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La mente può trovarsi in stati diversi , il sonno ,il sogno, la trance,l'ipnosi,l'attenzione fluttuante,
l'estasi,la preghiera,la meditazione,la creatività artistica e scientifica,
l'esplorazione dello spazio e degli abissi marini,l'agonismo sportivo.

Stati della mente pubblica lavori originali o già pubblicati con il consenso degli autori, interviste e recensioni di libri e promuove eventi culturali e scientifici.

LUISA ESTER CITTERIO : 5 SEMINARI (20101-2011) SU BION, LA PSICOANALISI E LA MEDITAZIONE a cura di Guglielmo Campione e Claudia Yvonne Finocchiaro

LUISA ESTER CITTERIO


SEMINARI SU BION,

LA PSICOANALISI E LA MEDITAZIONE.



 A cura di Guglielmo Campione

e

Claudia Yvonne Finocchiaro



Prefazione

Luisa Citterio è stata medico ematologo, psichiatra e psicoanalista, docente della scuola psicoanalisi di gruppo (IIPG) di Milano, già Direttrice della scuola di psicoterapia psicoanalitica(SIPP) di Milano, psicoanalista con funzioni di training di entrambe le scuole.

I cinque seminari ideati e diretti da Luisa Citterio, tenuti a Milano nel 2010 e 2011, fino ad ora inediti, offrono uno spaccato molto interessante del modo d'intendere il suo originale lavoro in tutti i suoi aspetti, psicoanalitici, cristiani, psichiatrici, meditativi, orientali, personali, di autocoscienza dell'esperienze corporee e psichiche, con un forte accento sulla self disclosure Ferencziana, una delle sue più singolari e feconde caratteristiche eterodosse rispetto all'ambiente psicoanalitico istituzionale, molto amate dagli allievi.

Il tema più ricorrente nei seminari è quello dell'esperienza meditativa, dei riferimenti a Osho, dell'essere in O per dirla con Bion, del linguaggio, del vuoto, del deserto, della psicosi,del chiacchiericcio della mente di Marion Milner, una grande analista inglese cha Luisa contribuì a far conoscere in Italia con un suo libro di cui ho raccolto il testimone scrivendo a mia volta un libro dal titolo "Creatività e trascendenza nel pensiero di Marion Milner", per Amazon libri,

Ritengo che da tutto questo materiale, tra i tanti interessanti spunti sullo studio comparato delle discipline della mente occidentali e orientali ,deriva anche un’interessantissima implicazione formativa del se, come e con quali tecniche non psicoanalitiche è possibile allenare lo stato mentale dell’analista a stare nel flusso con grande apertura a quello che accade volta per volta in seduta.


Guglielmo Campione
Medico Psichiatra
Psicoanalista I.I.P.G e E.F.F.P.





                                                    TEMI

  1. Vicinanza e differenza tra l’esperienza meditativa e l’oriente, il pensiero Bioniano e la pratica clinica.
  2. La meditazione nei paesi orientali come una pratica che si mescola con le attività quotidiane o meglio come pratica che è un tutt’uno con le attività quotidiane.
  3. La trasformazione e l’acquisizione di un’abilità meditativa legata al semplice stare in mezzo ai popoli orientali. L’esercizio della consapevolezza come pratica non verbale che si accompagna all’esperienza
  4. La possibilità - capacità di mantenere la lucidità in situazioni confuse
  5. Come le esperienze influenzano lo sviluppo e la formazione del pensiero. L’infanzia indiana di Bion e la sua tata indiana, la possibilità che le influenze culturali e spirituali indiane abbiano contribuito a dar vita al pensiero Bioniano.
  6. Il “trovare” come possibilità che passa attraverso il “ritrovare” elementi che entrano in risonanza perché familiari.
  7. L’attaccamento agli oggetti materiali o mentali e la possibilità di riconoscerli semplicemente come oggetti.
  8. Senza memoria e senza desiderio non solo nella pratica clinica me anche nella meditazione e nella vita quotidiana.
  9. Quanto era spirituale e meditavo Freud? Si possono ritrovare degli aspetti spirituali nelle opere di Freud che fanno da presupposto alle opere Bioniane (ripensandoci “al di là del principio del piacere mi sembra molto orientale … )
  10. Esperienza negli Ashram: i cani che accompagnano i maestri. Sono anche i cani meditativi? E i gatti? La capacità di saper aspettare degli animali.
  11. Noi vediamo solo una parte dello spazio e ci muoviamo limitatamente nello spazio.
  12. Dobbiamo esercitarci per ampliare le prospettive ed aprire nuovi spiragli.
  13. La possibilità di raggiungere lo stato O della griglia di Bion (stare nella verità) sfruttando i molteplici punti di vista nell’esperienza pratica come nella clinica e nella meditazione. Permettersi di lasciar scorrere e di poter assumere molteplici punti di vista senza memoria né desiderio, senza aspettative né senso critico.

SEMINARIO 1

9.06.2010



Ho fatto una riflessione sulla “doppia freccia” di Bion.

Una riflessione che mi è venuta anche dal lavoro che abbiamo fatto insieme

È qualcosa secondo me che vuol dire questo: la realtà non è un polo o un altro, questa è un’astrazione teorica.

La realtà sta nel mezzo, nel percorso dall’uno all’altro.

È il fatto che Bion lo metta a “va e vieni” dà l’impressione di una situazione in cui non c’è una processualità diacronica nel tempo (come passato, presente e futuro), ma lui chiede proprio uno stare che è nella realtà in quel momento.

Ed è questo il “va e vieni”.

Perché in quello spazio lì che non punta verso il futuro c’è proprio la realtà che è, con la possibilità di andare avanti e indietro.

Tra l’altro se tu vai in un polo o nell’altro (A e B), ti identifichi in A o in B, rimani immobile.

Mentre la freccia è qualcosa che si muove, ma si muove e ritorna, sta quindi in uno spazio che non ha la temporalità di passato, presente e futuro, ma piuttosto di presente.

Lì è più ampio, il fatto della doppia freccia nella mia fantasia allarga lo spazio, nel senso che permette di stare e però di muoversi insieme alla raccolta degli elementi che la realtà ti presenta. È come uno spazio ampio intorno alle due frecce in cui si possono raccogliere a 360° gli elementi che la realtà ha, perché la realtà è qualcosa che non cogliamo

Quando Bion dice “essere senza memoria e senza desiderio”, dice essere senza quello che è “essere senza la mente” di Osho, perché è la mente che ha memoria e desiderio, nel senso che si rifà dell’esperienza che ha già fatto (la memoria) e il desiderio di andare verso una meta.

Anche secondo Bion si tratta di stare nel momento, di stare con la realtà che è in quel momento, senza mettere delle etichette di qualche cosa che conosciamo già. Allora se noi azzittiamo la mente, e ci poniamo vergini di fronte a questo, come se fosse la prima volta che vediamo il paziente, dice Bion tanto più siamo tabula rasa, tanto più abbiamo possibilità di contattare il paziente.

“Molto meditativo tutto questo, di stare nel presente, senza andare al passato o al futuro, perché se no si perde la fragranza di quello che è il momento, non si può godere di niente”:

E la meditazione non è che tu mediti su qualche cosa è proprio stare con quello che c’è. È stare allerta in uno stato di coscienza, essere allerta con quello che accade, con quello che sei.

Ci sono delle grosse vicinanze secondo me.

“Mi viene in mente una novella buddista: 
c’è un discepolo che torna dal maestro dopo 10 anni di isolamento su una montagna a meditare, lontano da tutto e da tutti. Torna dal maestro per dirgli di essere riuscito a meditare e di sentirsi più profondo. Mentre arriva davanti alla capanna, dopo aver fatto tutta la strada appoggia il suo bastone ed entra. Saluta e gli dice di tutti i suoi progressi, e il maestro gli chiede “ma dove hai appoggiato il tuo bastone entrando?” e il discepolo non sa rispondere. Allora il maestro gli dice “va a meditare altri 10 anni sulla montagna”. Come per dire: non ti è servito a niente tutto questo meditare, se l’isolamento non ti ha portato a nessun miglioramento nella vita quotidiana. Perché la meditazione ti deve aiutare a vivere meglio, non a isolarti su una montagna…”.

Ecco, quello che è il lavoro su di te, analista, dice Bion, deve servire a stare con paziente, ad essere nella realtà del paziente, con quello che lui ti porta, con quello che è quel giorno, senza chiedergli conto di quello che è la seduta prima e senza avere pregiudizi rispetto alla seduta di domani.

“È un po’ essere senza giudizio, senza aspettativa rispetto al punto in cui si potrà arrivare nel percorso analitico”.

La mia analista diceva una cosa: l’unica aspettativa che lei si poneva era che i suoi analizzati potessero stare meglio. Non lo so se questo è consono con la meditazione, io credo di no. Nel senso di stare meglio, però può essere accettabile se stare meglio può voler dire sentirsi meglio.

“Che cosa vuol dire stare meglio? Di fatto molti pazienti possono stare meglio senza risolvere i loro sintomi”.

Essendo sé. Che non vuol dire essere bravi, perché questo è un giudizio.

“Più che a stare bene, a “stare”, perché forse l’obiettivo poi è riuscire a vivere in situazioni difficili, riuscire a stare anche in queste situazioni.

Lo stare è stare, altrimenti è andare via. Se non stai non sei, se non sei non c’è benessere. Perché il benessere è stare con quello che c’è. Almeno per la meditazione, è dire sì a quello che c’è.

Io sto un po’ passando queste cose ai pazienti, già da un anno… e io adesso vedo delle cose… per esempio con una con cui sembrava che questo discorso non andasse assolutamente… proprio nell’ultima settimana dice delle cose che mi sembra che le sia passato qualcosa. Con la sua mente lei rifiutava qualsiasi cosa quando io andavo su questi discorsi. Io mi sentivo di dover parlare proprio a chi non è pronto, e non è tanto parlare, è proprio fare spazio a questo. Si è anche arrabbiata, io credevo che non tornasse certe volte… però è sempre tornata, e col piacere delle sedute. E ci sono anche dei cambiamenti nella sua vita nel tipo di vacanze, nel modo di porsi… e questo è quello che io credo. E io non posso fingere, perché non farei il mio lavoro.

“Forse si passa qualcosa di se stessi, più che una tecnica o un metodo. Si passa un po’ quello che si è, indipendentemente dall’approccio teorico che si ha”.

Una mia allieva ha fatto la supervisione con me. Ha fatto un lavoro di tesi molto bello in cui ha guardato il gruppo dal vertice “lei nel gruppo”, “il supervisore e lei”, “come il supervisore guardava lei e il gruppo”. Nessuno aveva mai fatto questo, molto originale. All’inizio mi sembrava così rigida che pensavo di dirle che non stavamo andando avanti ma poi invece sono andata avanti. Mi ha rivelato che non veniva talvolta per provocarmi, per vedere che cosa io avrei fatto. Dice che quello che ha imparato nella supervisione è come io ero, non quello che io le ho passato con le parole… mai mi sarei aspettato questo da lei.

“È un po’ quello che succede tra genitori e figli: non è tanto la regola che dai che viene assimilata, ma piuttosto il modo in cui la dai, che cosa fai e quello che sei, l’essere. Forse è un po’ questo il lavoro in analisi, aiutare l’altro ad essere piuttosto che ad agire, a farsi prendere dall’emotività”.

Lei voleva proprio le regole, io invece semplicemente non gliele ho date. Lei con quello che ha scritto mi ha restituito il mio modo di essere.

“Riuscire poi a sentirsi come l’analista è poi quello che si apprende in una stanza di analisi e che ti porti dietro nella vita, non è una lezione teorica, non sarebbe trasformativo”.

Trasformativo è la disponibilità non ad identificarsi con un modello standard ma ha trasformare gli elementi primitivi che emergono e lasciarli scorrere, non fermare il flusso. E questo ti trasforma continuamente, se sei rigido invece non puoi.

Un mio collega, Stefano Angeli, mi diceva che Bion non parla mai del contenitore e del contenuto separatamente, ma della relazione contenitore-contenuto. Nel senso che effettivamente non c’è uno senza l’altro, e poi il contenuto si trasforma in contenitore, è proprio una relazione dinamica.

“Si penso che possiamo immaginare l’analista come il contenitore e il pz come contenuto, ma in realtà i ruoli si possono benissimo ribaltare perché l’analisi del paziente è in qualche modo trasformativa anche per l’analista”.

È come identificazione e contro-identificazione, sono incrociate.

“In qualche modo anche il pz permette all’analista di affrontare parti di sé, anche forse in base a quello che sta vivendo nella sua vita, alcuni elementi possono avere più risonanza”.

L’altro giorno una collega che è in analisi con me mi ha parlato di una sua paziente, è stato possibile vedere che quello che portava la paziente era pari pari quello che stava vivendo lei. Io non lo volevo dire e l’ha detto lei. Questi sono dei momenti che ogni tanto capitano e che danno aria a tutti e due. Il nostro lavoro è faticoso, come la meditazione, e poi ci sono questi momenti di contatto in cui uno sente il piacere, l’armonia, la fragranza dell’essere.

“È proprio come la meditazione, quando arrivi non sai mai se sarà una buona o una cattiva meditazione. Così come non c’è un buono o un cattivo analista. In qualche modo nella tua mente a volte arrivi sfinito e vorresti essere ovunque tranne che col paziente… e invece magari quella è proprio una di quelle volte in cui cogli gli aspetti più…”

È proprio perché non hai aspettative. La stanchezza che senti è quella della mente. La mente tace. Questo si potrebbe approfondire Marion Milner parla del “chiacchiericcio della mente”, lei riesce a raggiungere dei livelli profondi quando tace il chiacchiericcio della mente.

Anche Eckhart Tolle ne parla in “Portare la quiete nella vita quotidiana” :

Mentre ascolti queste parole potresti essere in grado di sentire l'energia interiore del tuo corpo, la vitalità, lì nel tuo corpo. È lì. Sullo sfondo, le tue mani, le tue braccia, le tue gambe, tutto il tuo corpo hanno questa vitalità interiore. La maggior parte degli esseri umani non sente mai di essere viva, che ogni cellula è viva, intelligentemente viva, perché il corpo ha migliaia di funzioni contemporaneamente, quindi esiste un'intelligenza che funziona. Questa intelligenza che coordina le mille funzioni del corpo, non è qualcosa che si vede, nessuno l'ha vista, eppure è lì. Non lo stai facendo in questo momento, stai lavorando, sentendo le tue braccia, il tuo cuore, il corpo sta lavorando per se stesso. Quindi, la vitalità del corpo è una vitalità dell’intelligenza. E la cosa meravigliosa è che quando dirigi l'attenzione lì, l'attenzione viene rimossa dal modo di pensare. Non puoi sentire la vitalità del corpo interiore perché non hai la consapevolezza di pensare senza pensare e di muoverti nel corpo. Senti tutto e poi diventi un po' più instradato nel tuo essere. Non solo l'essere fisico che è esterno, ma l'essere che sei invece di vivere solo nell'altro piano, che è esclusivamente la mente. Quindi, mentre ti siedi qui e ascolti le parole, presta attenzione alla tua energia interiore, senti che sei una presenza viva, con l'intero essere, non solo con la testa. E’ li che si trova la tua attenzione, dove è il tuo senso di presenza, di essere presente. Non puoi essere presente solo nella testa, stai solo pensando e quando pensi non sei presente. Tutto il pensiero è rivolto al passato, al concetto del passato, all'essere qui presente come ad essere instradato in te stesso, nel tuo essere. È la sensazione del senso di vitalità. L’attenzione si finisce per perdere per ascoltare le parole ma non è ciò di cui abbiamo bisogno per allenarci. […]



“Il velo di Maya copre la realtà e non Ci fa percepire: questo è molto orientale. Molto bello quel senso di esserci al 100%. Incredibile anche il modo di parlare di Tolle, sembrava quasi una meditazione”.

Lui lo dice, dice che ha parlato tanto per poter parlare alle persone meditative. Ascoltarlo è una meditazione, proprio perché una persona si accorge degli intervalli di silenzio tra le parole e tra le frasi.

“È quasi una tecnica ipnotica, questa cadenza delle parole è utile anche per le visualizzazioni guidate. 
Ho pensato anche a una mia paziente che mi ha detto “Dottoressa, da quando vengo da lei parlo più lentamente, e tutti mi hanno detto come ho fatto e io rispondo che è perché da quando sento parlare lei, nel modo in cui lei parla, è come se mi fossi sentita poco adatta nel mio modo di parlare, quindi parlo con la sua stessa cadenza”. 

Non avrei mai pensato che il mio tono potesse influenzare più del contenuto”.

Lui dice che la meditazione è già iniziata, col silenzio.

“Penso a quando, i primi anni, andavo qualche volta ai convegni. In ogni posto ero sempre curiosa di sapere che cosa ci sarebbe stato nell’altra aula, e avevo sempre l’impressione di essere nel posto meno interessante. Perché la mente vuole sempre di più. 
Mentre da quando ho cominciato a meditare, poi dopo non ho più avuto questa sensazione”.

Perché la meditazione ti fa scendere di livello. Mentre noi tutti analisti ci identifichiamo nel funzionamento della mente. 
Ma questo, come Marion Milner dice, è il chiacchiericcio della mente, che diventa qualche cosa… ogni tanto hai dei pensieri continui, e poi ne vuoi ancora e ancora, uscendo dal momento presente perché ne vuoi ancora e ancora.

“È un pensiero terribile, perché non ti permette di essere lì, di prendere quello che puoi prendere dalla situazione in cui sei. Una sorta di bramosia della mente, di frenesia. Mentre ora sono all’estremo opposto, ora sono molto meno così. Sono meno rigida. Anche coi pazienti, anche se mi perdo tre parole mi rendo conto che va bene, che è un flusso”.

Anche il vuoto, è come il polmone quando respira, se non si svuota non si può riempire.

“Mi viene in mente una cosa che mi ha detto mia mamma di recente. Quando ero bambina c’erano delle notti, una volta ogni tanto, in cui le dicevo “mamma non riesco a respirare, come faccio a respirare?” e lei mi diceva “non ci pensare, è una cosa naturale”. Allora io mi tranquillizzavo, perché il respirare è una cosa per cui non si deve pensare. Questa mi è sembrata la mia prima lezione in senso meditativo. “Lascia che tutto scorra”. Anche lei con i suoi difetti è una brava mamma”.

Ha avuto una funzione materna. Le mamme ce l’hanno dalla natura, se si lasciano andare è una cosa istintiva. Lo diceva anche Winnicott, che alla BBC faceva trasmissioni per le mamme e diceva che i bambini sanno loro come crescere, come una margherita, ha bisogno solo che tu gli dia la luce e l’acqua. Per il resto non ha bisogno di niente. E diceva alle mamme che loro, dei loro bambini, sono quelle che sanno di più. C’è la funzione di Rêverie. E quindi il pediatra dovrebbe capire se la mamma sente qualcosa di diverso perché probabilmente ha ragione lei. Deve seguire quello che lei sente. Io amo molto Winnicott per questo.

“Trasposta nella situazione analitica è quello che succede in analisi, il terapeuta dice al paziente che non è lui a trovare la via per il paziente ma è lui a sentire quale sia”.

Il terapeuta, che certe volte pensa di dare le indicazioni, può solo fornire lo spazio, il field, il campo perché uno possa far uscire quello che è, prendere consapevolezza di quello che autenticamente è. E qui ancora ritorna Winnicott con il falso sé e il vero sé.

“Sì, non ci sono regole, si lascia semplicemente che tutto sia, senza darsi un ordine o un tempo predeterminato”.

Come nella meditazione. “Anche Osho utilizza molto questa tecnica: io ricordo in India, quando sono andata l’ultima volta, un medico mi ha fatto vedere un video di Osho e la cadenza e il tono sono così come quelli di Tolle che abbiamo ascoltato prima.”.



SEMINARIO 2

17.2.2010


Sono stata presa da incantamento da questa lettura e dicevo “Caspita ma io non sapevo che Bion avesse scritto queste cosa” lo avevo già letto apprendere dall’esperienza ma non mi ricordavo. E sono rimasta convinta che fosse quello, poi la mattina del seminario sono andata a prendere “Apprendere dall’esperienza” per segnalare quello che avevo letto e non l’ho più trovato. Solo oggi che mi sono messa qui mi sono resa conto che era invece Lucio Russo.

Comunque mi pare sia venuta fuori una cosa che ha interessato abbastanza ed era questo discorso che mi aveva colpito della parola che è significazione ma fa da tramite con l’inconscio.

Russo lo chiama la corrispondenza verbale. Usa una parola che ha il significato di un’ombra, dove l’ombra è la parte indifferenziata, quella che è sempre lì per essere significata ma che non lo è e che accompagna sempre il significato. Io lo sento in contatto con gli aspetti meditativi non so bene perché.

L’altro giorno una mia amica maestra di yoga mi ha detto “Sono andata in internet oggi e ho guardato Bion perché sono anni che tu parli di Bion, sai che mi hanno colpito le consonanze forti che ci sono con lo yoga?”.

Lucio Russo, a proposito di quello che dice Freud in Lutto e Melanconia, introduce l’idea che l’io possa svanire in conseguenza del processo regressivo e difensivo nei confronti del dolore del lutto, attraverso il quale il soggetto si ritrae dagli investimenti libidici oggettuali. C’è un discorso di un io che si ritira ma come un processo regressivo e difensivo di disinvestimento.

Mi chiedo se il distacco di cui parla Osho e Tolle è un disinvestimento libidico oggettuale nel senso di Freud? O è qualcosa d’altro? Io penso che sia qualcosa d’altro.

Lucio Russo, nel “L’indifferenza dell’anima” dice che l’analista cerca di dare una trasformazione verbale alle esperienze di malinconico disinteresse e di mancanza di speranza.

Io ho scritto “la meditazione è un contatto con l’essenza come silenzio e vuoto”.

Quello che è vero, dice Osho, non può essere detto, quello che è detto non è vero”.

Russo parla di una trasformazione verbale delle esperienze di melanconia.

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Io ho sofferto recentemente, per un emianopsia visiva da edema cerebrale, di un momento depressivo di disinvestimento. Con questa malattia che mi è venuta son dovuta ripartire da capo ma questo adesso è fonte per me di energia, e non perché l’ho verbalizzata, forse è stata una fortuna che non ho avuto nessuno con cui verbalizzare questo aspetto.

Il modo per uscirne è stato quello di essere li totalmente dove mi trovavo, nel dolore.

Certo ho passato dei momenti di dolore molto forte però essendoci rimasta l’ho visto entrare e l’ho visto anche andare via.

Claudia Finocchiaro:

In India io lavoravo in questo ospedale per midollo lesi e li c’era una ragazza che era sulla sedia a rotelle e che faceva pranayama, esercizi di respirazione gli altri pazienti con delle tecniche di visualizzazione ed esercizi di respirazione. Secondo lei la meditazione può essere usata come uno strumento quando la si apprende in un contesto di salute. Quasi una sorta di normalità psicofisica. Allora in quel caso può essere usata come strumento nel momento in cui uno sta male fisicamente se la conosceva già mentre nel caso in cui uno non la conosce apprenderla nel momento di crisi diventa quasi controproducente o comunque molto più difficile.

Citterio :

Io sono convinta che l’esperienza che ho avuto mi avrebbe devastato senza la conoscenza della meditazione però io sono stata molto aiutata. C’è stato un momento che credevo che sarei morta nel senso che non avevo più nessuno che mi parlava, credevo ci fosse un complotto contro di me, ed è dolorosissimo questa cosa, la paranoia. Quando mi vedevano nella visita tutti insieme, il primario e tutti gli altri io dicevo queste cose e dicevo, “lo so che si chiama paranoia ma è così che io sento” non c’era interlocuzione e un giorno ho in mente di essermi messa seduta per terra a gambe incrociate ma non so se è impossibile, sarò stata a letto o da qualche altra parte ed ho incominciato a scendere ed era buio, buio, buio mi è sembrato un viaggio lungo poi qui ho trovato una fiammella e da lì è cambiato, sono cambiata io, è cambiata la risposta del contesto perché hanno incominciato a fare dei programmi per farmi qualcosa. C’erano anche i lunghi weekend per cui tutti andavano via non c’era più nessuno, solo un medico di guardia, non ti facevano un esame non si vedeva nessuno, comunque hanno cominciato a fare un progetto, ho avuto un trasferimento, io ero in guardia seconda. Ho saputo poi in un seminario dove c’era un neurologa, che forti dosi di cortisone fanno dare fuori di matto, e però potevano anche dirlo. Non ero così folle perché quando per esempio mi chiedevano che giorno è oggi e poi mi dicevano vede che è confusa, io ho dicevo loro, “se aveste preso un campione di persone normali e le aveste messe qui con noi a passare 5 giorni senza calendario, il telefono, senza i giornali, avendo soltanto le visite dei parenti, un’ora al giorno, voglio vedere quanti avrebbero risposto alla data”. Gli assistenti che erano dietro mi sorridevano e facevano sì con la testa.

In questa mancanza totale di sapere, sono stata in un isolamento incredibile, non c’era più niente, non era in grado da sola di accudirmi, venivo accudita e lavata dalle infermiere. Questo mi ha permesso di andare e poi di ritrovare, Anche se è stata un’esperienza di depauperamento è stata una cosa che poi mi ha aiutato perché si sono mosse altre mie risorse che non conoscevo. Noi con i pazienti, spesso rinforziamo solo l’io per poter accedere ad altre energie, facciamo un lavoro di rafforzamento. Il narcisismo impera. Siamo tutti un po’ narcisisti, una paziente mi ha detto “ho scelto lei perchè era quella meno narcisista”.

Io credo che i numeri danno sicurezza mentre la vita è insicura come la morte, la vita è così. Uno dei dvd di Osho è “Vivere nell’insicurezza” e a me sembra un punto fondamentale ma anche per Bion.

Stare in PS è stare nell’insicurezza e poterla tollerare. Se tu fai per avere una certezza ti allontani dalla verità realtà. Se aspetti di avere gli elementi puoi prendere una decisione ma nel momento in cui hai preso una decisione l’insicurezza riparte perché noi puoi sapere dove ti porterà quella decisione. Invece nel fare a scarica è evacuativo

Bion in Apprendere dall’esperienza parla del metodo scientifico che si avvicina al pensiero psicotico. Un po’ è quello che si diceva della neurologa, il problema è che la neurologa parla del suo pensiero scientifico. Non sta parlando con il pz ma con quello che è la sua procedura matematica

Parlava con se stessa. Stava facendo il gioco d’azzardo anche lei con se stessa. In realtà la neurologa si stava preoccupando solo per se stessa, quindi il problema è della neurologia, del metodo scientifico?

Bisogna sempre stare attenti a non osservare solo alcune cose, anche l’occhio vuole la sua parte. Bion lo diceva “con tutti i sensi”. Perché la mente che sta li in alto cataloga e basta. Anche quello che abbiamo visto di Kernberg è tutto strutturato.

Dopo questa mia esperienza di “follia” diciamo mi sento più libera, davvero, ci sono passata è come se avessi acquistato dei gradi di libertà.

Citterio
:

La fine è la fine.

Finocchiaro:

E infatti mi piacciono le novelle arabe, quelle indiane, quelle che non hanno fine.

Citterio
:

Lasciare il corpo, lo spirito lascia il corpo e ritorna nell’universo, nell’oceano, è la goccia d’acqua che raggiunge l’oceano, pensato in questo modo è la dissolvenza. Come nelle novelle arabe.

Io ho accompagnato mia zia fino all’ultimo respiro. Una esperienza con la morte come non avevo mai avuto prima. Ho fatto i certificati di morte ma è un’altra cosa che stare al capezzale. Le ultime 3 notti e l’ultima notte. Il suo trapasso, è scesa una grande pace nell’ultima mezzora, gli ho tolto l’ossigeno, il respiro si è acquietato, i lineamenti si son distesi e ha detto “mamma” … è stata un’esperienza, in quella mezzora ho avuto il senso del trascendente come mai nella mia vita l’ho avuto così intenso. 94 anni non aveva avuto figli, ero la parente più prossima

La mamma non è soltanto la mamma biologica ma anche chi ci accoglie, a proposito dello spirito,è quella da cui hai avuto vita in presa di retta, c’è questo legame in cui la vita e la morte sono insieme in qualche modo.

Pensate che c’era in camera con mia zia una donna down di 60 anni assistita dalla sorella che si era dedicata a lei. Quando io ho capito che stava andando mi sono messa a piangere e questa down tenerissima “Lella lella, non piangere per la nonnina”. La sorella non voleva che lei si avvicinasse ma lei mi accarezzava delicatamente.

Parlavo dei down perché quando Osho parlava di azzittire la mente che ha delle rigidità, deve separare, catalogare, mentre se scendi ad un livello più basso è come a 360 gradi e si colgono tanti aspetti a tanti livelli e li c’è davvero la sapienza che è quella che la bibbia chiama la sapienza del cuore.

Ci vorrebbero parole diverse secondo me.

Anche in ospedale. Io ho osservato un’esperienza di un contatto con gli altri pz più autentico. Quando ero in terapia intensiva la prima volta che mi hanno fatto alzare mi sembrava di essere su una barca con il mare grosso e ho avuto la fantasia di essere su una grossa barca con un gruppo di persone, gli altri pz i medici e gli infermieri e che fossimo per un viaggio, non si sapeva per dove e questo mi dava molto respiro. Quando i neurologi mi chiedevano come va davo informazioni sulla barca.

Questa idea del viaggio con il gruppo era bella. Qualche collega quando è venuto a trovarmi subito dopo mi hanno detto che ero in una fase di maniacalità. Non credo fosse maniacalità era semplicemente una grande gioia di essere viva, questo si. Ho visto un video di una neurologa tedesca che ha avuto una roba come la mia dallo stesso lato e anche lei ha parlato di questo eccitamento, una gioia, ma mi sembra che sia una roba sana. Questa neurologa ha fatto un seminario ai colleghi sulla sua esperienza parlando degli spetti neurologici ma presentando se come pz.

E' il tema Junghiano del guaritore ferito, del resto noi abbiamo l’esperienza di essere pz per fare gli analisti. Come analista sono stata pz, come psichiatra non lo ero stata, ora lo sono stata, un grado formativo in più.

La persecutorietà è nell’aria e come diceva Freud il delirio ha sempre una parte di realtà.

Finocchiaro:

Avevo una paziente che fa la ricercatrice e ha lavorato nella ricerca sull’oncologia per cui quando le è venuto un tumore lei mi ha detto che le sembrava, lavorando in quel settore, di essere in qualche modo protetta dall’averlo e non considerava che in realtà anche un oncologo può avere un tumore, anche uno psichiatra può impazzire.

La paura degli psichiatri: vedevano loro stessi in te questa era forse la difficoltà maggiore che gli impediva di ascoltare di fatto. Come se non tollerassero la possibilità di vedere loro stessi così. Uno deve sempre rispettare l’altro e non vedere solo se stesso nell’altro. Se uno non ascolta gli altri non ascolta se stesso.

Citterio:

Quello da cui mi sono sentita proprio aiutata in questa esperienza è stata la meditazione. Lo stare nel qui ed ora, prendere la realtà per quello che è, senza negarla. Mi sembra di aver visto le cose abbastanza.

L’istituzione non protegge

l’Istituzione protegge se stessa. Sono i membri dell’istituzione che si proteggono non i pz.Questo inquietante quando uno è bisognoso ed entra in un ambiente così.



SEMINARIO 3

27.10.2010


Stasera vorrei farvi sentire un dvd di Osho.

Pensavo prima ancora di sentirlo di fare un silenzio e vedere che voce interiore poteva sorgere. Ci vuole un minimo di preparazione.

Osho parla del fatto che ci sono delle voci che vengono messe in noi, dai genitori, dai preti, dai maestri e varie persone e quelle voci parlano ma noi crediamo di essere noi che parliamo ma nella realtà è un altro. Se crediamo di essere noi a parlare ma invece è la voce di un altro, veniamo guidati dall’esterno, da un altro. Si tratta di rintracciare la nostra voce.

Bion
non mi è venuto in mente, però mi è venuto in mente il discorso dell’oggetto alieno, ne parla anche Borgogno nella psicoanalisi come percorso e nel suo lavoro su Ferenczi.

Ed è questo che dice Osho: questa voce dell’altro educatore arriva in un momento in cui il sé autentico è ancora così piccolino che non c’è difficoltà per questa voce a prendere il sopravvento sull’altra che non ha ancora voce. È la stessa cosa dell’oggetto alieno che si instaura nel momento in cui l’oggetto sé autentico è in una fase in cui non ha la possibilità di distinguersi ed è questo il danno perché poi al sé autentico viene tolto lo spazio per svilupparsi e da qui in poi ne risulta menomato; è la stessa cosa che dice Osho.

Io credo che la meditazione sia proprio un prendere contatto con il sé autentico e potere quindi farsi largo, noi con la meditazione ci facciamo largo tra le voci altre e possiamo metterle in silenzio e quando troviamo, quella autentica che è una vocina più piccola rispetto a quelle autorevoli che hanno preso il posto della nostra, poi può essere sentita.

Nell’ultima seduta che ho fatto io di gruppo come terapeuta, un gruppo di pazienti tra i 23 e 32 anni, che conduco al San Raffaele, ognuno di loro ha qualcosa di somatico cioè una patologia organica legata al corpo ed è venuto fuori proprio questo argomento nel senso che affrontato il tema della famiglia, alcuni rimandavano come in realtà con il passare degli anni si rendessero conto di dire delle cose che non erano loro ma dei loro genitori o di non fare delle cose che quindi non facevano perché il realtà era un divieto dei loro genitori.

Uno dei ragazzi ha portato come esempio la sua casa che ora non ha quadri perché il padre, fotografo, nella sua casa da bambino non gli permetteva di attaccare nulla sulle pareti se non delle piccole cornici nere con foto in bianco e nero. Lui diceva che in realtà si rendeva conto di non fare quel gesto perché gli era stato proibito dal padre quando in realtà non era una cosa sua ma di suo padre. Mentre loro facevano queste riflessioni una ragazza che è diabetica diceva che ogni tanto si sente parlare come parlava suo padre come se non fosse lei stessa e anche il marito le rimanda “guarda che sembri tuo padre”. Mentre loro ne parlavano mi veniva in mente di Bion e della meditazione e pensavo che la psicoterapia lavora proprio sul cercare di far sentire queste voci, di lasciarle andare nel tentativo di individuare qual è la propria voce, cioè qual è il proprio quadro da appendere alla parete e la meditazione fa la stessa cosa perché nel silenzio interiore senti tutte queste voci finché non te ne liberi, fino a quando non senti la tua.

Potrebbe essere un mezzo per entrare in contatto con te stesso. Anche io mentre ascolto, mi è venuto in mente di un paziente che spesso non viene o è in ritardo, che ha sempre il bisogno di avere una conferma da parte della moglie, come nell’acquisto delle scarpe, per esempio, non deve mai dispiacere la moglie ma far piacere. Talmente bisognoso che tu sei dipendente e inerme e che subisci molti influenzamenti. Mi viene in mente Winnicott e l’ambiente facilitante che lascia sviluppare le forze stesse che sono nell’essere umano.

Winnicott quando dice di essere solo in presenza della madre, nonostante ci sia la madre, lui solo vuol dire che c’è solo la sua voce e quella della mamma sta zitta. Se è una mamma sufficientemente buona che può lasciargli lo spazio, perché questo è il punto.

Si certo, non solo per il figlio ma credo valga anche per il genitore se riesce a farlo stare per conto suo.

Ecco, a proposito di questa teorizzazione dell’oggetto alieno, c’è una nota che dice che nella tecnica psicoanalitica, alla luce di questa teoria dell’oggetto alieno, la tecnica ha subito un cambiamento, nel senso che si tratta proprio di prendere un contatto con l’oggetto alieno e poter aiutare il paziente a riconoscerlo che è alieno e a liberarsene e quando lo ha riconosciuto poter lasciarlo andare, perché soltanto facendo spazio, questo sé può prendere voce.

Nel senso forse di non cacciarlo fuori come si fa nella meditazione, non si caccia niente ma lo si guarda e lo si lascia lì, in modo da poterlo vedere e riconoscere perché se lo si caccia è come se lo si buttasse fuori, una evacuazione e poi ritorna indietro.

Anche Osho diceva: “Non devi combatterlo” e quindi c’è sempre nei saggi questo fatto di non mettersi in lotta, contro, ma anche nella psicoanalisi sappiamo che finché c’è una lotta, una difesa contro l’altro, anche quello è un legame e tanto più forte è la lotta, tanto più forte è il legame. Il poter lasciare andare, l’idea è poter diventare liberi. O si è liberi o non lo si è.

Questo credo sia un passaggio importante, credo che questo sia difficile. Un legame ti tiene unito, è difficile lasciare andare o lasciare scorrere perché in quel momento sei più solo, devi affrontare una solitudine. Ti autorizzi anche a fare delle cose, come appendere un quadro che ti piace, che tu sia d’accordo oppure no.

Non mi interessa cosa pensa l’altro se sia favorevole o no. Tu sei arrivato al punto della solitudine che è proprio il seguito di Osho, non so se lo avevi sentito.

Lui dice che noi siamo tutti soli. Abbiamo sempre l’idea di qualcuno che ci protegge, lui dice non si è protetti da nessuno e il togliere la protezione non è per sentirsi perseguitati ma è l’idea di prendere atto del fatto che nella misura in cui siamo noi che viviamo la nostra vita, siamo liberi e noi stessi e per essere noi stessi dobbiamo sapere chi siamo, altrimenti come facciamo ad essere, che è anche un intento dell’analisi, quello di portare la persona a sapere chi autenticamente è. Mi sembra che ci siano delle convergenze non piccole.

Mi viene in mente un collega in un seminario tanti anni fa diceva che c’era uno che ogni tanto parlava lui e ogni tanto il super-io. Si svolgeva a NY.

Io ho avuto una paziente che diceva: “Io oggi sono Super-Io”, non credo di averla influenzata. C’è quindi questo fatto di identificarsi in maniera rigida e assoluta con una parte del sé per esempio, che non è tutta. Come se in un appartamento uno decidesse di stare sempre in una stanza senza spostarsi nelle altre.

Anche questo è meditativo: la possibilità di vivere un’emozione al 100% senza porsi dei filtri ma di sentirla, di lasciarsi attraversare e solo se ci si lascia attraversare entra e può uscire e non è cacciata, non c’è un meccanismo contro. Forse è un po’ la cosa che dicevi tu prima Claudio delle persone che accumulano odio per tanti anni verso una persona, come se non riuscissero a viverlo e se lo tenessero in sospeso per tutti gli anni senza vivere di fatto perché è come se si privassero di anni della loro vita e rimanessero in sospeso, come se rimandassero la possibilità di farsi attraversare da questa emozione. Infatti sono sempre in attesa, come se guardassero sempre da fuori.

La meditazione è entrare in uno spazio vuoto e silenzioso e questi aspetti lo attraversano, deve entrare e uscire e questo cambia molto.

È come se non li fermassi, come se vedendoli passare li vivi e li attraversi ed è come se raggiungessi la consapevolezza che tutto passa in qualche modo; quindi se stai male, stai male ma è passeggero; mentre se non li guardi passare e continui a mandarli indietro si ripropongono ogni volta. È il discorso di Eraclito che dice che non ci immergiamo mai due volte nello stesso fiume.

Il fluire è la vita, perché la vita fluisce, non si ferma, quel che è fermo non è più vivo. Quindi l’idea anche nell’analisi è di rendere vivo quello che non è vivo, riportare la vita o meglio aiutare il paziente a riportare la vita perché non è che noi possiamo portare qualche cosa per un altro.

Io non so, forse ve l’ho già detto che ho avuto la necessità di riabilitare delle funzioni, io ho avuto la sensazione che tutte le funzioni del mio corpo fossero collassate fin quando in ospedale mi facevano fare esercizi senza lasciarmi coinvolgere. Quando io ho preso consapevolezza, essendo presente al movimento e ascoltandolo di un ascolto con tutto l’essere, il sentire e questo ha cambiato tantissimo, come una rinascita è molto vitalizzante.

È come se spesso non avessimo la consapevolezza di tante cose.

Sì, anche al livello del corpo che è la base da cui parte tutto.

Mi è venuto in mente un bel libro, molto bello, che parla del preconscio e della respirazione. Lo chiama contenimento psicofisico. Delle volte ti capita di fare delle sedute e grazie al Tai che mi rilasso, magari sto assorbendo qualcosa.

Anche in seduta ci si può chiudere e non ascoltare.

Al Seminario sull’emergenza, io ho fatto un intervento breve. Ad un certo punto è uscito un discorso di setting interno ma solo citato. Del setting interno io avevo già sentito parlare più di venti anni fa e non mi ero mai prefigurata bene cosa fosse. Lì a proposito dell’emergenza mi è venuto in mente che l’operatore psi, quello che può apportare è uno spazio di ascolto e quello è il setting interno; lì non c’è all’esterno uno spazio perché l’emergenza è proprio una mancanza totale di setting.

Portando questo spazio di ascolto veramente si dà un apporto rilevante, diverso da quello che danno tutti gli altri.

Hanno parlato del terremoto in Abruzzo, Marco Longo ha fatto dei gruppi di terremotati e di operatori: era venuto fuori il discorso della passivizzazione delle persone traumatizzate dal terremoto che è qualche cosa che non le aiuta di fatto. Ho pensato quindi che il gruppo è uno strumento utile: uno può parlare, evacuare, ma è tenuto anche ad ascoltare poi, l’ascolto è una situazione non di una passività inattiva ma è un offrire uno spazio di contenimento e quindi una forma attiva, dove loro escono da una passività frustrante.

Lo spazio di ascolto, in luoghi dove tutto è incentrato sul fre , diventa un elemento importante nella relazione. Non ci sono solo i terremoti esterni, anche noi abbiamo le emergenze all’interno della stanza con i nostri pazienti che spesso hanno forti terremoti interni.

Parlando di setting interno, mi viene in mente un paziente che ho seguito per un paio di anni in Besta, un ospedale piccolo con una sede antica dove è difficile far sì che quella stanza sia sempre la stessa, per cui ogni volta cambiavamo stanza e le abbiamo girate praticamente tutte. Ad un certo punto il paziente mi dice: “Dottoressa in che stanza andiamo oggi? L’unica cosa che rimane fissa è la sua stretta di mano”. Anche in una situazione di emergenza in cui non hai uno spazio fisico che è sempre fisso, sempre quello, ci sono cose che fanno da contenitore che rimangono fisse, indipendentemente dalla stanza fisica. È qualcosa di mentale, che si sente e che passa nella relazione.

La relazione funziona se c’è un setting e un setting è sempre possibile in qualunque situazione anche nel pronto soccorso medico piuttosto che psichiatrico, in ogni situazione, al letto del paziente, in ambulanza. Credo ci sia una maggiore apertura a questi tipi di interventi.

Mi sembra molto utile, le situazioni di frontiera ci sono però anche all’interno della stanza. Io ho avuto una paziente, una in particolare che si sedeva per terra. Non era una psicotica militante ma una donna laureata in filosofia che insegnava in una scuola media-superiore. Lei si sentiva in grosso disagio e quando si sentiva così a casa sua si sedeva per terra. Mi è sembrata una libertà.

Se diceva che lo faceva a casa sua vuol dire che anche lo studio era diventato casa sua.

Sì, si sentiva a casa. È importante, dove la casa è poi un luogo interno.

Essere sé, significa poi ritornare nella propria casa, riuscire a parlare con la propria lingua e non con quella degli altri. Anche la casa dei genitori rispetto alla propria.

Quando uno può tornare a casa sua, lì è proprio quello che lui è.

Mi sembra anche che, sto pensando a queste possibilità di legami che si creano tra situazioni che non hanno un nesso causa-effetto ma sono legami altri, ecco io credo che bisogna proprio fare silenzio con i nessi forti della mente per potere sentire queste voci che sono poi voci che hanno a che fare con il sé autentico che le sente e che può mettersi in contatto con altri livelli che sono analoghi, come un’autenticità non una maschera, perché le maschere non hanno la possibilità di essere messe insieme, sono finte, non vere.

Per i nostri pazienti quando noi abbiamo questa possibilità e la possiamo avere se siamo rilassati, perché se ci sediamo e ci contraiamo non ci sono gli spazi per creare questi nessi, allora io credo che ai nostri pazienti questo dà uno spazio di libertà, non di qualche cosa che è assoggettato al conformismo, piuttosto che alle regole, è qualche cosa che fa sentire un flusso. Anche un po’ la percezione del “se quello che ti dico non ti fa paura, non fa paura neanche a me” in qualche modo. Come se si ridimensionasse un po’.

Il poter nominare quello che è.

Con i pazienti che hanno dei tumori, alcune volte hanno voglia di parlare della morte e non possono farlo con i loro famigliari perché li spaventa molto. L’impressione è che le prime volte ti studiano e capiscono se possono parlare anche di questo argomento, come se selezionassero un po’ gli argomenti in base alla persona che hanno di fronte e quando dicono la parola morte o morire è come se fossero li pronti a cogliere la tua reazione fisica di fronte alla parola e quando vedono che tutto sommato non ti spaventa in maniera così intensa, cioè che l’hai già sentita, allora è come se si concedessero la possibilità di parlarne. Questo è più facile quando si è rilassati e tranquilli mentre nei momenti in cui si è in tensione è come se questa cosa passasse come argomento che non vuoi affrontare.

Se non si vuole affrontare la morte non si può affrontare la vita. Anche io ho avuto esperienza di accompagnare pazienti alla morte e nel momento in cui possono parlare del morire, poi possono parlare della vita. Si sente la vitalizzazione, il poter avere uno spazio in cui passare da uno all’altro significa proprio essere vivi.

Winnicott aveva scritto o detto “Vorrei essere vivo e presente al momento della mia morte”
Aveva scritto qualcosa come se lui fosse già morto.
Come se parlasse di sé come se fosse già morto.
L’ha scritto proprio apertamente. Credo che questo essere presente alla propria morte è, come dicono i saggi orientali, lasciare il corpo, lo spirito si separa dal corpo e nel momento in cui lo fa è presente.

“Il Sari Rosso”, racconta la storia di Sonia Maino sposata Gandhi e parla della famiglia Nehru-Gandhi e quando è stato ucciso il marito di Sonia, racconta in dettaglio il rito Indù della pira che viene accesa dal parente più prossimo, se è il padre quello che muore, dal figlio. C’è un momento in cui il cranio scoppia e fa un suono particolare e a quel punto significa che lo spirito si è liberato e c’è un rituale. A quel punto la persona morta è libera di salire, si è liberata dai vincoli. L’ho trovata una cosa toccante.

Io ho assistito a un paio di riti sul bordo del Gange a Varanasi. Accendono questi legni sui quali è depositato il cadavere e c’è un grande fumo che va addosso alle persone che è come se li respirassi, ti entrano dentro. È una sensazione molto particolare, in questo clima di ritualità che è legato semplicemente al luogo dove si svolge la funzione, mentre intorno c’è un caos incredibile con bambini che corrono e urlano. Questa cosa che respiri il cadavere è incredibile.Il cadavere o lo spirito. Hai proprio la sensazione che quello che c’è di materiale ti si appiccichi addosso in qualche modo.

Nel rito indiano Ibeda non c’è traccia concreta ma solo frammenti di parole: non hanno lasciato nessuna costruzione verbale perche tutto quello che è costruzione poi è soggetto a distruggersi come tutte le manifestazioni Ci sono solo dei suoni all’interno di questi riti essendo spirituali e come tale non soggetti ad estinguersi come tutto quello che è manifestazione fisica.

Il “Sari Rosso” narra dei volti che si vedono e si confondono nel fumo, della spiritualità che si diffonde tra le persone presenti.

In India la spiritualità è stata da millenni avvicinata in una maniera più intensa e profonda più di quanto non sia stato fatto altrove. Osho dice che l’India non è un luogo geografico ma uno spazio interno ed è lì che noi possiamo andare, non serve andare in India.

Io credo che noi nel lavoro che facciamo, prima si è parlato delle parole, lavoriamo su aspetti di questo tipo. Lo spirito abita all’intero di un corpo, che poi comunica con lo spirito. Noi non possiamo prescindere dalla totalità della persona.

Quante volte le nostre comunicazioni compiute e ben integrate non sono utili. A volte la singola parola può essere molto più incisiva se si inserisce in modo magico e trasformativo.
Non si tratta di costruire un bel discorso, ben fatto.
Veda vuol dire conoscenza e Sanscrito vuol dire perfetto. La parola avrebbe in sé una sua perfezione nel senso che è meno deformata rispetto alle manifestazioni concrete di altro tipo.

Quando una persona sente che è riuscita a comunicare quello che desiderava, a prescindere che sia una comunicazione allegra o triste è contenta di essere riuscita a comunicare quello che desiderava comunicare, come se ci fosse una compenetrazione tra parola e infinito dentro di noi.

A me viene in mente una paziente che ha fatto una lunga analisi e abbiamo rintracciato un suo sé autentico con il quale non era mai entrata in contatto ed era rimasto un pensiero solitario,una parte di sé autentica che credeva fosse una parte matta. Sua mamma era psicotica per cui c’era questa difficoltà per lei a capire cosa fosse sano e cosa fosse matto e quando abbiamo rintracciato questa parte ed ha cominciato a parlare questa parte, lei balbettava, con parole frammentate e diceva “Lei capisce quello che sto dicendo?”. Questa parte ha iniziato a parlare qui e per lungo tempo ha parlato solo qui e pensava che non sarebbe mai riuscita a parlare fuori e invece poco a poco ha iniziato a comunicare anche con gli altri e quando lei ritornava indietro, al pensiero solitario e comunicava con l’altra parte, come aveva sempre fatto, si sentiva più a suo agio perché era la parte che conosceva.

Anche questo mi ha insegnato perché nel cambiamento c’è il disagio della parte nuova. Lei quando ha finito l’analisi, ed è nata la sua parte nuova, ha anche concepito una bambina che poi è nata e abbiamo allungato il termine che avevamo posto perché nasceva proprio in coincidenza con la data che avevamo posto come fine dell’analisi e non poteva fare entrambe le cose e quindi abbiamo protratto. È stata per me un’esperienza straordinaria il fatto che nascesse il suo sé autentico e concretamente anche la bambina. Per me e anche per lei.

Lei pensava che non sarebbe mai diventata mamma, lo è diventata a 33-35 anni dopo un percorso lungo perché era ancora all’università quando ha iniziato con me. Credo che sia successo nel momento in cui nello spazio interno si è aperto lo spazio per il suo sé autentico, allora anche nel corpo si è fatto lo spazio.

Pensavo ancora alle parole e al fatto che forse la prima volta che mi sono spiegata un po’ come funzionava questo mestiere avevo appena finito l’università e sono andata in India e penso di averlo capito lì.

È come se la domanda fosse: “Com’è possibile aiutare le altre persone attraverso la parola?” perché di fatto non è un intervento sul corpo ma un intervento attraverso la comunicazione.

Me lo sono spiegata in qualche modo in India perché per la prima volta ho capito come le parole possano in qualche modo cambiare anche le sensazioni, gli stati d’animo in maniera non comprensibile, come se non ci fosse la possibilità di controllo razionale.

L‘esperienza è stata quella di ripetere i Mantra, cioè ripetendo parole che non si conoscono è come se tu raggiungessi una trasformazione che sembra impossibile e questo avviene attraverso il sentirti parlare in qualche modo, che è un po’ quello che avviene anche ai pazienti che sentendosi parlare in qualche modo trasformano degli aspetti di sé in una maniera che è difficile da spiegare.

Un benessere attraverso le parole è possibile, coinvolgendo anche il corpo.

È come se non ci fosse divisione, è come se in un secondo mi si fosse annullata la divisone corpo-mente cartesiana. Lo vedi agire, ti rendi conto di come attraverso le parole puoi avere una rivoluzione globale in qualche modo.

C’è il titolo di un libro di Danielle QuinodozLe parole che toccano” molto bello. Il l’ho letto molto tempo fa ma ricordo che ho trovato qualche cosa che dice che mi ricordava Bion. Lei è svizzera-francese e ho trovato molte connessioni con Bion anche se lei non lo nomina mai.

Non solo c’è un aspetto somatico, già le parole sono la traduzione, già io sto traducendo qualcosa dentro che poi arriva e chi ascolta fa un’altra traduzione.

Pensate quando c’è una traduzione da un’altra lingua, anche Bion lo leggiamo tradotto.

Quest’anno avevo proposto agli alunni di comprare libri con testo a fronte, di acquistare in inglese e anche in italiano e quando ci sono punti non chiari andare a vederlo in lingua originale. Perché se tutti avessero accettato si poteva pensare di leggerlo direttamente in inglese. L’idea era di vedere qualcosa per sentire come suona, non si può fare tutto in un corso.

Anche il suono delle cose è trasformativo, ho in mente le campane tibetane che loro usano come strumento di guarigione, te le posizionano sul corpo in corrispondenza attraverso le vibrazioni. E così anche quando ripetono le parole è come se utilizzassero il corpo, come gli islamici che pregano e dondolano in qualche modo, così loro utilizzano delle affermazioni mentre fanno delle posizioni di Delta Yoga. Ogni posizione ha un’affermazione corrispondente.

Se pensi agli islamici, pensano che il loro Dio abbia scritto il Corano, se pensi a Bion quella cosa è “O”, la verità.

A Delhi pregano continuamente e si muovono fisicamente, lo senti, con il corpo fisicamente.


SEMINARIO 4

24.11.2010



Sto rileggendo un libro intitolato “Nel deserto il profumo del vento”, è uscito 2 mesi fa.

È un mistico, un piccolo fratello del Vangelo di Charles Focauld. dice tante cose che sono vicine a Osho. Ha una sessantina d’anni e parla dell’esperienza mistica, dove per deserto si tratta proprio di entrare dentro di sé e arrivare ad un punto che è il vuoto, che è la situazione psicotica. Ecco, prima parlavamo della situazione psicotica in cui c’è questa sensibilità. Il deserto è poter lasciare tutte le difese, tutto quello che è strutturato dell’Io, anche il nome, e lì c’è una possibilità di contatto col tutto, proprio di prossimità e sofferenza.

Arturo Paoli , sacerdote cattolico,ha fatto la prefazione e dice che ad ogni pagina lui si è sentito accarezzato e scalfito allo stesso tempo. Sei a un passo dal paradiso e a un passo dall’inferno. E c’erano un gruppo di mistici nel quarto secolo nel deserto: sono andati una quantità di monaci, alcuni soli, altri in gruppetti (quelli che poi sono diventati monasteri). C’è stata una fioritura di questo nel Cristianesimo e probabilmente per trovare proprio un’autenticità della spiritualità, cosa che si è persa nella struttura della Chiesa che ha costruito le cattedrali. Invece, questi vivevano sotto la tenda. Ecco, l’autenticità della spiritualità è proprio sotto la tenda, e la tenda è quella che pianti sulla terra, e parte da lì. È bellissimo. Io l’ho letto l’estate scorsa, perché io conosco Arturo Paoli ed era lì e lui aveva la prima stesura. Aveva fatto la prefazione, me l’aveva passato, io l’avevo letto Ed è una lettura che si avvicina all’Oriente veramente molto. Io lo trovo bellissimo. E appunto “Nel deserto il profumo del vento”: lì non ci sono fiori, ma il vento del deserto, a seconda di dove va, ha un suo profumo. Ed è quello che anche è in grado di sentire lo psicotico di cui parlavamo prima. Poi lo psicotico è anche un porsi nostro. Lo psicotico ha una povertà dell’Io e lì per poter avere una comunione mistica con Dio si tratta proprio di poter annullare il proprio Io, perché nell’annullamento trovi Dio, che si annulla anche lui. Lui si è annullato. E lì c’è l’incontro, quello del Vangelo, di Gesù che si è incarnato. C’è un perdersi per trovarsi: ossia, si perde il tuo Io e anche Dio deve perdersi se si tratta di trovarsi, ma non si sa chi si perde. E dove inizia uno e finisce l’altro, ossia si è fusi ma anche separati, e qui c’è il discorso dell’unità e della trinità. Ecco, io non ve lo so dire meglio.


                                             
                                             SEMINARIO 5

                                                 19.01.2011



Anni fa, quando ho fatto il gruppo per la sclerosi multipla, poi incontravo anche terapisti della riabilitazione e poi ero stata inviata a fare dei seminari alla scuola, quella del S. Carlo, a tenere un corso. E quello che secondo me era utile per i fisioterapisti era il discorso di una relazione che era particolarmente coinvolgente perché lunga nel tempo e in più dove c'era un corpo a corpo. Avevo sperato, ai tempi di riuscire ad organizzare un gruppo, tipo il Balint, per i terapisti della riabilitazione, proprio centrato sul fatto della relazione.

Esperienza molto intensa, passa molto attraverso il non verbale ma poi si trasforma, per molte persone, anche in verbale. Io ho presente molto chiaro nella mente un cliente di Marco, mi sembra, che andava in terapia con un psicologo. Da molti moltissimi anni e non riusciva a sbloccarsi e si era un po' depresso, stava malissimo. Ma ha fatto un paio di massaggi con Marco, ha pianto tantissimo e quando lui massaggiava continuava a piangere non si fermava più. Insomma, in due o tre volte che si sono incontrati, lui ha incominciato con frequenza settimanale a fare un massaggio e ora sta molto bene. E sono passati quasi tre anni e lui non salta una settimana. Per lui è molto importante, cioè hanno stabilito una relazione tale per cui parlano, lui gli fa il massaggio e sta molto meglio. E lo identifica proprio come un punto di trasformazione, il momento in cui ha incominciato a farsi massaggiare e toccare. Un canale molto efficace per alcune persone.

Io ho una paziente, che è un’allieva o ex allieva, che aveva dei dolori per cui va da una donna naturopata, e la naturopata l’ha mandata da una massaggiatrice e col massaggio, da subito, questi dolori vaganti e muscolari o articolari e stanchezza anche molto spiccata a tratti sono passati

Perché verosimilmente erano dell’energia che era ferma lì e si è attivata e ha avuto beneficio dopo poche volte. Credo stia ancora continuando. Adesso io, essendo in una terapia analitica, non posso chiederle se lei non mi dice, però insomma…

Infatti lei dice che, al primo, già ha cominciato a sentire l’energia circolare: nelle pratiche di yoga che faccio da un anno e mezzo, c’era stato proprio un, mi viene da dirlo in inglese, un’impairment di tutte le funzioni, comprese tutte le articolazioni. Io non riuscivo più ad alzare le braccia, non riuscivo a camminare perché mi si gonfiava una caviglia. Allora ho incominciato ad utilizzare quello che conosco delle tecniche di yoga mettendolo insieme anche alla meditazione, seguendo una pratica di Satiana Under che si chiama Pavana muktasana, che parte dalle articolazioni, dalle dita dei piedi, poi le caviglie, le ginocchia e così salendo tutte le articolazioni accompagnandola col respiro.

Io inspiro, trattengo quanto posso, poi sto col corpo (è il corpo che mi dice quando devo espirare), espiro…perfetto…e di nuovo trattengo…Ecco…E così per tutte le volte. Ecco, allora il respiro insieme al movimento richiede un contatto. Intatto, si azzittisce la mente, perché se la mente funziona e ti comanda non funziona…All’inizio succede così ma non è un esercizio di mente, non è una meditazione. E invece si tratta proprio di fare il vuoto dentro e potere muoversi. Io, per esempio, ho capito o meglio ho sperimentato…perché Camiro mi diceva “Non sei tu che rilassi ma è il corpo”. Io non intendevo. Di fatto, io adesso lo sento: quando ci si rilassa, è il muscolo che si rilassa, è l’articolazione che si rilassa. Questo è la meditazione che io faccio ogni mattina; certe volte dura un’ora anche, almeno due o tre volte alla settimana, se no più di mezzora. E questo movimento accompagnato dal respiro, dove non è un respiro obbligato, perché sono io che lo seguo ed è l’articolazione che si accompagna al respiro, ossia sono loro che si armonizzano e tu segui. E io lo faccio al risveglio, lo faccio a letto. Io mi sveglio presto. E così mi inserisco nella giornata, in questa maniera armonica e meditativa, e io faccio tutto fino anche alla temporo-mandibolare e faccio degli esercizi per gli occhi, il palming, un esercizio yoga che è sbattere le palpebre dieci volte per tre volte, poi riposo, poi faccio di nuovo il palming e faccio quello degli occhi. Io sono molto migliorata, ma anche questo degli occhi va bene a chiunque perché è qualche cosa che tiene in allenamento il sistema comunque, che fa in modo che non si atrofizzi

Questa esperienza che io non avevo messo in conto che potesse essere una meditazione, è una meditazione che si è approfondita con la pratica e mi sembra che la connessione col corpo sia un punto importante, che non isolarsi nel corpo. In uno stato meditativo si può fare anche quello, ma quando l’ho legato a queste pratiche muscolari che accompagnano il corpo, io lo sento più completo e più intenso.


Finocchiaro :
Bion parla tanto del concetto di psicosomatica.

Groddeck, ha lavorato tutta la vita in queste cliniche così a metà strada tra lo psichico e il corporeo, che utilizzavano anche il veicolo corporeo. 

Citterio:

In Grotstein “Un raggio di intensa oscurità. Bion, forse nei “Seminari brasiliani”, prima del seminario, “Sono curioso di sentire quello che dovrò dirvi”. Questo è orientalissimo. E’ come se in realtà fosse il corpo a parlare.

Io nei seminari su Bion adesso utilizzo più quello che ho appreso dell’Oriente, della meditazione, di Osho, per parlare di Bion. Vado a guardarmi quello che lui dice, ma poi quello che dico io lo lascio come mi viene e si avvicina di più appunto a quello che è l’esperienza dell’Oriente.

Forse per riuscire a sentirlo veramente, a comprenderlo, un po’ di consapevolezza di esperienza orientale è fondamentale in qualche modo. Perché altrimenti è come se rimasse un po’ superficiale.

Finocchiaro :
Leggere un libro di Bion ha un senso completamente diverso rispetto agli altri libri. E’ come se non lo sentissi subito, mentre poi, con il tempo, è come se lo metabolizzassi, in qualche modo. Cioè, come se tante cose acquisissero un senso. Quando le sperimenti ma non con la mente, fai l’esperienza. 

Citterio:
Quello che dico anche nei seminari: si tratta di scendere più in basso, perché “senza memoria e senza desiderio” è questo poi. Perché preso razionalmente così sembra una follia. Invece, sentirlo nella relazione te lo fa comprendere. Lo capisci solo attraverso quello che hai vissuto, non puoi capirlo.

Se è una lettura con la mente non capisci niente, non entri in Bion, non rende assolutamente.

Se invece noi possiamo andare come viene…

Finocchiaro:

Come per eliminare l’incertezza, come per eliminare la sofferenza dell’incertezza.


Citterio :
Noi non riusciamo a pensare, in termini di Bion, quando non tolleriamo la frustrazione dell’incertezza, del non sapere, del vuoto, l’assenza dell’oggetto. E’ questo è tipicamente orientale. Perché riuscire a stare anche lì dove non sai quello che succederà.

Quando uno legge quello che ha scritto qualcun’altro, una sensazione in cui si è ritrovato, è come se lo avesse scritto un po’ lui stesso.

Quando parla uno non sa esattamente che cosa dirà un secondo dopo. È come se fosse un flusso che viene fuori, non troppo controllato. Se tutto fosse rigido e controllato, già predisposto, non ci sarebbe la libertà di poter spaziare e di sentirsi dire magari anche delle cose che uno non pensa neanche di pensare, perché quelle cose sono quelle che senti.

Quanto ti senti, come dicevi prima, parlare, il pensiero va in una direzione che tu non sai. Perché le parole ti tracciano una strada che non sei tu che tracci. Perché le parole autentiche sono quelle che vengono dal silenzio, quindi da quello che tu senti, e tu, nel momento in cui le formuli e le ascolti, poi parlando costruisci pensiero.

Io quando parlo, soprattutto nelle sedute ma anche nei seminari, io comincio a dire una cosa e poi vado, non so dove arrivo, se sono libera. Ossia libera di trasferire, quello che dice Bion “sono curioso di sentire”, di provare come sensazione quello che vi dirò. Quindi, quello che vi dirò, quando è autentico, viene dal silenzio, va a pescare nel profondo. È nel corpo, perché è il corpo che sento. Perché la parola è corpo, in un qualche modo, è qualcosa che c’è.

Quindi, davvero le similitudini con il pensiero orientale sono moltissime, perché se uno pensa a questo fluire di parole, a partire dal quale viene una specie di illuminazione. Perché poi, quando uno è con un analista, è come se guardasse i suoi pensieri ad alta voce: è un po’ come una meditazione in cui uno vede i suoi pensieri che passano.

Ed è come se uno li sentisse dentro le sue orecchie. Li vede passare, li lascia passare e poi, ad un certo punto, è come se avesse una specie di illuminazione.

E’ come se avesse una comprensione di qualcosa, è come se quadrasse quel qualcosa in più a cui prima, con coscienza, non si aveva pensato, a cui razionalmente non si riusciva a pensare.

Per cui, è come se il processo fosse molto simile, in realtà.E’ simile perché ti avvicini al funzionamento che c’è davvero, nella misura in cui ti avvicini. Poi, se ci sono quelli che applicano delle regole soltanto, allora si dicono e si chiamano analisti di nome ma nella realtà non lo sono.

Con l’analisi forse hai un osservatore esterno, nel senso che, producendo pensiero ad alta voce, hai poi un analista che ti dà un feedback, un altro punto di vista; mentre, con la meditazione, è un po’ come se tu facessi tutto da solo. E’ come se cambiassi continuamente vertice, è come se tu fossi l’osservatore e l’osservato contemporaneamente.

Anche in analisi. Nel senso che poi, quando parli ad alta voce, tu sei l’osservato perché vieni osservato da un analista, ma forse lo sei anche tu. Cioè sei osservato dall’analista ma sei anche tu l’osservatore di te stesso nel momento in cui parli. Per cui questi vertici, questa molteplicità di vertici c’è comunque.

Ho capito che avevo bisogno di poter confrontarmi con quello che mi è successo con un’analista perché è il mio linguaggio, è la mia lingua madre, e quindi è lì che avrei bisogno di confrontarmi. E io sto già meglio nel senso che, per esempio, anche prima di conoscerla, quando già avevo l’appuntamento, io ho cominciato a raccontarle dentro di me, così a guardare delle cose e quindi a vedermele e questo glielo ho detto. Noi ci vediamo una volta a settimana. E anche adesso, io tra una seduta e l’altra e continuo a parlarle e posso farlo sentendomi meglio perché ho un interlocutore, perché in questo momento ho avuto una regressione per dei fatti, per cui ho dovuto tornare indietro. Ecco, stavo pensando: questo modo che io utilizzo è vicino a una meditazione, perché io guardo i miei pensieri che passano e vedo delle cose che nel momento in cui le vedo le trasferisco, diventano pensiero, parole. Comunque vedo la realtà dei pezzi della mia vita, anche di prima che vada a riprendere, come vado a riprendere le cose in casa. Tale per cui sai quello che ti passa per la mente, hai un contenitore, in un qualche modo, da qualche parte.

Mentre quando mediti, sei tu stesso che ti fai da contenitore.

Per cui ci sono riflessioni e pensieri che rimangono per te stesso. C’è il piacere della relazione, è come se fosse una scoperta di te stesso.

Però Osho incontrava le persone che poi gli facevano delle domande. Mentre andavo all’Ashram di Sarchi Ananda, ho parlato con delle persone indiane che avevano come guru Sarchi Ananda, e andavano più frequentemente che se uno andava a Dehli o a Calcutta. Per esempio, una diceva che il guru le aveva detto di cambiare lavoro e di fare un certo tipo di lavoro diverso: lo aveva fatto e il suo lavoro era fiorito. Per cui, anche lì però hai bisogno di un punto di riferimento, di un altro che ti osserva e ti dice delle cose.

Per cui, è possibile che loro, originariamente, la intendessero proprio così, come un rapporto con una figura di riferimento. Perché era un rapporto discepolare, poi alla fine. C’è un guru e dei discepoli che si confidano con lui, in un qualche modo. Per cui è possibile che il guru facesse da punto di riferimento esterno, così come è l’analista nel rapporto analitico.

Forse, poi il guru diventava quel punto esterno che è il riferimento che ti permette di pensare, di esplicitare il tuo pensiero, forse di produrre anche il pensiero in un qualche modo.

Tu gli dici delle cose, lui ti guarda e ti dà delle indicazioni guardandoti da fuori. Quindi, anche lì non ce la fai da solo.

Non so se Tolle è illuminato o no, comunque è molto avanti, anche in questa demonizzazione della parola: la usiamo tutti, se no come comunichiamo? Che poi ci siano altri livelli non verbali, ma nel momento in cui vogliamo dire qualcosa ce lo dobbiamo dire usando le parole, altrimenti…

Questa analista, la seconda volta, mi ha detto che mi ha sentito “umile e coraggiosa”. E su questo ho riflettuto. Mi sono sentita riconosciuta, devo dire. Io le ho detto “Mah sa umile. Io ho toccato livelli…Come potrei non esserlo? Perché la vita mi ha portato questo. E coraggio? Beh come ne sono uscita, quindi mi ci vuole coraggio”. Comunque dall’analista è un altro ascolto, per quella che è la mia esperienza.

Quindi, aver un’esperienza di analisi ti dà delle possibilità di guardare le varie facce davvero senza dare giudizio e interpretazioni selvagge. Magari uno può darle, ma non costantemente. Abbiamo delle capacità altre, che messe insieme alla meditazione aiuta. Non è che sia o una o l’altra; una è giusta e l’altra è sbagliata; una è demonica e l’altra no. Assolutamente no. Non è questo.

Diverso è il karma yoga: a me è rimasta una traccia. L’ho tutt’ora presente. È due volte che sono andata in India. Ma quella lì è un’esperienza all’interno dell’Ashram e che comunque ti dà una traccia per cui, non so, anche stasera lavavo i piatti e capivo: tu stai facendo quello e lo fai con tutte le tue energie, perché sei solo lì, fai una cosa per volta.

Come anche una cosa pratica e umile anche, diventa piacevole. Pensi che non la possa fare nessun’altro al tuo posto perché ti sta bene essere lì e farla.

In quel momento è quello e c’è quello e lo fai. Non è quello che fai, potrebbe essere lavare i piatti o fare un intervento chirurgico: poni la stessa attenzione.

È la capacità di esserci al 100%, con consapevolezza.

E anche quando sei nella situazione d’analisi, lì sei al 100%, disponibile. Lì non si tratta di fare, ma di essere, essere un ascolto, guardarti: è la stessa cosa.

Guardi il campo al 100% e con distacco senza immedesimarti in quella che è l’emozione di un momento o quello che senti.

Se non la pensiamo nella forma che abbiamo portato in Occidente, ma pensiamo a quella originaria orientale: lo yoga è una meditazione in movimento. Per cui è come se il collegamento tra il corpo e la mente fosse costante. Per cui ciò che senti attraverso il corpo è nella mente, e viceversa. Non so se mi sono spiegata. Ad esempio, ho in mente le autoaffermazioni Paranansa Yogananda che associa una frase ad una posizione yoga, per cui una sensazione fisica ad una frase. Per cui la posizione del guerriero dice “Mi sento forte e pronto”, oppure picchiettandosi la testa dice “Svegliatevi cellule del mio corpo”: come se ci fosse un collegamento tra il sintomo fisico, che puoi sentire, il movimento fisico e la sensazione che ti può far provare a livello psichico. È come se la tecnica li appiccicasse assieme. Per cui, l’esortazione verbale, come un mantra che ti ripeti, che è qualcosa che ti sta nella testa, associata ad una specifica sensazione corporea.

Mi è venuto in mente che mi piacerebbe poterla trasmettere ad un gruppo di persone questa esperienza. 
Mi piacerebbe, anche per trasmettere qualche cosa, ma l’idea è anche per me, per poter ampliare l’esperienza, perché l’esperienza fatta in un gruppo è diversa che quella fatta da soli. 
Loro fanno shiatsu, c’è anche un osteopata. 
E allora ho detto che mi piacerebbe fare un gruppo e loro sembrano interessate. Io non lo so come, perché mi è venuto in mente proprio in queste meditazioni mattutine. Mi è venuta in mente questa cosa e mi sono venute in mente loro, perché questi pensieri poi nella meditazione ti arrivano e tu li vedi.
E allora sono arrivati e adesso la cosa sembra che possa interessare. E io prima pensavo di farlo solo come maestra di yoga, poi oggi ripensandoci, per esempio, con queste persone potrei avere dei colloqui prima di fare questa cosa. Così, per conoscerci e poter vedere se vogliono sapere qualche cosa, poter dire in che cosa può consistere il tipo di lavoro insieme.
Renderlo anche un po’ psicoanalitico, in qualche modo.

E devo pensare come, perché io sono psicoanalista a pieno titolo non con una trasgressione dalla psicoanalisi. Ecco, penso che ne parlerò con questa persona in maniera da poter fare un discorso. Ma non per una questione di forma. Perché poter mettere insieme le due cose potrebbe essere una cosa nuova.

Sarebbe un gruppetto piccolo, perché massimo possono stare sei persone in quella stanza. Quindi quattro o sei persone, per partire. Io sento il bisogno che siano poche persone.

E d’altronde per quanto mi riguarda quello che mi sento di trasmettere, che faccio, è proprio sulla mia esperienza e posso trasmettere proprio essenzialmente perché ho le esperienze nel mio corpo. E facendo l’esperienza nel mio corpo, io, nel mio tragitto, ho preso le tecniche che potevano essere messe insieme. E poi non è nato così, all’inizio.

Freud diceva che ogni tanto uno dovrebbe fare le tranches di analisi, ma è difficile farlo perché ci si conosce fra noi analisti. Ma poi però non è necessariamente così un ostacolo il fatto che ci si conosca. Io questa terza analista non la conoscoevo, l’ho trovata.
Sono gli incontri casuali quelli che funzionano di più. Ogni tanto l’intuito ci porta in luoghi inaspettati. Perché se no non li vedi.  Magari ti passano davanti e non li vedi se non è il momento.















COVID 19 FAKE NEWS di Armando Ciriello




I 127 medici morti non sono né eroi né masochisti, ma professionisti non tutelati. 

Lo stato ha dichiarato, non oggi, ma negli ultimi decenni, la caduta del patto sociale, motivo per il quale un cittadino sacrifica parte del proprio narcisismo per un bene più prezioso, il bene collettivo.
Lo storico Marc Bloch specificò nel suo libro La Guerra e le false notizie che “una falsa notizia è solo apparentemente fortuita, o meglio, tutto ciò che vi è di fortuito è l’incidente iniziale che fa scattare l’immaginazione; ma questo procedimento ha luogo solo perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento”.
In questi giorni si assiste all’impietoso dibattito da parte di giornalisti, politici, autorità, all’interno di Talk-Show televisivi infinitamente noiosi, sulla necessità di appurare le notizie, cercando di distinguere il vero dal falso. Il tutto avviene con il tono dell’indignazione da parte di un socialismo antropomorfico che elicita il pensiero dell’Uomo, la cui radice semantica è riconducibile “all’ anathron ha opope”, che significa colui che riesamina ciò che ha visto!
Mai come oggi sembra più attuale “Il Cratilo” di Platone, dove i personaggi, Cratilo ed Ermogene, discutono sapientemente su come si possa appurare il vero dal falso, a partire dai nomi. Non è una disquisizione filosofica e linguistica, ma riguarda il rapporto tra l’ontologico e l’epistemico, ossia un rapporto tra verità e realtà: come la verità, che si traduce in un discorso linguistico (Logos), si debba poter attenere ad un Come, una condizione umana caratterizzata dall’oscillazione tra sostanzialismo e convenzione sociale.
Socrate riteneva che il nome non fosse solo un dato concreto e variabile, in senso eracliteo, ma che fosse il rappresentante di una significazione sostanziale; per Aristotele, invece le cose e le immagini sono universalmente trascendentali, mentre le espressioni foniche, le parole, sono soggettive.
Tale riquadro filosofico e linguistico fa da premessa ad alcuni concetti in cui il discernimento del vero e del falso non può essere inteso come un esercizio assoluto, pena la caduta in ideologie fanatiche.
La citazione di Marc Bloch presuppone che non vi siano manipolazioni fatte ad hoc e proposte coscientemente per orientare l’opinione pubblica, perché, in tal caso, si tratterebbe di un vecchio reato depenalizzato: il Plagio.
Ma lo scrittore si rifà ad un implicito culturale che può fornire un substrato su cui s’innesca il procedimento della falsità fino alle sue estreme conseguenze. Un tempo in psicopatologia era noto che gli schizofrenici fossero dei “puri”, cioè incapaci di mentire, benché le loro paramnesie deliranti mostrassero costruzioni assolutamente fuori dal Common Sens.
Eppure in ogni discorso schizofrenico c’è un fondo di verità negata.
La fabbrica delle Fake News ha bisogno di un terreno di “cultura”, e non di coltura, essendo per sua natura composta non da microrganismi, ma da falsificazioni, che devono essere incubate e poi sguinzagliate iperbolicamente alla velocità dei Social, quasi quanto il Covid-19.
Ritengo criminoso l’atto della costruzione e circolazione di informazioni costruite ed elaborate ad hoc, ma non meno irresponsabile la costruzione di un sociale che fa da terreno d’incubazione per il loro sviluppo e la loro libera circolazione.
Cercherò di approfondire quali siano i collegamenti tra i fenomeni doxici-ideologici e le false notizie. 
Ritengo che queste ultime facciano parte di una comunicazione distorta, e rientrino in fenomeni di massa non solo appannaggio dei Social, ma di una socialità che silenziosamente orienta, inganna confor-mistica-mente e distilla nella popolazione  credenze, gradimenti e vantaggi a favore di chi ha e detiene, o vuole rinforzare posizioni ideologiche, o addirittura ottenere consenso tra i cittadini.
Condivido pienamente le parole dello scrittore Marc Bloch quando dice che le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento affinché il procedimento abbia luogo.
La dis-criminazione del vero dal falso è un tema di natura filosofica, e porta alla mia mente la memoria di letture giovanili quali i “Dialoghi Platonici”, il “Cratilo”, il  “Menone”, il “Teteeto”, in cui la complessità del discernimento è sottoposta alla metodologia della confutazione, affinché l’arte maieutica della levatrice possa lasciar venire alla luce la Verità.
Oggi è improponibile una riflessione ponderata, pensata, e condivisa pubblicamente: basti pensare come il servizio pubblico e privato mass-mediatico, per lo più, si serva di “urlatori televisivi” sostenuti da credenze e profitti di agenzie, tali da spersonalizzare quella radice umana, che, a differenza degli animali, dovrebbe costituirci come quelli che riesaminano ciò che hanno visto! Viviamo invece in una sorta di massiccia tele-dipendenza della morte, che viene resa all’opinione pubblica come fatto di cronaca, come una sorta di “guerra in diretta”, che molto ricorda le manipolazioni televisive della guerra in Kuwait, con l’unico scopo di produrre una tolleranza e una desensibilizzazione innanzi alla fine della nostra vita. Essa diventa oggi una questione legata a se una persona è morta per Covid o con il Covid, perdendo totalmente di vista i limiti, i confini della nostra esistenza.
Mai come oggi siamo affetti da gravi disturbi della percezione della realtà.
Ritengo che la socialità odierna da almeno mezzo secolo, a partire dal 68’ in poi, sia entrata in una iperbolica discesa, una caduta dei valori sociali, culturali, politici, meritocratici, implementando quello che un grande filosofo ed etnologo, Ernesto de Martino, già nel 1965 segnalava  in un celebre libro, che non poté pubblicare per la sua incipiente dipartita: “La Fine del Mondo – Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”.  In questo testo viene segnalata l’urgenza di una trasformazione del nostro costume ed orientamento culturale, quello di percepire l’altrui esistenza attraverso la presunta superiorità “Etnocentrica”,  verso una evoluzione “Critica” che rendesse possibile un passaggio storico: dal confronto delle culture alla cultura del confronto.
Monito rimasto inascoltato, e nessuno di noi può non riconoscere la reale e cocente denuncia di De Martino a distanza di 55 anni dalla  sua morte.
L’Asia, l’Africa, i paesi che abbiamo ritenuto essere inferiori alle nostre tecnologie e capacità di controllo onnipotente, per varie ragioni hanno determinato una crisi dell’Occidente che solo la Seconda Guerra Mondiale è stata capace di produrre. Certo, la pandemia del Covid-19  non ha avuto precedenti a causa della nostra cecità intellettuale, cosi come il cambiamento climatico, e sarà un evento le cui conseguenze potranno decretare un’estinzione di quell’essere che è “colui che riesamina ciò che ha visto!”.
Nonostante siano stati registrati nell’ultimo ventennio fenomeni epidemici rilevanti, legati prima alla Sars-Cov (2002), alla Mers-Cov (2012) e all’Influenza Aviaria, il mondo scientifico pare aver sottovalutato il rischio connesso ad ulteriori manifestazioni pandemiche. Non solo non si è fatto nulla per fronteggiare tali evenienze, ma addirittura l’OMS e tutto il mondo sanitario occidentale è stato impoverito di strumenti, risorse e possibili presidi operativi di verifica, in termini di Prevenzione. Non si tratta dunque di una guerra batteriologica di tipo complottistico, ma di una nostra cecità assoluta sulla fragilità umana e sulle vere necessità che dovrebbero essere affrontate, sempre che lo scotoma di un sistema post-consumistico feudatario mondiale possa essere non più considerato Il paradigma economico e sociale di cui abbiamo bisogno per vivere.
Passando dalle pandemie ai fenomeni storici, quante verità attendono da oltre 70 anni di essere finalmente resi fatti pubblici? L’assassinio di J. Kennedy, 

Moro, magistrati come Falcone e Borsellino, e mille altri che hanno offerto la loro vita per causa di servizio. Già, per causa di Servizio offrono la loro vita… Su questo la Psicoanalisi sostiene che si tratta di un disturbo legato al Masochismo Morale, ben curabile con una cura adeguata. Beh, i fatti di oggi ci dicono il contrario: i 77 medici morti non sono né eroi e né masochisti, ma professionisti non tutelati. Lo stato ha dichiarato, non oggi, ma negli ultimi decenni, la caduta del patto sociale, motivo per il quale un cittadino sacrifica parte del proprio narcisismo per un bene più prezioso, il bene collettivo.  René Kaes in Istituzione e Istituzioni ha segnalato come il funzionamento sociale è basato sul patto denegativo, il cui venir meno può rendere plausibile lo sgretolamento dello spirito di coesione del gruppo, del popolo, di uno Stato.
Ritorno a Socrate, dall’apologia che ne fa Platone, potremmo dire che anche egli è morto per causa di servizio. Certo, se avesse accettato e dichiarato la propria empietà avrebbe avuta salva la vita. Ma la verità sarebbe stata per sempre condannata al silenzio.
Speriamo che i tanti sacrifici, di cui la storia ci dà testimonianza, di persone famose, ma anche di tutti quelli che non lo sono stati, ma che silenziosamente hanno dato prova del proprio senso civico, rendano possibile che il prezzo pagato oggi sia non un debito con la  Comunità Europea, tra l’altro mai esistita se non come organismo mercenario-affaristico per i più abbienti,  ma un “credito” con le nostre classi dirigenti, che hanno trasformato la Sanità Italiana da una “fuoriserie”, una Ferrari, ad un’auto d’epoca il cui telaio è stato impoverito nel corso degli anni: prima è stato privato di tappezzeria, poi degli specchietti retrovisori, certo il motore è rimasto eccezionale, ma senza albero di trasmissione…Grazie a tutti coloro che hanno dato prova e testimonianza di volere riesaminare ciò che hanno visto, unica strada per scongiurare la falsità!



Armando Ciriello, Medico Psichiatra, Psicoterapeuta IIPG.

Riflessioni intorno e grazie a Covid-19 alias Sars/Cov 2 di Claudio Crialesi


Una premessa quasi una sintesi

La presenza del virus fa convivere strettamente paura & ansia. Se siamo adusi a distinguerle per caratterizzare la seconda (una paura senza oggetto reale, un simbolo personale) ora siamo in presenza di un evento reale imprevedibile e incontrollabile come ogni realtà, ma impalpabile e insidioso, punto di appoggio per angosce persecutorie e depressive.

La globalizzazione ha rivelato un lato oscuro e difese collettive, l'angoscia per l'estraneo, hanno rivelato la loro insufficienza. Vulnerabilità e mortalità, come un ritorno del rimosso, hanno invaso il campo emotivo, soggettivo e dei gruppi, con un effetto di riverbero e amplificazione. Una crisi della rappresentazione grandiosa dell'individuo post-moderno e iper-tecnologico.

La medicina e i suoi operatori hanno svelato un non-detto. La cura, come pratica empirica, nono-stante il supporto delle tecnologie medicali, non può aggirare le emozioni correlate al prendersi cura. Il procedere scientifico viene scandito da: esperienza, tentativi ed errori, cautela nel giungere a conclusioni. Stati mentali ansiogeni per un ambiente culturale pervaso da semplificazione, onnipotenza, eclissi dell'autorevolezza.

Il management politico-amministrativo chiede lumi alla scienza, ma non può dissimulare una necessità etica: responsabilità e scelta. L'umanità costretta ad incontrare sé stessa...
Se si moltiplicavano le descrizioni di un'ipertrofia dell'individuo sedotto dal discorso del capitalismo, ora ritroviamo persone denudate e deprivate di abitudini. Uno spazio possibile di pensiero o il vuoto angosciante che prelude a noia o altri affanni.

Entra in campo un altro gruppo specializzato, entro la società, quello degli psicoterapeuti e psicologi ora sedotti, ora arruolati se non entusiasti volontari. Professionisti ai quali l'immaginario sociale chiede di disinnescare lo “stress” (ansia, depressione), di neutralizzare il dolore mentale circolante.
Non basta rispondere con un rifiuto superficiale, ma occorre rendere pubblico quali risposte siano possibili. La psicologia che si occupa di persone con problemi (detta psicologia clinica) è per sua natura artigianale: lavora nel tempo necessario per apprendere dall'esperienza. 
Il ricorso a strumenti che godano di affidabilità (p.es. mindfulness o tecniche comportamentali) non può fare a meno della motivazione soggettiva o dell'accettare un percorso, seppur limitato, per acquisire delle competenze. 

Gli psichiatri vengono sollecitati in modo ambiguo, da un lato la rispettabilità che deriva dall'esser medici li rende autorevoli presso il gruppo dei colleghi e in ambiti sociali, dall'altro lato inducono diffidenza per occuparsi, in modo privilegiato, di persone con disturbi mentali.
Medici-psichiatri e psicologi sono investiti da attese-pretese con il pericolo di rendere opaco il confine sottile, ma dirimente, tra conoscere e risolvere un problema o eliminarlo. Nel primo caso la personalità si sviluppa e fortifica, nel secondo si perpetua l'incapacità a tollerare il dolore (W.R. Bion).
Resta appannaggio di tali sotto-gruppi specializzati sopportare richieste ambigue, intimamente contraddittorie. Si dovrà testimoniare con stoica trasparenza la capacità di offrire un aiuto a partire da una richiesta, una domanda, che sarà indagata insieme a chi l'ha posta.





§ 1    Sguardo psicosociale

La diffusione della produzione di merci, dei consumi e degli stili di vita ha disegnato una geografia dell'omologazione. Convivono l'emancipazione di intere popolazioni e una moltitudine di esclusi.
Economia, finanza, costruzione di infrastrutture sono intimamente associate alla tecnica come alla misurazione e riproducibilità. La potenza dispiegata dall'uomo ha indossato l'abito di una volontà di potenza che ha condotto a mutare i mezzi in fini alienati dalla necessità. La presunzione di potersi affidare a procedure e adempimenti ha invaso l'ambiente culturale e individuale. 

Il virus “Covid-19” ha in modo inatteso (traumatogeno ?) mostrato gli inconvenienti dell'inter-dipendenza planetaria. 
La paura dell'altro, se portatore di pericolo realistico, è stata una reazione iniziale quanto irriflessiva. Basti ricordare gli episodi, isolati, ma inquietanti, di ostilità o aperta aggressione nei confronti di cinesi residenti in Italia da molti anni. In seguito la stessa penisola italiana è divenuta oggetto di sospetto e repulsione quando pareva l'unico paese europeo avvicinato dal contagio (ricordiamo che virus in latino è traducibile come veleno!).
La xenofobia, col suo retaggio ancestrale, è stata dissolta da confini ormai porosi ad ogni presun-zione di controllo. Altra frustrazione per un pensiero semplificante alla ricerca di linee guida e protocolli da applicare. Veri esorcismi al cospetto di una realtà mai addomesticabile né resa muta servitrice.

Le misure intraprese dall'establìshment tecnico-politico hanno indotto una revisione del legame con l'autorità. Un oscuramento delle libertà individuali e il ritorno prepotente di decisioni verticistiche con riverberi ambigui nella tripartizione dei poteri statuali.
Una sorta di esperimento naturale. Esser costretti a maneggiare un evento inatteso e malsano ha reso omaggio alle necessità della biopolitica (M. Foucault). Si potevano percorrere sentieri alternativi ? In nome della libertà personale inviolabile si poteva o doveva lasciar libero corso alla diffusione del contagio con relativi decessi? Saremmo in grado di accettare questa prospettiva ?

Le misure di contenimento hanno uniformato comportamenti e livellato differenze, come se i cittadini fossero sollecitati ad esser “figli” e tra loro affratellati rispetto a chi si trovi a svolgere un ruolo genitoriale (legislatori). La modificazione delle consuetudini (lavoro, scuola, tempo libero) ha costretto a perdere abitudini che organizzavano l'esistenza. Il domicilio tornato spazio privilegiato di vita in quanto raccomandato anzi prescritto.
Non possiamo prevedere se o quanto l'evento malattia indurrà cambiamenti duraturi nelle condotte nonostante il parere di presunti esperti. 
Cerchiamo perimetri di riferimento e visioni rassicuranti... Una possibilità evolutiva risiede nell'accettare l'esposizione al divenire e alle sue incertezze senza disperante fatalismo.

§  2   Sguardo psicodinamico 

La psicoanalisi e la psicologia dinamica ci invitano a pensare emozioni che mettono alla prova la capacità di risposta ad un ammalarsi insidioso, disarmante. Come si trasmette ? Attraverso l'aria ? Per areosol diffuso dal nostro respirare e parlare ? Col contatto fisico ? Attraverso superfici non igienizzate ? Una morte per insufficienza respiratoria anzi per soffocamento...
L'emblema dell'angoscia: dal vagito al “gridasti soffoco” di Ungaretti. Siamo sicuri di trovarci al cospetto di un ospite sconosciuto? 
Si tratta solo di morire... Il suo diniego ha fallito e passeggia per le strade del pianeta il reale della morte.



Il contatto somatico, la relazione interpersonale come veicoli del negativo sollecitano l'angoscia e la colpa.
Essere aggrediti dal virus (persecutorietà), perdere sé stessi e le persone care (lutto o depressione), percepire l'altro con sospetto e ricorrere al controllo meticoloso, a restrizioni severe (ossessività fobica), cagionare morte (distruttività e colpa).
Il virus come minaccia incombente di dolore. Una forza distruttiva e disgregatrice dei legami (l'isolamento, la quarantena). Potente emblema anti-eros.

La turbolenza indotta da questi stati mentali sarà più o meno gestibile a partire dall'equilibrio 
interno raggiunto da ogni soggetto. La sua posizione esistenziale rispetto all'auto-stima, alla gestione dell'incertezza, al rapporto con aspetti distruttivi di sé e al grado di soddisfazione ricavata dai propri legami (intimità, tenerezza, genitalità).

La famiglia come gruppo primario può assumere il ruolo di appartenenza capace di alleviare le fatiche dell'individuo. Un nuovo tempo da condividere e nuove azioni da inventare (il clan). Sappiamo che può altresì esser luogo di patimento e invalidazione. Ambiguità, ambivalenze, conflitti prima sopiti, grazie alla loro dislocazione nella prassi quotidiana (le abitudini), possono riemergere e chiedere nuove sublimazioni.

La casa nella sua fisicità compendia vissuti stratificati. Il focolare, luogo riconoscibile e rassicu-rante, luogo atavico che protegge dai nemici, può assumere i connotati di una restaurata caverna per l'animale-uomo. La cultura come strumento di adattamento dissotterra retaggi primordiali, mentre la natura del virus fa risuonare il mondo interno (affiliazione, cura dei consanguinei, angosce primitive).

Dal vertice gruppale possiamo tentare di rendere pensabile la complessità nella quale siamo immersi. Nel piccolo gruppo sono noti i fenomeni di diffusione trans-personale e risonanza emotiva. Possiamo immaginare cosa possa accadere in gruppi sempre più vasti sino a comprendere un'intera nazione o più paesi costretti a trovare un modo per interagire. Il ruolo dell'establìshment si è rivelato insostituibile e non a caso, pur presenti delle infrazioni isolate, non si sono al momento verificate ribellioni plateali e organizzate. 
Il vertice tecnico-amministrativo-politico sta ricoprendo il ruolo di “capo” di una moltitudine (Freud di “Psicologia delle masse e analisi dell'Io”) che ha riconosciuto e legittimato tale posizione e allo stesso tempo validato un'identificazione tra ogni cittadino in vista del reciproco interesse (la sopravvivenza).

Alcuni professionisti della relazione d'aiuto (medici e infermieri) li possiamo considerare un gruppo specializzato all'interno della struttura sociale. Gruppo deputato a maneggiare emozioni incande-scenti per contrastare la malattia e scongiurare la morte. Comprensibile sia un gruppo sollecitato da potenti movimenti affettivi interni ed esterni. 
Il sociale più ampio attende risposte, l'esonero dai patimenti, l'etica professionale incontra il limite personale (umana fatica) e quello professionale. Si procede per tentativi ed errori, ragionando sulle strategie, per rendere replicabili le cure. Frustrazioni o delusioni possono affaticare il soggetto o diffondersi nel gruppo (traumi cumulativi?). Utile che la struttura sociale sia e resti benevola  nei confronti di chi incontra il contagio e non solo quello reale, ma anche quello emotivo.

Nella loro pratica medici e infermieri devono trattenere nel preconscio il senso umano del loro operare per proteggere un io professionale (efficienza). Questo spazio potrà divenire amorevole consapevolezza verso il malato che depura sentimenti di colpa, con  l'accettazione del limite oppure esser silenziato o rimosso. Giungono notizie furtive, dal non-detto relativo al decidere chi potrà esser curato e chi no, al funzionamento solidale dei gruppi di lavoro
A questi professionisti dobbiamo affidarci (asimmetria e dipendenza) grazie a loro sperimentiamo la fiducia. La gratitudine può circolare e rendere possibile una bonifica dei territori angoscianti e mortiferi prima dipinti a tinte espressioniste. 
Fiducia e speranza vanno protette e a questa esigenza risponde la necessità di contare guariti e dimessi dagli ospedali e non solo contagiati e deceduti. 

Una psicologia clinica che non si limiti a imitare la tecnica non potrà che offrire un “ascolto empatico”. 
Empatico come radicale capacità di decentrarsi da ogni pregiudizio o diagnosi per avvicinare l'altro-da-sé e raggiungere una nuda vita.
L'ascolto non si esaurisce nell'efficienza dell'udito, ma implica lasciare che nascano parole per rendere esplicito quanto non ancora espresso (capacità negativa e tolleranza del vuoto di Bion). 

Si potranno anche proporre strumenti per addomesticare ansia o tristezza o colpa, ricorrendo a pratiche legate all'evidenza empirica, ma se si vuol credere, e far credere, che psicologi e psicoterapeuti possano applicare algoritmi di cura siamo nella propaganda. 
Solo la prassi dell'incontro renderà comprensibile le esigenze personali, solo in un legame intersoggettivo transiteranno apprendimenti duraturi (le identificazioni del linguaggio psicoana-litico).

§  3   Setting e nuovi media    

I dispositivi informatici rendono possibile quanto prima impossibile e fantascientifico. Parlarsi, guardarsi, sentirsi vicini seppur lontani, condividere immagini e filmati, poter lavorare (smart work at home).
Ancora incerto se sapremo governare il valore d'uso di tali mezzi o rimanere sedotti dal loro volto onnipotente, perseguendo relazioni quantitative più che qualitative. Dispositivi veicolo di una potenza priva di saggezza e del feticcio della merce, ora si offrono come amabili servitori delle nostre necessità (lavoro, condivisione, contatto).

Con tali strumenti (internet, smartphone, e-mail) già da tempo si confrontano i professionisti  psichiatri, psicologi, psicoterapeuti. Dei mediatori che permettono di mantenere o avviare relazioni d'aiuto che ai tempi del coronavirus sono ostacolate. Un nuovo setting che merita qualche riflessione.

Le coordinate temporali (momento e durata dell'incontro) possono esser mantenute salvaguardando la funzione regolatrice del setting (la falsificazione degli aspetti processuali seguendo F. Codignola). Lo scenario percettivo può mutare: le sedute o i colloqui avvengono nello studio o ambulatorio del professionista oppure nell'abitazione ? Il paziente ha un luogo che gli permette di proteggere la riservatezza ? E' costretto o sceglie di cambiare ambiente fisico dell'incontro ? Nel lavoro di gruppo quali peculiarità o raccomandazioni ?

Il paziente mantiene la responsabilità di scegliere se aderire o meno alla proposta di un incontro in-remoto, può esser invitato ad impegnarsi nel mantenere o procurarsi e proteggere le coordinate spazio-temporali del setting. Fenomeni che potranno essere illuminati dall'indagare analitico e preziosa opportunità per entrare in contatto con aree mentali del paziente. Possiamo pensare ad un'iper-stimolazione percettiva dell'analista o psicoterapeuta nel divenire spettatore dei luoghi abitati dai suoi pazienti al confronto dell'ingresso di una persona nello suo spazio professionale.
Eppure anche questa evenienza non può essere etichettata come un accidente che contamini la possibilità di coglierne le intenzioni inconsapevoli.

Dalle testimonianza dei colleghi sembra emergere che l'accettazione serena dei collegamenti in-remoto, da parte del professionista, permetta di preservare l'assetto analitico e non alteri il valore del percorso di cura. A partire dal setting interiore (coordinate concettuali, formazione, capacità riflessiva) diverrà degno di attenzione ogni fenomeno relativo alla scena entro la quale è situato il paziente. Eppure restano dei quesiti. 

La fisicità dell'incontro viene sostituita da una rappresentazione e in questa sorta di veloce traduzione perdiamo qualcosa ? Se sì cosa ? Quanto perduto è irrimediabile ? O dobbiamo semplicemente accettarne la specificità ? Il flusso di identificazioni proiettive che rendono vivo e terapeutico il lavoro resta immutato ? La mimica, il tono della voce hanno la possibilità di esser catturate dalla videocamera, ma possono sollecitare teatralità o inibizioni ?

Resta il dato inoppugnabile del desiderio e disponibilità da parte di terapeuti e pazienti a non interrompere un legame sentito importante, utile, indispensabile (dal lato del paziente) e confermante il ruolo professionale (dal lato del terapeuta). Solo il dialogo franco e duraturo tra i colleghi permetterà di costruire utili congetture.

Importante precisare che il tema del setting è particolarmente caro alla tradizione psicoanalitica per l'utilizzo della relazione terapeutica, con i suoi riflessi transferali, mentre per gli indirizzi che privilegiano una soluzione al problema del paziente l'uso dei media elettronici è stato già sperimentato e dibattuto.


dr. Claudio Crialesi
Psicologo-Psicoterapeuta
crialesiclaudio@gmail.com