Memorie" è una raccolta della produzione in tufo di Piero Ragone iniziata nel 2005.
Le opere, a tutto tondo, di piccolo e medio formato, dialogano con una serie di bassorilievi montati su supporti in legno. Il contrasto tra il chiaro paglierino della calcarenite murgiana e il nero dei pannelli rende ancora più evidente il lavoro scultoreo, attento alle forme, ai volumi, ma anche alle superfici.
L’azione abrasiva o di levigatura esalta trame e vene proprie della materia, indagata per una ri-significazione di valenza non solo estetica.
Il tufo, inerte povero comunemente utilizzato in edilizia, oltre che materia costitutiva dei più conosciuti Sassi di Matera, è eletto a tramite di una comunicazione di impronta arcaica, ma di concezione contemporanea, rivelatrice di possibilità espressive del tutto inedite.
“Memorie” è anche un percorso di collegamento dei sedimenti geologici con le ansie del nostro tempo, della ritrovata manualità con l’attività di pensiero, della lettura con la sperimentazione di un linguaggio che tende alla semplificazione, ma si fa carico della complessità relazionale, dei conflitti generati dalle diversità, dei problemi di affermazione identitaria.
Riferimento per queste sculture sono state, non di rado, letture, versi, pubblicazioni ricordate o accennate da semplici o sintetiche “citazioni”.
E’ il caso di “Da noi il pane …..aveva il sapore del grano” di Mario Trufelli, di “Sto come sfera su superficie liscia” di Nicol Ragone (dalla raccolta di poesie “Ventanni sono pochi”), di “Fascinazione” o “Sorgente dell’oblìo” ispirate dal racconto di Mimmo Sammartino “Vito ballava con le streghe”.
Un esempio ulteriore sono i motivi tratti dal romanzo di Anna Teresa Laurita “Nato con le ali” che hanno portato a “Geremia”, a “In-coscienza” e alla stessa “Nata con le ali”(il 30 ottobre presentate, insieme al libro, alla Biblioteca Nazionale di Potenza).
Una menzione merita anche “Memoria implicita” scaturita da un passaggio concettuale focalizzato in una discussione col mio amico psichiatra Guglielmo Campione sulle teorie e le tesi dello scienziato Wilfred Ruprecht Bion sulle forme di consapevolezza della fase fetale, che precedono la nascita.
Sempre sulla scrittura-lettura o meglio sulle domande esistenziali che vengono affrontate, si fondano alcuni progetti di pannelli la cui titolazione ne rilancia i contenuti di stretta attualità.
Ne sono esempio “Il principio dell’esonero”, “Iato” e “Psiche e techne” dell’omonimo volume del filosofo contemporaneo Umberto Galimberti o “Le streghe delle 7 pietre”, ancora della fiaba scritta da Sammartino (pannello donato al nascente museo del piccolo formato di Genzano di Lucania).
Altre connessioni, i corpi scultorei, le tentano verso sentimenti e psicologia, campi tanto sterminati quanto immateriali per antonomasia.
E qui ritorna la necessità di comunicazione, con le sue difficoltà di comprensione, i vizi interpretativi, i filtri, l’uso strumentale delle parole.
Una dinamica che si spinge dall’intenso impegno nell’attività di produzione dell’informazione regionale della sede RAI per la Basilicata a linguaggi non verbali frutto di indagine, stimoli, riflessioni e soprattutto pulsioni di carattere molto personale.
Una sensibilità manifesta che si interroga nel tentativo di raggiungere più profondi livelli di conoscenza e consapevolezza, con riduzioni della complessità all’essenziale o a modalità proprie di altri approcci ( semplificazione Zen, monotonalità del chiaro del tufo contrapposto al buio del nero).
Segni e sostanza, fuori e dentro, superficie e interiorità, luci e volumi che riportano nello spazio l’esilità della linea, la sua purezza, le sue curve riunite nella forma.
Il sedimento, la storia, il passato tornano attuali, rivivono nell’azione di recupero e riconsiderazione.
La ricerca di armonia pare indicare il consolidamento del presente quale premessa per una possibilità di futuro non negata o compromessa.
Un ordine delle cose, della natura e dell’umanità dove il capitale di energia che ogni identità custodisce non chiede che di essere condiviso, in un rapporto di equilibrio con l’altro che non vuole e non può prescindere dal diritto all’amore.
Fare scultura – giocare con la materia - scolpire, incontrare il materiale – ispezionarlo – tentare di stabilire un rapporto - trovare indizi.
Il dialogo comincia partendo da un dettaglio, un “punto cerniera” attorno al quale ruoterà ciò che del blocco si salverà e rimarrà “in relazione” a quel punto e a tutti gli altri riferimenti dimensionali, formali, volumetrici, di esposizione alla luce, oltre che all’attenzione. Il mio intrigo è risolvere l’assetto fra tracce e consistenza del corpo scultoreo. Nell’approccio fin qui esercitato, l’alternanza di zone levigate, lisciate, arrotondate, quasi modellate, con fasce rigate, taglienti, rugose, avvolgenti o scavate da “un’azione temporalmente importante”, massimizzano la risultanza di un contrasto, di integro e vissuto, di nascosto e rivelato, di mistero e di denuncia, di tenero e di dolore intenso. Una dicotomia che potrebbe andare oltre la visualizzazione. Un’asserzione di una diversità forse inconciliabile, ma presente, latente, non di rado dolente. Segni di conflitti, contrapposizioni, incomprensioni, coesistenze difficili eppure radicate, diffuse, silenti. Doppie nature che si contraddicono, si affrontano, lottano per una prevalenza che quasi mai diventa definitiva supremazia. O forse per una legittimazione che nella dialettica può trovare la sua logica, la composizione, la sua spiegazione, o solo una parvenza di plausibilità. Quanto fa male la sofferenza, l’angoscia, la paura……Quanto costa il piacere, il godimento, la soddisfazione di sé…..Quanto è lontana l’armonia, il giusto equilibrio. Se ciò che incontro togliendo, scalpellando, consumando lo accetto, mi appaga, lo ri-conosco, si avvicina all’idea di partenza o alle sue variazioni in corso d’opera (derivate, credo, dal mio sentire, dal mio essere, dal mio sapere, dal mio proto-verbale? dall’esperienza-conoscenza non necessariamente cosciente, quindi implicita? ma dialogante con il tufo), allora cerco anche di nominarlo, di accrescere questo suo “potere” di testimonianza, di rafforzarne il senso, intercettarne, anche solo con una o poche parole, l’essenza, la portata, ciò che più mi suggerisce….ciò che ha evocato, ciò che “ha somatizzato”. Il linguaggio si fa composto. L’incorporeo raggiunge l’esistenza. (Il piacere di creare secondo una tua misura è indescrivibile). La presenza si presta al racconto, all’allusione, alla sintesi di una ricerca che può andare dall’asserzione alla mimesi. E’ questo percorso vero, ma ogni volta variabile, perciò vivo, ad esprimere gran parte del mio portato collegato alla scultura. Un percorso di assimilazione, riferimenti, citazioni, più o meno esplicite, che per me rappresenta e annota ciò che sto vivendo e che si svolge o è appena accaduto, o ho letto durante quel tempo di lavorazione del pezzo (poche ore, giorni o settimane…). Scultura taccuino, scrigno, storia… Storia della materia che mi ha preceduto, anticipato, registrando, memorizzando…. Materia che riacquista funzione, medium, tramite, espediente solido, concreto, tattile (non volatile) che si rimette e mi mette in gioco e che, in qualche modo, ri-vive attraverso questa mia chiamata in campo. Nuova occasione, in bilico, tra passato e presente in divenire. Ponte ideale tra un prima (la sua storia) e un dopo (a partire dal recupero da un uso esaurito o dal concio vergine di cava) con tutte le ulteriori commistioni, contaminazioni e scoperte. Nuovo terreno di confronto-scambio identitario, arricchimento mnemonico dell’inorganico che si presta ad ospitare-rappresentare qualcosa di vivo, biologico, organico. Bio-trasmutazione dell’inerzia dell’inerte in pulsioni liberate dalla prigionia atavica, cementate dall’asfittico amalgama calcarenitico e recuperate al gesto, al movimento, all’espressione, al simbolo, a un significato possibile, ma non qualunque, indistinto, generico. Una sola delle possibilità di ri-torno sulla scena dell’umanità, (se mai ce ne fosse già stata una….), stavolta, con scarsa probabilità di replica o di riciclaggio… Vincolata, come non mai, ad un senso, preciso, dichiarato, non per forza condiviso, né universale. Ma quello, quel suo proprio, deciso da un artefice, che a suo piacimento può anche cambiarlo. Basta un titolo, una frase, una parola. Quella chiave o quei pretesti fanno parte di un rebus, semplice o complesso, chiaro o intricato. Comunque unico, personale, diretto destinato prima a sé, poi agli altri, all’altro da sé. Che sia fantasia, pensiero, gioco, testamento, diario, appunto, nodo, storia, coscienza, sentimento, emozione, dubbio, fremito chi può dirlo? Risposte, corrispondenze, motivazioni, rifiuto, approvazione sono un problema del pubblico, non dell’autore che, tuttavia, ama essere protagonista, tanto meglio, se ri-conosciuto. L’arguzia, come per il montaggio video, può consistere nella scelta – tra tutte le infinite possibilità e combinazioni – del nome associato alla forma. Il binomio titolo-opera può rimanere un segreto esercizio dell’autore (proiezioni, evocazioni, rappresentazioni, richiami, parafrasi personali, …..più o meno dirette e/o consapevoli). Oppure limitarsi al suggerimento, alla didascalicità, all’”aiutino” che semplifica la lettura e lo svelamento che già l’opera dovrebbe aver assolto o risolto. Ovviamente, il gioco più coinvolgente è quello di seminare “indizi” che se in un primo momento erano solo della e nella materia, dopo diventano anche “propri” dell’autore, espressione di ciò che vive e anche dell’esperienza di quel lavoro scultoreo condensato in quel particolare pezzo. Una sorta di riduzione “zen” all’attimo, al momento che riesce a rappresentare ed esprimere il tutto. Solida concretezza, metamorfosi e interpretazione cerebrale, somatizzazione del pensiero, altrimenti labile e sfuggente come tutta la vita….
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