso il fatto che proprio noi
italiani, eredi del mondo latino, non possiamo usare un vocabolo derivato da
questa cultura. Il termine latino “addictio” è il sostantivo del verbo “addicere”
che aveva diversi significati. Tra i più importanti, vi era quello di dedicarsi
o abbandonarsi a qualcosa, come ad esempio alla vita pubblica o a una missione,
o ancora lasciarsi andare a uno stile di vita, a un comportamento, come, ad
esempio, alla vita monacale. Un altro significato era quello che noi, in italiano,
traduciamo con “attribuire”, nel senso di passare qualcosa sotto il nome di
qualcuno. È, infine, soprattutto importante quel significato che nel mondo
giuridico latino era “aggiudicare qualcuno a qualcun altro”, nello specifico la
persona del debitore al creditore, per cui “addictus” voleva espressamente dire
“schiavo per debito”. Forse per chi è vittima dell’addiction, più che “schiavo
per debito”, occorrerebbe dire “schiavo per credito”, vista la situazione delle
relazioni infantili in cui essa è cresciuta (Zucca
Alessandrelli, 2002).
Per “addictio” bisogna intendere l’assegnazione
disposta dal magistrato del debitore insolvente al creditore insoddisfatto, ad
esito del vittorioso esperimento di un’apposita azione giudiziale da parte
dello stesso ultimo soggetto. La sussistenza nell’antico ordinamento giuridico
romano di simile istituto dimostra come la natura del vincolo obbligatorio sia
personale e non patrimoniale (come fortunatamente esso si connota in tutti i
sistemi legislativi contemporanei). In particolare, il creditore insoddisfatto
vincitore della lite ha facoltà, trascorsi trenta giorni dalla pronuncia della
sentenza senza che l’obbligazione sia stata adempiuta, di chiedere al
magistrato che abbia appunto accolto le proprie ragioni l’assegnazione del
debitore insolvente. Una volta perfezionata l’addictio, il creditore
assegnatario può tradurre il debitore assegnato nel proprio carcere personale e
tenervelo incatenato per un periodo di sessanta giorni; nel corso di tale
periodo, egli può altresì condurlo per tre giorni consecutivi nel mercato onde
consentire a chiunque di pagare il debito (e acquisire così la proprietà del
debitore) e, in assenza di rivendicazioni, scegliere se tenerlo come schiavo o
venderlo in territorio straniero o addirittura ucciderlo.
Il termine “dipendenza” incontra il termine “mania”
Fra la fine dell’ Ottocento e gli inizi del Novecento al termine “dipendenza”
era preferito il termine “mania”. Com’è possibile, di seguito, rilevare
nell’analisi etimologica, il contenitore comune di queste forme, il loro comun
denominatore, era l’eccesso: una disposizione e/o una fissazione eccessiva, una
tendenza o passione spiccata (bibliomania, grafomania), oppure un bisogno
ossessivo e talvolta decisamente patologico (cleptomania, cocainomania,
morfinomania, tossicomania).
Analizziamo dunque il termine “mania”, così
come ci viene descritto nel dizionario etimologico:
- nome di una
terrificante divinità italica, madre dei Mani e dei Lari. Ad essa un tempo si
sacrificavano vittime umane, soprattutto fanciulli, che venivano decapitati.
Una volta aboliti i sacrifici umani, in ricordo di questi si offrivano teste di
papavero e di aglio. Le Furie erano anche chiamate Maniae.
- v.c. dotta, greco manía (e nelle glosse
anche l'agg. maniakós), dal radicale man- del v. máinesthai ‘essere furioso’,
da una base indeuropeo col senso fondamentale di ‘pensare’ (solo in greco il
significato è deviato verso la nozione di un ardore folle e furioso);
- disturbo
mentale caratterizzato dall'avere un’idea fissa: mania suicida;
- idea ossessiva, fissazione: ha la mania dell'ordine. Abitudine insolita, ridicola: ha
la mania di parlare da solo; (est.)
Passione, gusto, interesse eccessivo per q.c.: ha la mania del ballo;
- secondo
elemento che, in parole comp., spec. della terminologia medica, indica tendenza
o passione spiccata, eccessiva (bibliomania, grafomania) oppure bisogno
ossessivo e talvolta decisamente patologico (cleptomania, cocainomania,
morfinomania, tossicomania) di ciò che è espresso dal primo elemento;
- stato
mentale anormale, caratterizzato da un senso generale di euforia e grande
ecc.itazione, allegria irrefrenabile e immotivata, ottimismo ecc.essivo
- stato
mentale anormale caratterizzato da allegria irrefrenabile, sopravvalutazione di
se stessi e fuga delle idee (1905, E. Morselli, Psicologia moderna, Livorno )
pp. 220-221: “nel vero significato scientifico la manìa equivale ad un delirio
generale che è accompagnato da forte agitazione, in precedenza ebbe altre
accez. sempre come affezione patologica, “alienazione”: sec. XIV, Fiori di
Medicina, ‘delirio’: 1763, G .
L. Bianconi; per mania di grandezza V. grandézza e per mania di persecuzione;
V. persecuzione), fig.smania o velleità smaniosa (1772, F . Paoletti).
Tossicomania, s. f. “tendenza morbosa ad
assumere sostanze più o meno tossiche” (1942, Migl. App.),tossicosi, s. f.
‘complesso delle manifestazioni morbose che conseguono alla presenza nel sangue
di sostanze tossiche, tossina,Vc. dotta, lat. toxicu(m) ‘veleno’, dal gr.
toxikón, toxicomane (dal 1923), toxicomanie (dal 1923: V. -mania), toxine (dal
1896: V. –ina )”.
Probabilmente il termine “tossicomania” è caduto in disuso, pur senza
scomparire del tutto fino ad una sua più recente ripresa, per due principali motivi
.Il primo è che con l’affinarsi della capacità di osservazione del comportamento e del reale interesse per
il malato, al di là della secolare e soverchiante preoccupazione di etichettarlo
alla luce della norma, ci si accorse che non si osservavano sempre in tutte le
dipendenze patologiche i segni fondamentali dell’ipertimismo, come il senso
generale di euforia e grande eccitazione, l’allegria irrefrenabile e
immotivata, l’ottimismo eccessivo, la sopravvalutazione di se stessi e l’accelerazione ideativa fino alla fuga delle
idee. Il secondo motivo è che man mano si è inteso elevare a valore principe
dell’esistenza la capacità volitiva di autonomìa e di autodeterminazione, la
dipendenza è andata connotandosi di un significato peggiorativo e sinonimo di
patologico.
Oggi, tuttavia, si è tornati a porre una particolare attenzione
all’umore del dipendente e ai suoi aspetti impulsivi e compulsivi. Il
dipendente potrebbe talvolta configurarsi infatti come un bipolare che cerca di
rafforzare o prolungare la fase maniacale-euforica tramite la sua condotta
additiva per non cadere nella fase depressiva, ma anche come un depresso che
cerca stimolanti per autocurarsi la depressione.
Un’altra caratteristica tipica di questi fenomeni è la loro
egosintonicità: si tratta di comportamenti in grado di fornire piacere o
direttamente o indirettamente attraverso il sollievo dal dolore, dall’angoscia
e dall’ansia. Sono proprio la gratificazione, il piacere ed il suo conseguente
effetto di ricompensa che permettono la loro memorizzazione profonda e la loro
stabilizzazione. Il paziente maniacale
ha, in effetti, questo tratto comune al paziente affetto da dipendenza patologica:
non aderisce alla terapia, sono gli altri che chiedono prima di lui una
terapia, non vuole rinunciare al suo stato di euforia e di esaltazione, non
vuole prendere farmaci che attutiscano queste emozioni, teme di ricadere nello
stato depressivo o di malessere da cui cerca insistentemente di sfuggire. In
psicoanalisi si dice che la maniacalità è un comportamento difensivo nei confronti
di una sottostante depressione, tutto questo a dispetto delle conseguenze
affettive, familiari, sociali, lavorative, legali, economiche. Questo genere di
fenomeni sono da ritenere più impulsivi che compulsivi se è vero che la
compulsività, la coazione a ripetere come si dice in psicoanalisi, si incrocia
con la sofferenza e l’egodistonia causata dalla perdita del controllo.
Una convergenza tra impulsività e manìa era già stata tracciata nella psichiatria
delSettecento,Ottocento,Novecento: Esquirol (1838) parlò di “cleptomania”,
“ninfomania” e “dipsomania”, mentre Tanzi (1905) nel Trattato delle malattie
mentali usò il termine di “manie periodiche”.
L’impulsività può essere infatti intesa come
un equivalente espansivo-eccitatorio: le cosiddette “monomanie”, sindromi caratterizzate da orientamento del pensiero e/o dell’azione
verso un oggetto, eccitazione motoria, umore esaltato, oppure come sindromi
impulsivo-affettive nell’ambito delle sindromi bipolari con componente impulsiva.
Il termine “dipendenza” incontra i termini “ossessione”, “compulsione”,
“impulsività”
Il disturbo ossessivo si situa semanticamente nell’area del termine
greco “anànke” (da cui il termine psichiatrico anancasmo). Da una parte “anànke”
è il destino divino, la predestinazione, l’assoggettamento alla logica
inflessibile del disegno divino. Dall’altro lato, come per esempio nell’etimologìa
teologica, rappresenta la lucida possessione, lo stato d’assedio del soggetto
alle lusinghe ed ai comandi del diavolo, il “daimòn”, demonio e genio che
comanda a vivere secondo necessità, senza contraddizione o incoerenze nell’idea
prevalente che affanna la mente e può poi congestionarsi fino ad arrivare
all’idea dominante ed infine, per asfissia degli altri possibili pensieri,
culminare nell’idea ossessiva.
I termini ossessione e compulsione hanno la loro derivazione
etimologica dai sostantivi latini “obsessio” e “compulsio”, a loro volta
derivanti dai verbi “obsidere”, l’assediare, l’occupare, il bloccare, e “compulsare”,
lo spingere e la spinta a compiere un’azione.
Il termine “comportamento impulsivo” sta per
un processo dinamico consistente in una spinta
che fa tendere l’organismo verso una meta/oggetto e che ha la sua fonte
in una eccitazione somatica. Secondo De Clérembault (1992) l’impulsività è «un’emozione
intensa, prolungata, stenica, che tende a passare all’atto».
Oggi nella moderna accezione del termine
psichiatrico il termine “disturbo del controllo degli impulsi” sta per un
disturbo soggettivo caratterizzato dalla perdita di controllo sul comportamento
in senso impulsivo con una vasta gamma di espressioni psicosociali: piromania,
serial raping, serial killing, parafilie “attive”, onanismo-masturbazione
compulsiva, gambling patologico, abuso di sostanze, tricotillomania, autolesionismo,
bulimia, cleptomania, compulsive buying.
I disturbi
del controllo degli impulsi possono
quindi intendersi:
§ come entità autonoma;
§ come appartenenti ad uno spettro
a cui appartengono diversi disturbi accomunati fra loro da una diatesi
impulsiva (la cosiddetta “multiple addictive sindrome”): uso di sostanze,
personalità antisociale, tratti borderline, gambling, binge-purge behaviors,
compulsive buying;
§ come fenomeni caratterizzati
dalla presenza del fenomeno del craving, un bisogno impellente (urgenza) che comporta la perdita del controllo sul
comportamento appetitivo con la
conseguente azione tesa alla sua soddisfazione tramite la conquista di un oggetto.
Nell’ossessività il soggetto tenta di allontanare dalla propria mente,
senza riuscirvi, un pensiero o un’immagine assillante, in qualche modo
“sgradevole” o che crea del “malessere”.
Nella compulsione il soggetto crede e si sente spinto, mediante un
altro pensiero o un’azione, di “vincere” o controllare la sensazione di disagio
o di malessere che si era prodotta a seguito di quel pensiero assillante,
notando però anche che, nonostante gli sforzi, ciò non sortisce l’effetto
sperato poiché lo stato di malessere perdura. Solo in una seconda fase, quasi
coincidente alla “sensazione di controllo” del disagio percepita in un primo
istante, si è inserita la “spinta automatica” e non facile da reprimere, di
“ripetizione”, che non ha comunque condotto al risultato creduto e sperato.
È stata la scuola francese dell'Ottocento, unitamente alle scuole tedesca, inglese e italiana, a
contribuire allo studio e all'approfondimento del disturbo ossessivo compulsivo
(DOC).
La prima descrizione viene attribuita ad Esquirol, che nel 1838
definì il disturbo giust’appunto, come
una forma di monomania, un delirio parziale “delire partiel”, nel quale
un'attività involontaria, irresistibile e istintiva spingeva il paziente a compiere
azioni che la coscienza respingeva, ma che la volontà non riusciva a sopprimere;
l’autore giunse alla conclusione che a determinare il disturbo fosse un deficit
della volontà e solo secondariamente un disturbo intellettivo.
Esquirol (1838) affermava che la monomania era «essenzialmente la malattia
della sensibilità; essa poggia interamente sui nostri affetti, il suo studio è
inseparabile dalla conoscenza delle passioni; è nel cuore degli uomini ch’essa
ha il suo luogo, è là che bisogna frugare per afferrarne tutte le sfumature».
Già Pinel nel 1801, nel suo Traité
médico-philosophique sur l'alienation mentale, aveva descritto forme di
pazzia non accompagnate da allucinazioni – “manie sans délire”, “folie
raisonnante”. Ciò che risultava difficile da concepire e spiegare a quell’epoca
era la presenza di pensieri persistenti e disturbanti che non fossero definiti
deliri, poiché nelle manifestazioni del disturbo si manteneva una sorta di coscienza.
In seguito furono coniate altre definizioni per identificare il disturbo come
“follia lucida”, “pseudo-monomania”, “follia del dubbio”, “lesione della volontà”,
“delirio emotivo”, “vertigine mentale”, “impulsività intellettuale”, “stigmate
psichiche dei degenerati”, “paranoia rudimentaria”, “idee fisse”, “idea incoercibile”,
“diatesi d'incoercibilità”, “idee imperative”, “anancasmus”, “psicastenia”.
Le teorie che spiegavano la genesi del disturbo ossessivo-compulsivo erano
tre: quella emotiva, quella volitiva e quella intellettiva, che chiamavano in
causa rispettivamente “debolezze” o dell'emotività, o della volontà e del carattere,
o del pensiero.
Tra la seconda metà dell'Ottocento ed i primi del Novecento si assiste
dapprima ad un progressivo e netto distacco concettuale del disturbo ossessivo
dalle forme deliranti, per giungere poi alla composizione del quadro delle nevrosi,
suddivisa nelle forme di nevrastenia, isteria, psicastenia.
Anche la psicoanalisi ha dato un importante contributo nell’assegnare
un ruolo importante al rapporto fra compulsione e dipendenza. L’impulsività e
la tendenza alla compulsione sono accomunati tra loro dalla presenza di una comune
struttura e organizzazione interna: ogni comportamento usato per produrre
gratificazione e fuggire da stati interni di angoscia può diventare compulsivo
e trasformarsi in un disturbo da dipendenza.
Va detto che, sebbene in termini maggiormente fenomenologico descrittivi,
l’approccio unitario al problema della compulsione/impulsività è stato
condiviso anche in ambienti non psicoanalitici. Hollander (1996), che
si richiama a paradigmi di ispirazione biologica, ha proposto un modello
unitario che richiama alcune delle condotte additive nel continuum clinico del
disturbo ossessivo compulsivo: la compulsività e l’impulsività rappresentano
gli estremi di un continuum che va da una tendenza alla sovrastima del pericolo
ed all’evitamento del rischio da un lato, ad una ridotta percezione della
pericolosità di determinati comportamenti e ad una elevata ricerca del pericolo
dal lato opposto.
I disturbi compulsivi si caratterizzano
fenomenologicamente per un’elevata tendenza all’evitamento del pericolo, una
spiccata avversione del rischio ed alti livelli di ansia anticipatoria. Questi disturbi includono
il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo da dismorfismo corporeo,
l’anoressia nervosa, il disturbo da depersonalizzazione, l’ipocondria, la
sindrome di Gilles de la
Tourette. In questi disturbi comportamenti ritualistici
vengono spesso assunti nel tentativo di ridurre l’ansia e diminuire magicamente
il senso di pericolo o di rischio. Al contrario i disturbi impulsivi si caratterizzano per la presenza di comportamenti
volti alla ricerca del rischio, con ridotta capacità di evitamento del pericolo
e scarsa ansia anticipatoria. Questi disturbi includono i disturbi di
personalità del cluster B secondo il DSM-IV (borderline, antisociale,
istrionico e narcisistico), i disturbi del controllo degli impulsi (disturbo
esplosivo intermittente, piromania, cleptomania, gioco d’azzardo patologico e
tricotillomania) e le parafilie. Questi disturbi sono caratterizzati da comportamenti
che inducono piacere anche se le conseguenze di tali comportamenti possono essere
dolorose.
Entrambe le classi di disturbi hanno però lo stesso nucleo centrale: l’incapacità di ritardare o di inibire la messa
in atto di comportamenti che tendono comunque ad essere ripetitivi. Nei disturbi compulsivi tali condotte sono
ripetitive a causa delle resistenze del soggetto e hanno la funzione principale di ridurre l’ansia e la
tensione; i comportamenti
impulsivi, sebbene meno ripetitivi, sono invece principalmente vissuti
come fortemente piacevoli e perciò
tendono a essere rimessi più volte in atto. La caratteristica comune
rimane comunque una certa ripetitività dei comportamenti e la difficoltà di
inibirli. Spesso non è possibile una netta distinzione tra i due tipi di disturbi:
alcuni disordini possono avere sia aspetti impulsivi che aspetti compulsivi o essere
a metà tra i due poli estremi. Così pazienti con tricotillomania e gioco
d’azzardo patologico possono avere sia sintomi impulsivi che compulsivi in
quanto il loro comportamento può sia soggiacere all’impulso di ridurre una
tensione sottostante, sia di indurre il soddisfacimento di un piacere. La compulsività e
l’impulsività possono rappresentare differenti dimensioni psicopatologiche e
tali dimensioni si possono intersecare o essere ortogonali l’una con l’altra.
Anche se i sintomi compulsivi sono generalmente considerati egodistonici,
legati ad una sopravvalutazione della minaccia, laddove i sintomi impulsivi
sono considerati egosintonici e legati ad una sottovalutazione della minaccia,
vi sono numerosi elementi comuni fra i
due disturbi quali la riduzione dell’ansia, la presenza di risposte
perseveranti che ostacolano il raggiungimento di obiettivi e l’effettiva
compresenza in entrambi i tipi di disturbi di elementi egodistonici ed egosintonici.
Cloninger (1993), proponendo un modello dimensionale
psicologico-etologico, ha così distinto l’impulsività dalla compulsività. La compulsività
consiste nella perdita della capacità di scegliere liberamente un comportamento,
di scegliere se fermarsi o continuare quel dato comportamento, mentre
l’impulsività rappresenta la perdita della capacità di inibire comportamenti e
reazioni dalle conseguenze dannose per il soggetto e per gli altri. La perseverazione
del comportamento consiste nella sua continuazione nonostante le conseguenze
negative come malattie fisiche, perdita del lavoro, del matrimonio o della libertà.
Questo ampio spettro di disturbi può manifestarsi, come si può vedere
nella tabella 1, con espressioni diverse a seconda del sesso, in coincidenza o
meno con i disturbi dell’umore, e può coincidere con una serie di osservazioni
tratte da studi di neurochimica e
neurofisiologia.
Se nei disturbi di tipo impulsivo prevale il comportamento di ricerca
del rischio e di minimizzazione del
rischio o ridotta stima del pericolo, nei disturbi di tipo compulsivo prevale
invece il comportamento di aumento di stima del pericolo, di avversione al
rischio e di evitamento dell’ansia. Questi comportamenti sono molto persistenti
e vengono continuamente rafforzati dalla ricompensa, dalla gratificazione.
Mentre nei maschi paiono più frequenti gambling, disturbo esplosivo intermittente, piromania, comportamento
sessuale compulsivo, nelle femmine sono più diffuse la cleptomania, la
tricotillomania, il comportamento automutilante, le spese eccessive di tipo
compulsivo ed il disturbo da abbuffate.
Tab.1 – Impulsività/compulsività
IMPULSIVITÀ
COMPULSIVITÀ
|
ricerca della novità + -
|
evitamento dell’ansia
- +
|
persistenza - +
|
dipendenza dalla ricompensa
-
+
|
IMPULSIVITÀ
COMPULSIVITÀ
|
disturbo esplosivo intermittente, disturbo ossessivo,
ipocondria,
tricotillomania, gioco d’azzardo,
disturbo
dismorfofobico
compulsioni sessuali, anorressia
disturbo borderline e antisociale
depersonalizzazione
|
Bipolarità disturbi dell’umore unipolarità dei disturbi
dell’umore
|
ipofunzionamento dei circuiti nervosi iperfunzionamento di
circuiti nervosi
del lobo frontale del cervello del lobo frontale del cervello
|
ipofunzionalità serotoninergica iperfunzione serotoninergica
|
disinibizione dell’aggressività inibizione dell’aggressività
|
Secondo Cloninger (1993) la dimensione temperamentale novelty
seeking caratterizzata da bassi livelli
di evitamento del danno, condotte impulsive e violente, associata al sistema
dopaminergico, sovrapposta spesso al disturbo da sostanze, può predire il
disturbo da sostanze ed è spesso associata a giovani abusatori con tratti
antisociali. Questo tratto personologico secondo Cloninger (1987) è
fondamentale per distinguere l’alcolismo di tipo II, prevalentemente maschile,
a elevata ereditarietà, a esordio precoce, più grave dall’alcolismo di tipo I.
Insieme al tratto di personalità novelty seeking c’è il tratto
sensation seeking che è ritenuto un
marker personologico di rischio per le condotte sociopatiche e per il disturbo
da sostanze (Zuckerman, Neeb, 1979; Zuckerman, 1988): esso è associato alla
ricerca di sensazioni forti e insolite, a comportamenti trasgressivi, all’esposizione
a rischi, all’intolleranza alla noia.
Secondo Canali (2002) «la compulsione alla ricerca
e all'uso della sostanza, è stata la
caratteristica fondamentale della dipendenza secondo tutti gli standard diagnostici
attuali e secondo la stessa tradizione, che ha portato alla definizione della
dipendenza come malattia. L' ICD-10 equipara la compulsione al consumo a un “forte
desiderio di assumere la sostanza”. Una definizione tutt’altro che scientifica
o positiva. Quanto forte deve essere il desiderio per trasformarsi in
compulsione? E in che modo deve misurarsi la sua forza? Attraverso ciò che
riportano i soggetti o dall'osservazione del loro comportamento? E come
inquadrare la non infrequente situazione di forte e persistente desiderio di
assumere una sostanza che non dà luogo all'effettivo consumo? Non si guadagna
in coerenza e chiarezza anche se si cerca di capire cosa intenda per
compulsione il DSM-IV consultando altri criteri diagnostici correlati. Il
manuale definisce la compulsione come parte del disturbo ossessivo-compulsivo.
La compulsione è così descritta: “Un comportamento ripetitivo (per esempio
lavarsi, mettere in ordine, controllare) o un atto mentale (per esempio pregare,
contare, ripetere parole in silenzio) il cui fine è prevenire o ridurre l’ansia
o l’angoscia, non per portare piacere o gratificazione. Nella gran parte dei
casi, la persona si sente costretta a porre in atto la compulsione per ridurre
l'inquietudine che accompagna un’ossessione oppure per prevenire eventi o
situazioni temute. Per definizione la compulsione è allo stesso tempo eccessiva
e non connessa in una maniera realistica a ciò che invece dovrebbe
neutralizzare o prevenire. Nella dipendenza, la ricerca e il consumo di sostanze
possono senz’altro essere eccessive ma sono sicuramente -anzi oggettivamente-
collegate alla riduzione dell’ansia, all’evitamento della tangibile e dolorosa
sindrome d’astinenza, e associate a forte piacere e gratificazione.
La categoria del disturbo del controllo degli impulsi è l’altro quadro
nosografico legato a tratti comportamentali in qualche modo riferibili alla
compulsione. Secondo il DSM-IV, la caratteristica diagnostica fondamentale per
questo disturbo è l’incapacità di resistere all’impulso, alla pulsione, alla
tentazione di compiere un atto pericoloso per se stessi o per gli altri. Questa
descrizione non chiarisce se l’incapacità di resistere all’impulso sia
radicabile inabilità a far fronte a questo tipo di spinta emotiva e
motivazionale o il risultato di una resa deliberata» (Canali, 2003).
Il “craving” come fenomeno impulsivo-compulsivo
Craving (desiderare ardentemente, bramare) è
un altro termine ormai molto comune nella descrizione del fenomeno della dipendenza,
tant’è che anch’esso, per estensione, ha finito per essere usato ed abusato per
descrivere il comportamento dipendente patologico. Come si diceva in
precedenza, il carattere dell’eccessività implicito nel termine mania era già
etimologicamente connesso all’ossessività. Bramare non è lo stesso di
desiderare. Bramare già descrive la passivizzazione che subisce il soggetto nei
confronti dell’oggetto bramato e la sua perdita di libertà (obsidere è assediare,
occupare, bloccare).
Janiri (2000) ha contribuito a
divulgare con una recente revisione della letteratura la connessione del
termine craving, cruciale per la comprensione dei fenomeni di dipendenza, alla
dimensione impulsivo-compulsiva. «Alcuni autori suggeriscono
che il craving condivida alcune specifiche caratteristiche con il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC).
Secondo questi studiosi la presenza del craving
dipende dalla presenza di pensieri ossessivi relativi al bere. Il
comportamento compulsivo che si
manifesta nel bere sarebbe generato dal tentativo di neutralizzare tali pensieri ossessivi opponendovi delle resistenze.
I disturbi da uso di sostanze sono
stati tradizionalmente considerati come manifestazioni di un ridotto controllo
degli impulsi. I criteri per l’abuso e la dipendenza da sostanze
includono items che si riferiscono a comportamenti come: assumere quantità di
una sostanza maggiori di quanto si intendeva, provare ripetutamente e con
insuccesso a interrompere l’uso, usare la sostanza in situazioni pericolose e
usare una sostanza pur sapendo che provoca problemi sociali, psicologici e
fisici. Tutti questi comportamenti certamente suggeriscono una ridotta capacità
di controllo dell’impulso ad assumere la sostanza in questione. Tuttavia la
definizione di “dipendenza da sostanze psicoattive” ha subito profonde modificazioni
nel DSM-III-R e poi nel DSM-IV, rispetto alle precedenti edizioni del manuale
nelle quali gli aspetti psico-sociali venivano considerati come distinti dai
fenomeni di tolleranza e di astinenza che contrassegnavano la dipendenza. E ciò
con la sola eccezione, non a caso, della dipendenza da alcol e da cannabis,
nelle quali la modalità patologica di uso e la compromissione delle attività
sociali o lavorative dovute all’uso sono parte integrante della definizione di
dipendenza.
Nella nuova definizione di dipendenza si enfatizza “la natura
compulsiva dell’assunzione della sostanza” che si associa a “l’inadeguato
controllo dell’uso della sostanza stessa”. I concetti di compulsività ed
impulsività si vengono quindi a sovrapporre, o meglio a confondere: il
comportamento compulsivo può essere visto come una perdita del controllo in
relazione all’uso della sostanza o, al contrario, un ridotto controllo degli
impulsi si può manifestare con comportamenti compulsivi.
Appare necessario a questo punto tentare di definire il contesto
fenomenologico del craving tra impulsività e compulsività, tenendo presente che
esso può situarsi in ben differenti posizioni dello spettro a seconda della
sostanza che ne è l’oggetto. In base ad alcuni studi il craving per l’alcol
potrebbe essere visto come un segnale associato a un comportamento automatico.
Implicita in questo concetto è l’idea che il craving esista ad un livello non cosciente (impulso), con una possibile
origine sottocorticale, ed a questo venga a sovrapporsi un craving di origine
anche corticale, cognitivo, cosciente, che si manifesta in pensieri persistenti
e ricorrenti legati all’alcol (ossessioni), comportamenti ripetitivi volti ad
assumere l’alcol (compulsioni) e nello sforzo di controllare sia i pensieri che
le azioni. Costituiscono
comportamenti potenzialmente addictive tutti gli atti ripetitivi la cui
sospensione provoca l’accumulo di una tensione crescente e la cui esecuzione
produce piacere e sollievo. Il craving sarebbe pertanto un segnale associato
al raggiungimento di una soglia di tensione e alla memoria delle precedenti
esperienze di gratificazione. I comportamenti addictive tendono quindi ad
automantenersi nonostante gli sforzi di interromperli o moderarli, e spesso
producono effetti deleteri sulla salute o sulla sfera relazionale e sociale del
soggetto. Lo spettro degli addictive disorders/behaviors include comportamenti
ai limiti della normalità (le cosiddette “dipendenze socialmente condivise”,
quali quelle da stress, da lavoro, da esercizio fisico), comportamenti francamente
patologici (anche se non nosograficamente
individuabili), e disturbi veri e propri. Tutti sono caratterizzati da un
insufficiente o problematico controllo degli impulsi, da un’inadeguata
autoregolazione del funzionamento individuale, nonché da fenomeni comuni a
tutte le condizioni di addiction» (Janiri, 2000).
Il termine “dipendenza” incontra i termini “alessitimia”, “parafilie”, “dissociazione”
Dissociazione
e lessitimia
In questa prospettiva la dipendenza patologica sarebbe il risultato di
un uso massivo e rigido della dissociazione, nel tentativo di regolare stati
affettivi intensi avvertiti come una minaccia dall’io (Caretti, 2005).
Il termine “alessitimia” (Sifneos, Nemiah, 1973), deriva dal greco “lexis”, parola, “thymos”, emozione: mancanza
di parole per le emozioni.
La lessitimia è stata riscontrata nella dipendenza da sostanze, nei disturbi
di personalità antisociali, nei soggetti che hanno subito gravi traumi, nelle malattie
psicosomatiche, nelle perversioni sessuali.
Il disturbo è caratterizzato dall’incapacità ed esprimere verbalmente
le emozioni, scarsa capacità di elaborazione delle emozioni, esplosioni di
collera o pianto immotivato, espressione delle emozioni tramite l’azione,
amnesie, oscillazioni tra comportamento dipendente ed evitante, carenza di
attività simbolica, linguaggio stereotipato, scarsa fantasia, incapacità di
ricordare i sogni o vita onirica banale, scarsa capacità empatica e conseguente
povertà delle relazioni personali, angusto, pragmatico e fossilizzato rapporto
con la realtà, incapacità di distinguere tra sensazioni corporee ed emozioni
con una assoluta prevalenza del registro corporeo, incapacità di riferirle agli
eventi vissuti come reazioni ad essi. Questi soggetti non sanno riflettere su
di sé e sui loro stati d’animo. L’incapacità ad esprimere verbalmente le
emozioni, la scarsa capacità di elaborazione delle emozioni, la carenza di
attività simbolica, il linguaggio stereotipato, la scarsa fantasia,
l’incapacità di ricordare i sogni o la vita onirica banale e la povertà delle
relazioni personali rappresentano tratti comuni a quelli dei disturbi di
personalità borderline, antisociale e istrionica.
Secondo Caretti e La
Barbera (2005) le caratteristiche dell’alessitimia sono funzionali
a modulare le risposte individuali allo stress emotivo, attraverso l’utilizzo
della dissociazione per indurre stati alterati di coscienza finalizzati a
regolare quelle emozioni che sfuggono alle capacità del soggetto. Questa difesa
è adattiva se l’allontanamento dalla realtà è parziale e temporaneo, ma disfunzionale
se rappresenta una modalità ricorsiva per gestire i fatti della vita.
La dissociazione impedisce la formazione di espressioni verbali
dell’esperienza e questo coincide con la difficoltà di accedere al proprio mondo
interno, ai sogni, alle fantasie e di poterle regolare, utilizzare e scambiare
nelle relazioni interpersonali (Caretti, Craparo, Mangiapane, 2003).
Queste esperienze dissociative transitorie permettono al soggetto di sottrarsi
ad una realtà avvertita come causa di forti angosce che non possono essere
elaborate efficacemente. Steiner (1993) ha chiamato queste esperienze di
isolamento del sé “rifugi della mente”, luoghi mentali dissociati dal resto della
personalità in cui ci si ritira nel tentativo di sfuggire a una realtà vissuta
come persecutoria.
I dipendenti sembrano contrastare difensivamente la capacità di rappresentare
gli stati mentali propri e altrui, creando così un vuoto affettivo e cognitivo
che viene colmato con l’uso delle sostanze. La dipendenza patologica è cioè il
risultato di un uso massivo e rigido della dissociazione, nel tentativo di regolare
stati affettivi intensi avvertiti come una minaccia dall’io.
L’uso compulsivo di Internet rappresenta, per esempio, un’occasione o
una serie di occasioni narcisistiche: ci si può presentare come si vorrebbe
essere o si vorrebbe essere visti dagli altri, permettendo di fuggire dal
contatto reale e dalla valutazione reale tanto temuta perché frustrante e non
controllabile. Si capisce allora perché il tema dell’identità sia così
importante in questo discorso. La sperimentazione di diverse identità (identità
multiple) anche sessuali è una delle
potenzialità della rete che può generare addiction. Il web può diventare quindi
un rifugio. «Il rifugio funziona come una zona della mente in cui
non si deve affrontare la realtà, in cui le fantasie e l’onnipotenza possono esistere
senza controllo e qualunque cosa è permessa. È spesso questa caratteristica che
costituisce l’attrattiva del rifugio per il paziente, o di solito comporta
l’utilizzazione di meccanismi perversi e psicotici»
(Steiner, 1993).
I rifugi della mente si possono intendere come luoghi mentali ossessivo
compulsivi o riti magici in cui ci si ritira quando la realtà è insopportabile,
in cui si automedica l’io danneggiato per un lutto o per una perdita dolorosa.
La perdita non elaborata comporta angoscia, dolore e costante sensazione di pericolo.
Il concetto di luogo mentale fa pensare alla funzione di reverie materna
bioniana in grado di accogliere e rendere pensabili gli stati mentali primitivi,
i dati grezzi dell’esperienza, sperimentati come angosciosi e dolorosi in
quanto privi di significato e altrimenti proiettati all’esterno tramite
l’identificazione proiettiva. Tale funzione materna corrisponde a quello stato
di calma ricettività che accoglie i sentimenti caotici del bambino e gli dà
significato, calmando quindi dolore e angoscia.
Secondo Caretti (2005) i rifugi della mente servono a neutralizzare e
controllare l’angoscia di morte e l’aggressività di tipo primitivo, ma in quei
soggetti in cui le problematiche collegate alla distruttività sono particolarmente
disturbanti, il rifugio mentale può giungere a dominare la psiche dando luogo
ad una patologia che va dal ritiro dal mondo oggettuale, alle attività autoerotiche,
all’aggressività contro se stessi (anoressia e tossicomania) fino ai disturbi
dissociativi (trance dissociativa da videoterminale).
Dipendenza
sessuale, parafilìe
Secondo Carnes (2001) le caratteristiche
principali delle dipendenze sessuali sono: pattern di comportamenti sessuali fuori controllo,
gravi conseguenze dovute ai comportamenti sessuali, incapacità di smettere
nonostante le gravi conseguenze, persistente perseguimento di comportamenti
autodistruttivi, crescente desiderio e sforzo di controllare i comportamenti,
ossessione sessuale e fantasie come prime strategie di adattamento, incremento
dell’attività, gravi cambiamenti dell’umore dovuti ad attività sessuale,
smodato aumento di tempo speso nella ricerca di occasioni sessuali o per
riprendersi da esse, trascuratezza nei confronti di attività sociali,
lavorative ecc., piacere, dipendenza fisica, craving, astinenza, compulsione,
segretezza, cambiamento di personalità, contraddizione delle proprie
convinzioni etiche (Carnes, 2001).
Il disturbo compare per la prima volta nel 1991 nel DSM III tra i disturbi non altrimenti specificati
come “disagio collegato a modalità di
conquiste sessuali ripetute o ad altre forme di dipendenza sessuale non
parafilica che comportano una successione di persone che esistono solo per
essere usate come oggetti”.
Nel DSM-IV viene eliminata la dizione dipendenza sessuale e si usa il
termine di disturbo sessuale non altrimenti specificato: si tratterebbe di un “disagio connesso a quadro di ripetute
relazioni sessuali con una successione di partner vissuti dal soggetto come
cose da usare”.
Attualmente il dibattito scientifico verte su tre possibili ipotesi
patogenetiche: le dipendenze patologiche (Goodman, 1993), i disturbi impulsivi-ossessivo
compulsivi (Hollander, 1992; Cloninger, 1993), la teoria psicoanalitica della
compulsione e della perversione secondo cui ogni comportamento usato per
produrre gratificazione e fuggire da stati interni di angoscia può diventare
compulsivo e diventare un disturbo da dipendenza.
Secondo Goodman (1993) ci sono sensibili differenze tra dipendenze e fenomeni
compulsivi. Le dipendenze patologiche sono caratterizzate da attività sessuale
egosintonica (impulsiva ?) di ricerca del piacere e riduzione del disagio, e
risposta ai farmaci antidepressivi simile a quella osservata nella depressione.
Le compulsioni sono legate a fenomeni di eccessività caratterizzati da attività
sessuali egodistoniche che vanno intese come attività di difesa non finalizzata
al piacere, ma alla riduzione di ansia e depressione e da una risposta agli
antidepressivi diversa da quella nella depressione.
La dipendenza sessuale spesso coesiste con quella da sostanze ed è frequentemente
una causa negletta di ricaduta. Questo è particolarmente vero per la cocaina. Molti
pazienti appaiono intrappolati in un meccanismo di reciproca ricaduta in cui il comportamento sessuale compulsivo
precipita la ricaduta nell’uso di cocaina e viceversa. Spesso i sex
addicts sono anche affetti da dipendenza
da alcol , soffrono di disturbi
alimentari, di disturbi compulsivi consistenti nello spendere denaro, o sono giocatori compulsivi.
Dal punto di vista prognostico si è concordi ormai nel ritenere che vi
possano essere significativi cambiamenti a livello comportamentale solo se viene affrontata in terapia in
modo diretto la questione della natura
compulsiva del comportamento sessuale e del poliabuso di droghe.
Goodman (1993), ispirandosi al sistema diagnostico categoriale del DSM,
ha proposto un modello diagnostico unitario per tutte le dipendenze. Sono necessari almeno tre criteri per fare
diagnosi e alcuni sintomi del disturbo devono durare da almeno un mese o
verificati ripetutamente per un più lungo periodo:
·
frequente espressione del
comportamento per un lungo periodo di tempo, maggiore di quanto comunemente
inteso;
·
persistente desiderio di
esprimere il comportamento con uno o più sforzi inefficaci di controllarlo o
ridurlo;
·
molto tempo speso in attività
necessarie al comportamento o per riprendersi dai suoi effetti;
·
frequenti preoccupazioni per il comportamento
e le attività preparatorie;
·
frequente ingaggio nel comportamento nonostante
le scadenze lavorative, accademiche, domestiche o sociali;
·
abbandono dei doveri sociali,
lavorativi, ricreazionali a causa del comportamento;
·
continuazione del comportamento
a dispetto del sapere di avere persistenti e ricorrenti problemi sociali, finanziari,
psicologici o fisici causati o esacerbati dal comportamento;
·
bisogno di aumentare l’intensità del
comportamento (della sostanza) per ottenere l’effetto desiderato o diminuiti
effetti con comportamenti della stessa o maggiore intensità;
·
incapacità di rilassarsi e irritabilità se
non è possibile agire il comportamento.
Il termine “dipendenza” incontra il termine
“personalità”
Il termine “dipendenza”
nella cultura occidentale e orientale
La dipendenza è una modalità di relazione in cui un soggetto si rivolge
continuamente ad altri per essere aiutato, guidato e sostenuto (Galimberti, 1992).
Questo è il significato del termine nella cultura occidentale in cui il
termine “dipendenza” è quasi sempre negativo. Nella cultura indiana, invece,
per esempio, l’atteggiamento nei confronti del termine è più positivo e
conciliante. Lo dimostra anche la parola “asrayana” che significa “cercare
appoggio in”, “riposarsi su”, “cercar rifugio e sicurezza in”.
Parallelamente dal punto di vista psicologico il modello educativo
occidentale è teso a promuovere l’autonomia del bambino, il distacco,
l’indipendenza personale è una virtù apprezzata come segno di maturità. In
occidente il neonato, dopo la nascita, viene allontanato dalla madre e
riportato a lei solo per la poppata anche se questo atteggiamento sta
radicalmente mutando. Man mano che cresce il bambino viene incoraggiato a
costruire e mantenere una cerchia di amici che frequenta senza i genitori. Allo
stesso modo quando gli anziani non sono più autonomi vengono, in genere, allontanati
dalla famiglia e ricoverati in apposite strutture dove qualcuno si occupi di
loro. Nella cultura giapponese esiste, al
riguardo, un concetto fondamentale quello di amae (Takeo Doi, 1991),
tipico della cultura giapponese, ma intraducibile e assente nel mondo
occidentale. La traduzione italiana di amae
può essere quella di “dipendenza”: dipendenza affettiva o, in termini
psicoanalitici, “amore passivo di oggetto”. L’esempio più pregnante di amae è quello dei rapporto che il bambino
instaura con la madre a partire dal primo anno di vita: il bambino comincia a
vedere la madre come un qualcosa di separato da sé, ma anche come qualcuno che
gli è indispensabile. L’imponenza di questo concetto, secondo l’autore, risiede
nel fatto che «l’amore passivo, amae, contraddistingue la natura specifica della società e della
cultura giapponesi». Un altro esempio tipico di amae riguarda la figura dell’imperatore: «l'imperatore
si aspetta che quanti lo circondano si occupino di ogni cosa, compreso,
ovviamente, il governo dei paese. Per un verso egli dipende completamente da
loro, ma dal punto di vista gerarchico è superiore a tutti. Quanto a
dipendenza, non è diverso da un lattante, e tuttavia il suo è il rango più
elevato del paese, prova innegabile dei rispetto accordato in Giappone alla
dipendenza infantile».
Nella
cultura indiana si valorizza colui che si prende carico di altri ed è poco
sentita la spinta all’autonomia strenua dei bambini e alla loro emancipazione
dal contesto familiare. Non viene esercitata alcuna spinta per accelerare lo svezzamento e l’anziano non
più indipendente viene “inglobato” nel gruppo familiare che si prende cura di
lui. Si tratta di gruppi familiari ampi, allargati, in cui i bambini di varie
madri stanno insieme e in cui varie madri si occupano dei bambini delle altre,
insieme a nonne e zie non ancora maritate. In un simile modello l’individuo è
portato anche da adulto a privilegiare i rapporti affettivi. D’altro canto,
come sottolinea Lingiardi (2005), «un’indipendenza autentica poggia
sulla capacità di dipendere. Più che di una polarità dipendenza-indipendenza
sarebbe meglio parlare di un continuum dipendenza sana/patologica o sicura/insicura,
definendo insicure le forme eccessive di dipendenza o, in senso controfobico,
d’indipendenza (…) una ricerca disperata dell’altro, visto come unico
regolatore del sé o una fuga atterrita dall’altro, visto come una minaccia». In effetti, definire a
priori la dipendenza come sempre negativa ci impedisce di verificare se ne
esista anche una “buona” o normale e cosa la differenzi da quella “artificiale”
o provocata e sempre patologica. I significati di “dipendenza”, propri del
linguaggio comune, sembrerebbero accogliere due accezioni antitetiche:
§ la dipendenza fa parte
dell’essere dell’uomo per cui non è possibile non essere dipendenti. Il
problema che si pone è sapere quali dipendenze aiutino il soggetto ed il suo
gruppo sociale e quali dipendenze, al contrario, assumano forme e contenuti,
finalità e conseguenze che minacciano la sua stessa vita;
§ la dipendenza non fa parte
dell’essere proprio dell’uomo, è una condizione artificiale totalmente altra.
Se si considera il polo estremo della dipendenza, l’essere ridotti e costretti
ad una relazione duale esclusiva, allora è difficile sostenere che la
dipendenza faccia parte dell’essere umano come una sua qualità. Ma se questa
affermazione è plausibile, è indubbio che la dipendenza non fa che portare alle
estreme conseguenze premesse ed organizzazioni cognitive ed affettive già
funzionanti nel quotidiano e nei processi di crescita di ognuno.
Il
termine “dipendenza” e i disturbi di personalità
Il DSM IV descrive un disturbo dipendente di personalità
caratterizzato dalla necessità pervasiva ed eccessiva di essere accuditi, che
determina comportamento sottomesso e dipendente e timore della separazione.
Questa modalità compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà
di contesti. Il comportamento dipendente e sottomesso è finalizzato a suscitare
protezione, e nasce da una percezione di sé come incapace di funzionare adeguatamente
senza l’aiuto di altri.
«La dipendenza è uno stile di personalità
caratterizzato da quattro componenti principali: motivazionale (forte bisogno
di ricevere guida, approvazione e sostegno dagli altri), cognitiva (percezione
di sé come impotente e inefficace mentre gli altri sono potenti e sanno
governare le situazioni), affettiva(ansia di fronte alla richiesta di
funzionare in modo indipendente soprattutto quando i risultati di questo sforzo
devono essere valutati dagli altri), comportamentale (tendenza a cercare aiuto,
sostegno, approvazione e guida e a sottomettersi nelle relazioni interpersonali)» (Bornstein, 1993).
Il disturbo di personalità e la dipendenza da sostanze paiono
condividere una comune eziologia nella cosiddetta relazione di spettro (Maffei,
2005). Lo spettro del disturbo degli impulsi, come abbiamo visto in
precedenza, comprenderebbele le
personalità borderline e quelle antisociali, il disturbo da sostanze e i
disturbi dell’alimentazione, tutti accomunati
tra loro dalla tendenza all’azione.
Secondo Kernberg (1987) la
dipendenza è un sintomo o una patologia che può indurre un funzionamento
psicopatologico di tipo borderline caratterizzato dalla difficoltà a
controllare gli impulsi, dalla scarsa tolleranza dell’ansia, dall’assenza di
difese sublimatorie, dalla presenza di processi di pensiero primario di tipo
magico-onnipotente, dalla prevalenza di meccanismi difensivi come la scissione,
l’idealizzazione, la proiezione, la negazione, l’onnipotenza e la
svalutazione, e da relazioni oggettuali
patologiche e incostanti.
Il disturbo di personalità e la dipendenza contribuirebbero allo sviluppo
l’una dell’altra nella cosiddetta relazione eziologica (Ttriebwasser, Shea,
1996). I due disturbi si influenzano reciprocamente per quanto riguarda
l’emergere e la presentazione degli aspetti clinici nella cosiddetta relazione
patoplastica. Questa relazione va intesa come bidirezionale. Il disturbo di personalità
eserciterà un profondo effetto sulla modalità di presentazione del disturbo da
sostanze, su come questo viene vissuto, sul suo decorso e sulla sua risposta al
trattamento (Frances, 1980). Analogamente un effetto del genere sarà esercitato
sulla personalità dal disturbo da sostanze (Widiger, Trull, 1993).
Stone (1989) ha cercato, successivamente, di definire il ruolo dei due
disturbi come primario o secondario. Il disturbo di personalità può essere un
fattore di rischio per l’esordio del disturbo da sostanze o può invece svolgere
un ruolo più direttamente eziologico o
patoplastico. Il disturbo da sostanze può, dal canto suo, influenzare notevolmente
il manifestarsi del disturbo di personalità: la condotta tossicomanica
impatterebbe così profondamente sul funzionamento psichico, oltre che
comportamentale, dell’individuo da implicare importanti ripercussioni sulla
personalità.
Secondo Khantzian (1997), la scelta di una data sostanza psicoattiva
non è casuale, ma legata alle caratteristiche psichiche della persona.
Rounsaville (1982) ha parlato di “self medication” da parte degli eroinomani
degli stati emotivi dolorosi e intollerabili, mentre secondo Weiss (1993),
invece, le alterazioni dell’umore depressive o maniacali spiegano il ricorso
alla sostanza indipendentemente dalla sostanza di scelta primaria.
Il termine “dipendenza” in psicoanalisi
Il concetto di dipendenza ha
avuto un grande spazio nel dibattito teorico psicoanalitico contemporaneo,
anche se non sempre la psicoanalisi ha mostrato un analogo interesse terapeutico
per i pazienti dipendenti, giustificando tale posizione con l’incapacità del
paziente dipendente a saper rispettare le regole del setting, con la sua
tendenza all’azione piuttosto che alla riflessione e con la sua scarsa
motivazione alla cura.
La dipendenza dai genitori, secondo la teoria
freudiana, è un fatto biologico
responsabile della formazione della personalità normale o patologica. Il fattore
biologico consiste nella protratta impotenza e dipendenza del bambino che nasce
più incompleto di altri animali e per il quale quindi il valore dell’oggetto
protettivo si accresce enormemente. Il timore di perdere i genitori ed il
bisogno di essere amati, che non abbandonerà mai l’essere umano, produce la
sottomissione educativa e la dipendenza, che in età adulta diventa sottomissione
sociale, bisogno religioso, aspirazione etica e morale (Galimberti, 1992).
Come abbiamo visto nella
prefazione a questo volume di Eugenio Gaburri «esiste una parola per
esprimere un concetto che percorre ormai da cento anni la letteratura
psicoanalitica, una parola che in lingua italiana prende un aspetto riduttivo:
“l'impotenza”. Il suo corrispettivo nel lessico psicoanalitico freudiano è “hilflosigkeit” e sta a significare lo
stato psico-fisico del lattante nella prima fase della vita.
Letteralmente “ilflosigkeit”
significa mancanza di aiuto (hilfe), il concetto rinvia alla fisiologica
impotenza, più marcata nel cucciolo umano che in altre specie. Con questo
concetto la psicoanalisi cerca di esplorare la condizione (di dipendenza) che
caratterizza la situazione somato/psichica del neonato del tutto impotente a
provvedere alla sua sopravvivenza e alla sua crescita, impotenza evidente fin
dal passaggio dall’ambiente originario al nuovo ambiente extrauterino, dove, da
subito, dovrà imparare a respirare, mangiare, espellere e, soprattutto, a farsi
capire (e ad essere capito) nei suoi bisogni elementari».
Nella psicoanalisi freudiana delle origini, la dipendenza nevrotica
dell’adulto rimandava alla fissazione allo stadio orale come conseguenza di
atteggiamenti frustranti o iperprotettivi dei genitori. La tossicomania veniva
spiegata, all’inizio del ventesimo secolo, come un esempio di fissazione narcisistica
allo stadio orale. La fase orale sarebbe stata caratterizzata da legami di tipo
fusionale, da in- differenziazione fra il Sé e il Non- Sé e dalla prevalenza,
come si diceva poc’anzi, del registro comportamentale su quello del pensiero.
Le tossicomanie, così, parevano corrispondere ad una bramosia orale caratterizzata da tendenza alla passività, paura
di restare soli, insaziabilità, ipersensibilità alla frustrazione e
l’assunzione di droga veniva paragonata ad un atto magico con cui ci si procura
un piacere pre-genitale.
In considerazione di tali motivi
già allora si sosteneva, come bene sanno
coloro che si occupano da anni di addiction,
che non si può considerare guarito un tossicomane solo perchè si è potuto disintossicare
o sottoporre a programmi pedagogici. Ciò che agli psicoanalisti appariva cruciale
già nei primi decenni del secolo scorso era la necessità di svolgere un lavoro
analitico teso a svelare e neutralizzare i veri motivi psichici del bisogno
compulsivo delle droghe.
Gli sviluppi successivi della
ricerca sottolinearono il carattere impulsivo
del disturbo e questo permise di allargare l’osservazione a due disturbi confinanti
con le tossicomanie: la bulimia e il gioco patologico.
Dobbiamo riconoscere, dunque, alla
psicoanalisi, molto tempo prima che si sviluppasse l’attuale ricerca
neuroscientifica, il grande merito di avere intuito per prima la fisionomia
unitaria dell’addiction. La letteratura psicoanalitica giunse così a descrivere una
personalità tipicamente dipendente
caratterizzata da una fissazione allo stadio orale dello sviluppo psicosessuale
che condiziona la ricerca compulsiva del piacere e la sua capacità di
differirlo nel tempo, da una scarsa maturazione dell’io, dall’intolleranza alle
frustrazioni e da una tendenza maniaco-depressiva.
Un altro concetto di grande rilevanza euristica e clinica per la
psicoanalisi e per l’interpretazione psicologica delle dipendenze, andato
affermandosi sin dai primi anni ‘30, fu
quello di narcisismo: si incominciò a pensare che, al di là della pura e
semplice bramosia orale, come la chiamava Abraham, la sostanza permetteva difensivamente di aumentare
un’autostima deficitaria grazie all’effetto euforizzante che ricordava, per
così dire, al Sé la sua dimensione narcisistica originaria, la cosiddetta beatitudine
oceanica.
Questi concetti
conseguentemente, a loro volta, promossero la ricerca sulla qualità fondante
della relazione primaria madre-bambino nella costituzione della cosiddetta base
sicura del sé degli umani. Gli studi sulla teoria dell’attaccamento hanno
cercato di dimostrare come lo stile relazionale (sicuro/libero/autonomo,
rifiutante, preoccupato/invischiato, irrisolto per trauma, inclassificabile) e
l’organizzazione della personalità rispecchino il tipo di relazione che c’è
stata fra madre e bambino. È intuibile dunque che certi disturbi si possono
tramandare di generazione in generazione (Bowlby, 1983). Da
questo punto di vista nei tossicomani sarebbero frequenti tratti di personalità
iperdipendenti e immaturi, caratterizzati da uno stile di attaccamento ansioso-insicuro
(rifiuto regole sociali, aggressività, sfiducia negli altri).
Olivenstein (1984) ha invece correlato la
tossicomanìa al fallimento della fase dello “specchio infranto” (6-18 mesi): la madre, come uno specchio, dovrebbe
rinviare un’immagine unitaria e differenziata da sé in modo da permettere al
bambino di costituire un Io diverso da quello della madre. Se questo non si
realizza si parla di fase dello “specchio infranto”. Il bambino è vissuto e si
vive al posto di un altro (per es. di un fratello morto, del desiderio di una
bambina se è maschio) in una specie di non identità. A differenza dalla psicosi,
dove la fase dello specchio non si realizza, qui, appena ha luogo il riconoscimento,
avviene anche la frattura: lo specchio si infrange rimandando un’immagine
frammentata e incompleta che riporta al precedente stato di indifferenziazione.
Contemporaneamente si ha la nostalgia per lo stato di fusione perduto e la
malinconia di “essere e non essere” (sofferenza come misto fra rabbia e
impotenza).
Green (1992) ha descritto nel dipendente un’organizzazione
narcisistica caratterizzata dal “complesso
della madre morta”. È assente in queste persone l’esperienza fisica e psichica
di una relazione su cui ci si possa “appoggiare” e che permetta uno sviluppo
narcisistico adeguato. La madre propone al figlio una relazione in cui il bambino non viene percepito in quanto
portatore di specifici bisogni e desideri ed è pertanto da ritenersi una
relazione oggettuale devitalizzata.
In questo modo non si realizza, come ha indicato nella sua interpretazione
dell’addiction Joyce McDougall (1990), l’esperienza transizionale (nè c’è, di
conseguenza, la possibilità di introiettarla e di usarla quando è necessaria) e
perché, con gli agiti compulsivi e ripetuti e con la difesa narcisistica che
abbiamo delineato, non si può riuscire a costruire o a sviluppare l’oggetto
transizionale, né quello interno né quello esterno. In questi casi il dolore
psichico è tanto forte da arrivare a mettere in discussione il senso profondo
di sé.
Le
tossicomanie e il narcisismo
Gli studi sul
narcisismo e sulle vicissitudini nella formazione del Sé sono stati molto
importanti per l’interpretazione psicoanalitica di questi disturbi.
Kohut
(1976) ha descritto i tossicomani come pazienti
adulti con disturbi narcisistici caratterizzati da un Sé frammentato. La
dipendenza da sostanze riflette un tentativo di ristabilire la coesione di un
Sé poco coeso e difettoso nel suo funzionamento. L’origine di questa carenza
strutturale sta nella mancanza di empatia nelle relazioni con i genitori che
non ha permesso loro di rispecchiare il Sé del bambino. La scarsa stima di sé
che ne deriva si tramuta reattivamente nel suo contrario: un Sé grandioso ed
esibizionistico, che cerca la perfezione per ottenerne approvazione; la carenza
di empatia dei genitori, e della madre in particolare, non permette al bambino
di idealizzare i genitori e lo condanna a cercare senza sosta dei modelli
genitoriali degni di essere idealizzati. Ovunque ci siano vulnerabilità si
sviluppa un carattere compensatorio onnipotente, che al contrario rivela la
vulnerabilità (Khantzian, 1997).
Kohut (1976)
sposta il discorso dalla vulnerabilità al disturbo narcisistico e descrive la
vulnerabilità come un difetto del sé che può manifestarsi nella tossicodipendenza:
«L’individuo narcisisticamente disturbato desidera
elogio e approvazione o la fusione con un altro idealizzato e supportivo perché
non riesce a rifornirsi sufficientemente con l’autoapprovazione o con un senso
di forza attraverso proprie fonti interne. Il tossicodipendente chiede
insistentemente la droga perché gli sembra capace di curare il difetto centrale
del suo sé (…) ingerendo la droga simbolicamente costringe l’oggetto sé
riflettente ad amarlo, ad accettarlo, l’assunzione di droga gli fornisce
l’autostima che non possiede. Attraverso l’incorporazione di droga supplisce da
sé il sentimento di essere accettato e quindi di sentirsi bene con sé stesso, o
determina l’esperienza di immergersi in una fonte di potenza che gli dà un
vissuto di forza e di validità. Sono questi gli effetti della droga che tendono
ad aumentare la certezza che egli esiste in questo mondo».
I tossicodipendenti sono vulnerabili nella capacità di accedere ai
sentimenti, tollerare e regolare i sentimenti, sono vulnerabili di conseguenza
nelle relazioni, nella capacità di stimarsi e prendersi cura di sé. Provano
emozioni estremizzate, sentimenti troppo forti o troppo deboli. Questi pazienti
vivono in uno stato di confusione dei sentimenti, nell’incapacità di esprimerli
(alessitimia), o nella loro assenza (disaffettività). Essi spesso lottano
difensivamente per non provare sentimenti. La droga da questo punto di vista è
una protesi, dal greco stare al posto di, sostituire: un’autocura per angoscia,
tensione, rabbia, vergogna, solitudine o per impulsività o inibizione. Spesso è
stato osservato come i tossicodipendenti usino eroina per autocurare emozioni
come la rabbia e la collera, o cocaina, anfetamina, per autocurare sottostanti
stati depressivi, mentre le personalità contraddistinte da chiusura e
controdipendenza si autocurano con alcol e sedativi (Khantzian, 1997).
Spesso i
cocainomani compensano la scarsa autostima puntando molto sul risultato, la
prestazione, l’azione e l’attività. La cocaina aiuta a superare gli stati di
anergia e svuotamento associati alla depressione e alimenta uno stile di vita
iperattivo e irrequieto, un esagerato bisogno di indipendenza. Per questo motivo
sono egocentrici, controdipendenti e iperattivi.
Da un punto di vista eziologico Khantzian (1997) ritiene che un impoverimento
evolutivo e strutturale ha intaccato la capacità del sé e la capacità di tollerare
e regolare gli affetti, prendersi cura di sé e gestire bene le relazioni
Spesso questi pazienti mostrano come hanno fallito nell’internalizzare adeguatamente
quella parte evolutiva che permette di tollerare le esperienze infantili
dell’ammirare e essere ammirati.
Le prime esperienze danno la sensazione di sentirsi buoni o validi dal
di dentro o di poter avvicinarsi facilmente agli altri, quanno necessario per
ottenere nutrimento e conferma. Queste prime esperienze non sono state positive
nei tossicodipendenti. Essi oscillano tra atteggiamenti seduttivi e
manipolatori per ottenere soddisfacimento e posizioni di indipendenza e
autosufficienza sdegnose e distanzianti che allontanano il bisogno degli altri.
Il problema centrale è una sottostante organizzazione depressiva che si
presenta con disforìa, rabbia, angoscia, sentimenti di vergogna, dubbio, colpa,
noia, solitudine e vuoto basati sulla vulnerabilità narcisistica interna.
In questi pazienti c’è il desiderio di regredire ad un immagine di sé
che può fare ed essere tutto, avere ogni cosa e non conoscere limiti e
frustrazioni. Una forma illusoria di padronanza del controllo. I cocainomani
possono sentirsi di conseguenza grandiosi e invincibili, ma sono impantanati
nella ipomaniacalità che nasconde la sottostante depressione (Khantzian, 1997).
Zucca Alessandrelli (2002) ha
sottolineato come «la
relazione additiva si presenta fondata sul narcisismo, sul dover centrare cioè
su di sé e sui propri bisogni di riconoscimento e di conferma ogni rapporto con
gli affetti, i sentimenti e l’oggetto dell’investimento. Si tratta di una
relazione narcisistica dove predomina il desiderio del non desiderio, il
rifiuto degli affetti. Questi vengono sentiti come pericolosi, a causa del
fragile assetto narcisistico di base. Sono minacciosi perché si rivolgono
all’esterno, verso quell’oggetto che, indipendente, può ferire gravemente con
il suo comportamento non adesivo ai bisogni. Il narcisismo patologico, il sé
grandioso, servono come difesa rispetto al senso di fragilità e disvalore, ma
hanno anche lo scopo di catturare l’oggetto per controllarlo e dominarlo, come
necessario intermediario nel rapporto con la realtà. L’oggetto, quindi, è una
funzione; serve da schermo protettivo, para-eccitamento verso l’interno e verso
l’esterno e quindi come parte importante dell’identità». La dipendenza patologica
corrisponde al «bisogno dell’altro o di qualcosa per avere un’identità,
altrimenti non si riesce a sentire il proprio sé come fatto vitale e la propria
vita istintuale come ricchezza interiore» (Zucca Alessandrelli, 2002).
Francois Ladame ha recentemente sottolineato
che anche nei comportamenti di attacco al corpo e nei comportamenti di messa in
pericolo di sé tipici delle dipendenze da sostanze o da cibo, ciò che bisogna
sempre mettere in evidenza o, al contrario, escludere è la nozione di
dipendenza (“addiction”),
quindi di “asservimento”.
Un elemento fondamentale per dire che ci
troviamo nella psicopatologia e non di fronte ad un fenomeno di moda consiste
nell’assenza di scelta (absence de choix-perte de controle). Quando, ad esempio,
qualcuno porta dei “piercing” e li rinnova continuamente fino a divenire simile
ad un albero di Natale, ciò rappresenta un’assenza di scelta (“Io non posso
impedire di farmi dei piercing” dicono tali ragazzi) e, quindi, la perdita di
controllo sull'Io.
Ma cosa può essere sottostante a tutti questi comportamenti? Secondo Ladame
a queste condotte soggiace il disturbo narcisistico o, in altri termini, un
fallimento della costruzione d’identità, e qui troviamo una seconda complicazione
perchè la costruzione dell’identità adulta è precisamente il compito dell’adolescenza
(Ladame, 2004).
Il
gruppo e la dipendenza
Bion (1971) ha per primo connesso il termine di dipendenza al funzionamento
dei gruppi umani, attraverso il concetto degli assunti di base, una particolare
organizzazione inconscia assunta da un gruppo il quale si riunisce ed opera
allo scopo di essere sorretta da un capo dal quale dipendere per ricevere
nutrimento e protezione. È una credenza collettiva nell’esistenza di un oggetto
esterno la cui funzione è quella di dare sicurezza a un certo organismo immaturo;
ciò significa che viene sempre attribuita a una persona la capacità di
soddisfare i bisogni del gruppo, mentre tutti gli altri sono in attesa di
vedere soddisfatti i loro bisogni. Il gruppo in assunto di base di dipendenza
mostra subito che nella sua struttura è parte integrante il convincimento che
un membro del gruppo sia onnisciente e onnipotente. In questo senso il suo potere
non deriva dalla scienza, ma dalla magia. Una delle caratteristiche richieste
al capo è che sia un mago e si comporti come tale. Questi fenomeni sono
reazioni difensive di gruppo di fronte alle ansie psicotiche di annichilimento
riattivate dallo stare in gruppo e della conseguente regressione difensiva al
servizio del bisogno di sicurezza dell’individuo.
Conclusioni
L’addict si configura dunque come portatore di un disturbo complesso
che si articola in sindromi psicofisiche dalla complessa natura, difficilmente
interpretabili né per mezzo di modelli biologici lineari, meccanicistici,
eziologici, né per mezzo di modelli esclusivamente psicologici.
Come afferma Gabbard (2000) «la polarizzazione della psichiatria fra aspetti
biologici da una parte e aspetti psicosociali dall’altra ha promosso una forma
di dualismo cartesiano. Le conoscenze attuali sull’interazione fra biologia e
psicologia permettono invece di concepire l’approccio al trattamento in una
prospettiva autenticamente integrata (...). I progressi della ricerca nelle
neuroscienze hanno infatti permesso di comprendere in modo più accurato e
preciso come la psicoterapia possa influenzare il cervello. Tali sviluppi indicano
la strada verso una nuova era nella ricerca e nella pratica della psicoterapia,
in cui si potranno sviluppare modalità psicoterapeutiche specifiche da indirizzare
su aree specifiche del funzionamento cerebrale» (Gabbard, 2000).
I modelli epistemologici lineari sono, infatti, incompleti proprio in
quanto privi della possibilità di feed-back che informino sulla loro reale
efficacia. Fortunatamente gli studi di follow-up dei trattamenti, un tempo
sconosciuti sia da pubblici che da privati, oggi si moltiplicano proprio per
capire in che direzione stiamo andando e questo segnala un passaggio da un
pensiero ideologico, assolutista, non riflessivo, autoreferenziale, chiuso, ad
un pensiero più sollecito e attento agli esiti e ai confronti.
Certo la ricerca di strutture, o se si vuole di invarianti, di
costanti, di a priori, ha in sé il rischio di ogni operazione logica
consistente nel raggruppare fenomeni simili, ma non uguali in una classe. È il
rischio di un intervento deduttivo dal generale al particolare lì dove la
prassi ci suggerisce induttivamente, dal particolare al generale, di poter
considerare simili i fenomeni osservati.
Dal punto di vista epistemologico, vi è un ritorno dell’interrogativo
principe della scienza: si conosce la realtà per applicazione di modelli
mentali a priori (modello deduttivo) o è dall’osservazione della realtà
(modello induttivo-empirico) che si costruiscono modelli scientifici?
La tradizione ippocratica concepiva un continuum tra salute e malattia
lungo determinate dimensioni: fu la rivale scuola platonica invece a postulare
che le malattie potessero essere catalogate in tipi ideali e distinti l’uno
dall’altro. Utilizzare categorie significa suddividere le malattie mentali appunto
in categorie diagnostiche (in linea con la tradizione kraepeliniana). Utilizzare
dimensioni significa distribuire le malattie seguendo variazioni di gravità, di
personalità, d’umore, capacità cognitiva e percezione secondo un continuum che
va fino alla normalità. In campo scientifico si è assistito ad un’evoluzione da
modelli dicotomici categoriali (oggi diremmo digitali) a modelli dimensionali
analogici in cui c’è un continuum di gradazioni della dimensione che
indaghiamo. L’approccio categoriale rischia di ridurre la complessità (anzi è
talvolta uno strumento per gestire l’ansia e le difficoltà della complessità
semplificandola) e di reificare le categorie stesse dimenticando la differenza
che esiste fra mappa e territorio e anzi pensando che la mappa sia ipso facto il
territorio stesso.
D’altro canto stiamo attraversando un periodo storico di grandi cambiamenti
tecnologici, politico-istituzionali, geografici, economici, scientifici e
quindi è anche fisiologico attendersi una nostalgia dei concetti assoluti e le
connesse critiche di relativismo. Quello in cui ci troviamo è un mondo globalizzato
nel quale in pochissimo tempo ogni campo dell’attività umana si è trasformata.
Il concetto stesso di identità cui è legato fin qui tanto del nostro sapere è
scosso dalle fondamenta, anche l’identità dei pazienti e dei terapeuti.
Il pensiero cibernetico stesso ha contribuito al mutamento del
tradizionale uso dell’identità. Con l’avvento del web sono infatti cresciute
esponenzialmente le possibilità di intercambiabilità dell’identità personale,
di genere, sessuale: l’identità, come afferma Baumann (2000) si è fatta più
liquida, più sfuggente e multiforme. Questa peculiare occasione culturale di
revisione del limite identitario si presta ad essere interpretata in senso
megalomanico, narcisistico. Non è un mistero che la cultura dominante sia infatti orientata all’onnipotenza, all’iperattività
maniacale o al sospetto paranoideo: entrambi frutto di un’inflazione dell’Io e
di un debole interesse nell’esistenza dell’altro che invece meglio si coglie
nella riflessione sulla caducità, nel pensiero poetico, nel pensiero riflessivo
che ci permette di non leggere alla lettera ciò che avviene in una relazione,
ma di ipotizzare che dietro il comportamento dell’altro ci sono delle emozioni
che lo spiegano, che lo fondano.
Questo momento storico e culturale pare
invece favorire organizzazioni mentali più orientate alla difesa e alla
scissione che alla consapevolezza dell’orizzonte esperienziale più ampio che il
lavoro di mentalizzazione promette. Ci sono sempre più pazienti che non sanno che cosa
sia la vita mentale, che la evacuano in comportamenti concreti. L’evacuazione è
molto diffusa nella nostra cultura in cui sembra che il pensiero sia la ragione
e la causa di tutti i problemi.
In questo mutato scenario oggi si trovano ad operare nuovi e vecchi professionisti,
pubblici e privati con sempre meno certezze assolute e sempre più orizzonti
nuovi da scoprire e nuove mappe da inventare per orientarsi.
Come affermano Gaburri e Ambrosiano (2003) è necessario, dunque, che i
terapeuti abbiano fatto periodicamente il lutto delle proprie identificazioni
per accettare periodicamente la caducità delle proprie teorie di riferimento,
aprirsi al nuovo ed in tal modo, “Fare Vera Scienza”.
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