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Bathys e profundus : la dimensione dell'immersione e della profondità nella cultura classica greco latina di Mariano Grossi





Riccardo Bernardini scrive a pag. 62 del suo libro “Jung a Eranos. Il progetto della psicologia complessa” (Ed. Franco Angeli - Milano, 2011): “Psicologia del profondo. La terza prospettiva è quella della psicologia del profondo (Tiefenpsychologie). Il termine “profondo” deriva dal latino profundus, parola composta da pro, ”avanti”, e fundus, ”parte inferiore”, esso denota quindi un movimento verso ciò che sta in basso. Un suo equivalente greco è bathýs (βαθύς) termine che presenta analogie con l’arabo batin, ovvero il senso interiore, nascosto, invisibile delle Scritture e, in generale, delle cose”.


Mario Perniola ne ”La rivalutazione della nozione di “profondità” a pag. 212 esprime un’idea differente circa l’etimo del vocabolo latino: “… occorre capire perché mai i romani dicevano profundus e non molto più semplicemente fundus (come i tedeschi che dicono tief e gli inglesi che dicono deep). Fundus, tief e deep sono infatti affini tra loro: tutti derivano dalla radice indo-europea *dheu-b, o *dheu-p, che vuol dire fondo opposto a superficie. Perciò i filologi si sono chiesti: che cosa sta a fare quel pro- davanti a fundus? Ma che cosa vuol dire la proclitica pro in latino? Essa ha due significati: ”davanti” e “lontano”. Scartata la prima ipotesi che non vuol dire nulla di sensato, la chiave della soluzione sta nella seconda ipotesi: profundus vuol dire “lontano [è] il fondo”, cioè il fondo inteso come spazio smisurato, che inghiotte e divora e che non è suscettibile di misura, deve essere rimosso (questa è appunto la finissima spiegazione etimologica di P. Mantovanelli, ”Profundus. Studio di un campo semantico dal latino arcaico al latino cristiano”, cit., pag.20). In tutta la romanità perciò la parola profundus è sempre usata negativamente, come ciò che è senza fondo, e quindi non può essere misurato, e perciò si oppone all’ideale latino del modus, della misura. Per indicare un’estensione assai ampia in latino in alto o in basso, la quale è tuttavia sempre misurabile, i latini adoperavano la parola altus (che viene da alo, crescere). Profundus invece era un aggettivo estremo (privo perciò di superlativo), in cui era implicita una valutazione negativa. Mantovanelli prende in esame tutti gli usi della parola da Plauto fino agli scrittori cristiani: mai essa è usata come un elogio.”


Giova qui ricapitolare ed integrare la comparazione tra sanscrito, greco e latino della radice indoeuropea dell’idea dell’immersione tratta dal ”Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee” di Franco Rendich, nella misura in cui è importante rammentare quel che scriveva Friedrich Schlegel in “Über der Sprache und Weisheit der Indier”, 1808, libro I, cap. V pp. 64-65 e che qui sintetizziamo: ”Come dunque l’uomo sia pervenuto a quella grandezza riflessiva, è un altro problema; ma con quella stessa grandezza riflessiva, con la profondità e la nitidezza di spirito che nel concetto di grandezza riflessiva comprendiamo, c’è anche la lingua. Assieme alla capacità di intravedere coerentemente il significato naturale delle cose, alla acuta sensibilità per l’espressione originaria di ogni suono, che l’uomo per mezzo degli strumenti linguistici è in grado di produrre, fu dato anche il fine senso creativo che separò e unì le lettere, inventò, trovò e definì le sillabe significanti”. Poiché sono le sillabe significanti di nascita indoeuropea e protosanscrita l’origine delle radici verbali del sanscrito, del greco e del latino.

gah ”spingersi [h] nelle acque [gā],”immergersi”,”tuffarsi”


L’indoeuropeo ad un certo stadio della sua evoluzione coincise con il protosanscrito. E fu proprio nel Rg-Veda, la massima opera della letteratura sanscrita, che le mucche [gā], in quanto datrici di latte, furono viste come le nuvole che davano la pioggia e quindi metaforicamente come “acque celesti”(Cfr. F. Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, nota 229, pag.148)


Sanscrito                                                        Greco                                      Latino    


g=g                                                                    g=b                                         g=b


ā=ā                                                                     ā=a                                         ā=a


h=h                                                                   h=th/ph                                   h=pt                                


gāh,gāhate   ”tuffarsi”,     ”immergersi”
dha           ”immerso”
gāha             “profondità”
gāhitr           “tuffatore”
gahana        ”profondo”,
      ”acque profonde”,
                    ”oscurità
        impenetrabile di 
   acque”                
báptō    “immergere”, tuffare”
baptízō “immergere”, ”tuffare” báptisma “abluzione”, battesimo”baptistērion  ”piscina”, ”battistero”
nna  ”immersione di  colore”
baphē “immersione”              
báthos “profondità”   bathýs”profondo”    
bénthos “profondità del mare”

baptizo”immergersi”                    “aspergere”,”battezzare”    baptisma”abluzione”         “battesimo”                        baptismus”battesimo”                      
                                           batillum ”pala, badile, braciere portatile, setaccio,turibolo”


La radice del vocabolo greco che indica la profondità è: *baph rintracciabile anche in b£ptw io immergo, io tuffo, io mando a fondo, sempre dalla stessa base, con la trasformazione del tema del presente per effetto dello jod indoeuropeo (βαφ-jω) in pt.


Quella isognomonica latina è invece *fud reperibile in fundo, is, fudi, fusum, fundere . Il passaggio da fud, tema del perfetto, a fund, tema del presente, avviene come per altri verbi della 3^ coniugazione (fingo,is, finxi, fictum, fingere, oppure frango, is, fregi, fractum, frangere), per inserimento di un infisso nasale (n).


La presenza della preposizione pro nel composto profundo, is, fudi, fusum, fundere stressa la successione ovvero l’estensione nello spazio rimarcando perfettamente il sema individuato da Bernardini del moto verso il basso, ma soprattutto quello descritto da Perniola e Mantovanelli della lontananza dal fondo.


Il frequentativo - intensivo di βάπτω, βαπτίζω, nella valenza neotestamentaria indica l’immersione totale dello spirito nell’esperienza trascendente dell’incontro con la divinità (credo non molto distante dalla sfera psichica).


In greco la radice *baph parrebbe contenere una poliedricità del concetto di profondità, spaziante dalle metafore e dai traslati dei poeti e dei filosofi, al lessico geografico usato dagli storiografi, a quello matematico fino alla terminologia militare ovvero magica e anatomica. Eschilo nel Prometeo al verso 1029 parla di Ταρτάρου βάθος, profondità del Tartaro, l’oscuro baratro nel fondo dell’Ade, il sito dei morti, concetto terribilmente ctonio, ribadendo la sua ermeneutica abissale nei Persiani al verso 465, κακῶν βάθος, un abisso di mali; mentre Euripide verticalizza verso l’alto il suo concetto nella Medea al verso 1279 parlando di βάθος αἰθέρος, la profondità dell’aria; Platone nel Teeteto parla di profondità d’intelligenza mentre, in senso profondamente idrico, Senofonte nella Ciropedia, 7,5,8 parla di ποταμοῦ βάθος, la profondità di un fiume; nel Nuovo Testamento più volte τὸ βάθος indica, di per sé ed assolutamente, l’alto mare; invece Platone nella Repubblica, parlando di βάθους μετέχειν ci porta nel lessico meramente geometrico per sottolineare l’opposizione della profondità alla larghezza matematica; Senofonte nelle Elleniche trasferisce il vocabolo nel lessico militare parlando di στρατιᾶς βάθος, la colonna di un esercito e anche Tucidide, quando parla della disposizione incolonnata di un dispositivo schierato in armi, utilizza la locuzione modale ἐπὶ βάθος. Teocrito nell’Idillio 14 lo utilizza per indicare la profondità di una pozione (ἐν βάθει πόσιος); Erodoto ed Efippo lo usano per indicare quanto folti possano essere i peli della barba o dei capelli, parlando di βάθος τριχῶν e πώγωνος . Analogie polivalenti si trovano nell’uso dell’aggettivo βαθύς. Ma quest’ultimo, a differenza del latino profundus, non dovette essere considerato un aggettivo estremo, talché il comparativo ed il superlativo ne sono pienamente attestati (Platone nelle Leggi, 930 parla di βαθύτερα ἤθη “indole più seria e più grave”, mentre Eliano nella Varia Historia 2,36 usa il superlativo dell’avverbio riferendosi alla veneranda età di Socrate: Σωκράτης δὲ καὶ αὐτὸς βαθύτατα γηρῶν εἶτα νόσῳ περιπεσών, ἐπεί τις αὐτὸν ἠρώτησε πῶς ἔχοι, ῾καλῶj᾽ εἶπε ῾πρὸς ἀμφότερα: ἐὰν μὲν γὰρ ζῶ, ζηλωτὰς ἕξω πλείονας: ἐὰν δὲ ἀποθάνω, ἐπαινέτας πλείονας.᾿ “Socrate stesso invecchiando in maniera avanzatissima ed ammalatosi, quando gli chiedevano come stesse, rispondeva: ‘Bene in entrambi i casi: se vivo, avrò più seguaci, se muoio, più lodatori’ ”

La radice *baph, così versatile in greco, è presente anche in latino con una valenza apparentemente "ctonia" col termine batillum/vatillum, poi diventato "badile" in italiano, la pala, almeno per quanto si nota nell'uso di Varrone; ma le scaturigini solutrici delle problematiche, chiamiamole così, "sommersive", sembrano già astrologare altri concetti, diciamo, più liberatori; in effetti, per Plinio il Vecchio, il vatillum è la paletta da fuoco o lo scodellino con manico usato come una sorta di setaccio molecolare ed in Orazio diventa addirittura il turibolo, lo spargitore di incenso, una sorta di braciere portatile!


Cominciamo la nostra panoramica proprio da Orazio:


Horatius Sermones, I, 5,33-36


“Fundos Aufidio Lusco Praetore libenter

linquimus, insani ridentes praemia scribae,

praetextam et latum clavium prunaeque vatillum“


"Con sollievo lasciamo Fondi, dove fa il pretore Aufidio Lusco, ancora schiattati dalle risate per quello stupido scribacchino che ci accoglie bardato di toga pretesta, laticlavio, carboni ardenti e spargitore di incenso!"


Sintetizzando la nota di Mario Ramous a pag. 863 di Orazio ”Le opere”- Garzanti, 1988, Aufidio non era un pretore vero, ma si faceva chiamare così ed Orazio lo prende in giro; egli era un semplice duumvir, magistrato a capo del municipio locale; ovviamente gente come Orazio che viene dalla capitale (e ha dimenticato che anch’egli proviene dalla provincialissima Venosa), lo considera poco più che uno scribacchino; ma la cosa interessante è che il soggetto li aveva accolti in pompa magna con:

1. toga orlata di porpora dei magistrati curuli e di quelli municipali;

2. laticlavio, la larga striscia purpurea che ornava la parte anteriore della tunica dal collo ai ginocchi e distingueva i senatori;

3. pruna (i carboni ardenti per accendere le torce dei littori);

4. vatillum che è il turibolo, perché voleva celebrare un sacrificio in onore degli ospiti.


Nel 1828 Ludovico Desprez nel suo commento ad Orazio (Quinti Horatii Flacci Opera Interpretatione et Notis illustravit Ludovicus Desprez, Philadelphiae, ed. Joseph Allen, 1828) così chiosava:

“Prunaeque vatillum: tanta erat Aufidii insania, ut ante se ferri prunas in batillum, id est, foculo ansato et gestabili, iuberet, ad instar virorum principum et imperatorum, quibus praeferebatur eiusmodi ignis, summae auctoritatis ac potestatis index et insigne. Frustra quidam intelligunt vas parvum, in quo suffitus nempe fieret Iovi Hospitali, sive hospitibus et convivis.”


“Era così grande la dabbenaggine di Aufidio da ordinare di portare davanti a sé dei carboni ardenti in un turibolo,cioè per mezzo di un piccolo braciere portatile,come i nobili uomini principi e imperatori cui veniva portato innanzi analogo fuoco, indice e segno di massima autorità e potestà. Invano alcuni lo intendono come un piccolo vaso in cui evidentemente venivano fatti suffumigi purificatori a Giove Ospitale o piuttosto agli ospiti e commensali”


Nel commento di Celestino Massucco alle Opere di Orazio, edito per la Bonfanti Editrice nel 1830 si leggeva:

“Batillum. E’questo il diminutivo di batinum, che significa propriamente una paletta da fuoco, o anche una semplice pala di legno. Si usava però anche per braciere e per profumiere. Erodiano dice che l’imperatore Commodo lasciò a sua sorella Lucilla, vedova dell’imperatore Lucio Vero, i medesimi onori, de’ quali godeva vivente il marito, tra i quali onori segna quelli di assidersi sulla sedia imperiale nel teatro, e di farsi portare dinanzi un braciere, ossia un profumiere (καὶ γὰρ ἐπὶ βασιλείου θρόνου καθήστο ἐν τοῖς θεάτροις καὶ τὸ πῦρ προεπόμπευεν αὐτῆς Erodiano, I, 8, 4). Questo era certamente l’uso di tutti i grandi d’Oriente, che tuttavia lo conservano. Doma l’Asia, passò in uso ai Romani colle altre delizie di quella gente, e se solamente al tempo degli imperatori si introdusse da essi il costume di farsi portar dinanzi il profumiere, prima d’allor praticavasi nelle case de’ grandi di averne nelle lor sale, e i profumieri avevano luogo nelle loro credenze, come lo hanno anche adesso in quelle de’ Principi e de’ grandi Prelati. Venendo al Pretore Aufidio, pieno egli di vanità, marciava sempre colla pretesta e col laticlavo, come se fosse nel tribunale, e o facevasi portare innanzi un braciere di fuoco per abbruciarvi degli odori, siccome vuole Casaubuono, o come ad altri pare, ricevuto aveva Mecenate e i compagni con un profumiere davanti, come se fosse un grande signore, rendendosi così ridicolo a quella truppa di illustri personaggi avvezzi alle grandezze di Roma.”

Dunque vatillum, radice *baph, prende funzioni sacrali, aspersorie e quindi la valenza a tutta prima interrante pare decolorarsi.

Vediamo come lo usa Plinio il Vecchio nella ”Naturalis Historia”. Libro 33, Paragrafi 123-164

“Argenti duae differentiae. vatillis ferreis caedentibus ramento inposito, quod candidum permaneat, probatur. proxima bonitas rufo, nulla nigro. sed experimento quoque fraus intervenit. servatis in urina virorum vatillis inficitur ita ramentum obiter, dum uritur candoremque mentitur. est aliquod experimentum politi et in halitu hominis, si sudet protinus nubemque discutiat.”

“Due le differenze dell'argento. Messa una scaglia su palette di ferro che scindono, ciò che resta bianco, è apprezzato. La successiva qualità per quello rosso, nessuna per il nero. Ma anche con la prova interviene l'inganno. Con le palette conservate nell'urina degli uomini la scaglia viene così momentaneamente alterata, mentre si brucia ed è simulato il candore. C'è una certa prova della purezza anche nell'alito dell'uomo, se subito trasuda e dissolve il vapore.”

Come può notarsi, il vatillum qui ha una funzione separatoria, una sorta di attrezzo da farmacista per scevrare le varie qualità di argento. Dunque la funzione meramente scavatrice è nettamente superata, onde corroborare la tesi della funzione purificatrice della base radicale *baph

Vediamo infine che uso ne fa Varrone nel ”De Re Rustica”, I, 50:

”Altero modo metunt, ut in Piceno, ubi ligneum habent incurvum batillum, in quo sit extremo serrula ferrea, haec cum comprehendit fascem spicarum, desecat et stramenta stantia in segete relinquit, ut postea subsecetur”

“Nel Piceno si miete in un’altra maniera, adoperandosi una pala di legno incurvata, nella cui estremità si mette una seghetta di ferro. Con questa si prende un fascio di spighe, si tagliano e si lasciano in piedi sopra il terreno le paglie per esser poi tagliate rasente terra.”

E Giangirolamo Pagani chiosava in nota al batillum varrroniano:

“Gesnero è persuaso che questa pala non sia molto differente da quella che Varrone nel libro III capitolo 6°, vuole che si adoperi per raccogliere il letame”.

Dunque *baph parrebbe radicale di attrezzatura molto poco ctonia e sotterranea, bensì di utensili atti a scevrare i prodotti della terra da essa cogliendone i frutti, con funzione prettamente produttrice e generatrice che sottende un vitalismo incoercibile. “Alii serunt, alii metunt” può essere interpretato dunque proprio nel senso meccanico letterale: ”C’è chi sotterra e chi raccoglie il frutto dell’interramento”. Il batillum varroniano sembra aver proprio questa funzione!

E. Saglio nel “Dictionnaire des Antiquitès Grecques et Romaines” ricapitola così quanto soprariportato :

BATILLUM ou VATILLUM. — Petite pelle à manche court. Quelle que soit la diversité des emplois indiqués par les auteurs pour des objets semblables, ils se rapportent tous à cette définition. Varron donne ce nom à un instrument servant à enlever le fumier dans une volière de paons; d'autres appellent ainsi une pelle à feu, pouvant contenir des charbons et au besoin servir de réchaud pour brûler des matières odoriférantes. L'exemple ci-joint, d'après un modèle trouvé à Pompéi montrera comment le même objet pouvait avoir cette double destination. Pline dit aussi que l'on faisait l'essai des métaux sur des batilla en fer, ce qui peut s'entendre des pelles dont il vient d'être parlé, ou encore d'une éprouvette comme celle qui est représentée d'après un bas-relief où cet objet se trouve placé à côté d'un sac de monnaie.

Sullo stesso orientamento, da www.latinlexicon.org apprendiamo:

batillum, batilli (vatillum, vatilli) BATILLUM, VATILLUM, BATILLUS – noun (n. 2nd declension): A shovel, a fire-shovel, coal-shovel, dirt or dungshovel – A fire-pan, chafing-dish, fumigating-pan, incense-pan.- batillum (in MSS. also vatillum),i, n. (batillus),i, m. Marc. Emp. 27). A shovel, a fire-shovel, coal-shovel, dirt or dungshovel, etc.: batilli ferrei, Plin. 33, 8, §127; 34, 11, 26, §112; Treb. Pol.Claud.14; Varr.R.R.3, 6, 5.;


A fire-pan, chafing-dish, fumigating-pan, incense-pan: prunae batillum,*Hor. S. 1,5,36 (Jahn, K. and H. vatillum).

Cerchiamo appunto in Trebellio Pollione, nel capitolo dell’Historia Augusta dedicato al Divus Claudius (testo tratto dalla Loeb Classical Library edito nel 1932) l’ulteriore citazione di vatillum:


“Nunc ad iudicia principum veniamus, quae de illo a diversis edita sunt, et eatenus quidem ut appareret quandocumque Claudium imperatorem futurum.


Epistula Valeriani ad Zosimionem, procuratorem Syriae: “Claudium, Illyricianae gentis virum, tribunum Martiae quintae legioni fortissimae ac devotissimae dedimus, virum devotissimis quibusque ac fortissimis veterum praeferendum. huic salarium de nostro privato aerario dabis annuos frumenti modios tria milia, hordei sex milia, laridi libras duo milia, vini veteris sextarios tria milia quingentos, olei boni sextarios centum quinquaginta, olei secundi sextarios sescentos, salis modios viginti, cerae pondo centum quinquaginta, feni, paleae, aceti, holeris, herbarum quantum satis est, pellium tentoriarum decurias triginta, mulos annuos sex, equos annuos tres, camelas annuas decem, mulas annuas novem, argenti in opere annua pondo quinquaginta, Philippeos nostri vultus annuos centum quinquaginta et in strenis quadraginta septem et trientes centum sexaginta. item in cauco et scypho et zema pondo undecim. tunicas russas militares annuas duas, sagochlamydes annuas duas, fibulas argenteas inauratas duas, fibulam auream cum acu Cyprea unam. balteum argenteum inauratum unum, anulum bigemmem unum uncialem, brachialem unam unciarum septem, torquem libralem unum, cassidem inauratam unam, scuta chrysographata duo, loricam unam, quam refundat. lances Herculianas duas, aclides duas, falces duas, falces fenarias quattuor. cocum, quem refundat, unum, mulionem, quem refundat, unum, mulieres speciosas ex captivis duas. albam subsericam unam cum purpura Girbitana, subarmalem unum cum purpura Maura. notarium, quem refundat, unum, structorem, quem refundat, unum. accubitalium Cypriorum paria duo, interulas puras duas, fascias viriles duas, togam, quam refundat, unam, latum clavum, quem refundat, unum. venatores, qui obsequantur, duo, carpentarium unum, curam praetorii unum, aquarium unum, piscatorem unum, dulciarium unum. ligni cotidiani pondo mille, si est copia, sin minus, quantum fuerit et ubi fuerit; coctilium cotidiana vatilla quattuor. balneatorem unum et ad balneas ligna, sin minus, lavetur in publico. iam cetera, quae propter minutias suas scribi nequeunt, pro moderatione praestabis, sed ita ut nihil adaeret, et si alicubi aliquid defuerit, non praestetur nec in nummo exigatur. haec autem omnia idcirco specialiter non quasi tribuno sed quasi duci detuli, quia vir talis est ut ei plura etiam deferenda sint."

Di seguito la traduzione a fronte della stessa casa editrice Loeb:

Let us now proceed to the opinions that many emperors expressed about him, and in such wise, indeed, that it became apparent that he would some day be emperor.


A letter from Valerian to Zosimio, the procurator of Syria: "We have named Claudius, a man of Illyrian birth, as tribune of our most valiant and loyal Fifth Legion, the Martian, for he is superior to all the most loyal and most valiant men of old. By way of supplies you will give him each year out of our private treasury three thousand pecks of wheat, six thousand pecks of barley, two thousand pounds of bacon, three thousand five hundred pints of well-aged wine, one hundred and fifty pints of the best oil, six hundred pints of oil of the second grade, twenty pecks of salt, one hundred and fifty pounds of wax, and as much hay and straw, cheap wine, greens and herbs as shall be sufficient, thirty half-score of hides for the tents; also six mules each year, three horses each year, fifty pounds of silverware each year, one hundred and fifty Philips, bearing our likeness, each year, and as a New-year's gift forty-seven Philips and one hundred and sixty third-Philips. Likewise in cups and tankards and pots eleven pounds. Also two red military tunics each year, two military cloaks each year, two silver clasps gilded, one golden clasp with a Cyprian pin, one sword-belt of silver gilded, one ring with two gems to weigh an ounce, one armlet to weigh seven ounces, one collar to weigh a pound, one gilded helmet, two shields inlaid with gold, one cuirasse, to be returned. Also two Herculian lances, two javelins, two reaping-hooks, and four reaping-hooks for cutting hay. Also one cook, to be returned, one muleteer, to be returned, two beautiful women taken from the captives. One white part-silk garment ornamented with purple from Girba, and one under-tunic with Moorish purple. One secretary, to be returned, and one server at table, to be returned. Two pairs of Cyprian couch-covers, two white under-garments, a pair of men's leg-bands, one toga, to be returned, one broad-striped tunic, to be returned. Two huntsmen to serve as attendants, one waggon-maker, one headquarters-steward, one waterer, one fisherman, one confectioner. One thousand pounds of fire-wood each day, if there is an abundant supply, but if not, as much as there is and wherever it is, and four braziers of charcoal each day. One bath-man and firewood for the bath, but if there is none, he shall bathe in the public bath. All else, which cannot be enumerated here because of its insignificance you will supply in due amount, but in no case shall the equivalent in money be given, and if there should be a lack of anything in any place, it shall not be supplied, nor shall the equivalent be exacted in money. All these things I have allowed him as a special case, as though he were not a mere tribune but rather a general, because to such a man as he an even larger allowance should be made."

Dunque Valeriano ordina a Zosimio, procuratore della Siria, di fornire a Claudio, nominato da lui tribuno della 5^ Legione, a titolo di sussidio, tra l’altro, quattro bracieri di carbonella al giorno.

Questa carrellata sui reperti documentali relativi a batillum ci consente di dedurne una funzione decisamente attiva, vitalistica e ribaltatrice nella radice fondante del vocabolo; sono come qualmente attrezzature che hanno stretto legame coll’elemento vivificatore del fuoco che storicamente ha funzione sacrale e rigeneratrice; questo per quanto ha tratto con le accezioni del braciere ovvero del turibolo. Ma anche l’accezione varroniana e quella pliniana della pala fanno balenare dichiaratamente una valenza produttiva e scevrante, vuoi nell’utilizzo tipicamente agricolo, vuoi in quello alchemico.

La sua connessione col concetto di profondità, che appare marcata nel greco, viene comunque garantita dalla morfologia di tali attrezzature, sia riferendosi al braciere o al turibolo, che garantiscono la funzione combustiva in virtù della loro concavità, sia in relazione alle pale di cui parlano Varrone e Plinio, arnesi che si sviluppano appunto in lunghezza e comunque manovrati verso il basso.

Chiuderemmo la rassegna sul tema della profondità con un riferimento storico-mitologico-topografico che ci rimanda a Virgilio; la descrizione dell’approdo di Enea sulle sponde italiche delinea un sito di per sé naturalmente orientato allo sviluppo in profondità:

"Crebrescunt optatae aurae portusque patescit
iam propior templumque apparet in arce Minervae.
Vela legunt socii et proras ad litora torquent.
Portus ab euroo fluctu curvatus in arcum;
obiectae salsa spumant aspergine cautes,
ipse latet: gemino demittunt bracchia muro
turriti scopuli refugitque ab litore templum."

"Crescono le brezze sperate, e già il porto si apre
ormai vicino, e sulla rocca appare il tempio di Minerva.
I compagni raccolgono le vele e volgono a riva le prue.
Il porto è curvato ad arco dal flutto orientale;
le rocce protese spumeggiano di spruzzi salmastri;
ma esso è a riparo: turriti scogli abbassano
le braccia in duplice muro, e il tempio s'addentra dalla riva."

Con questi versi, Virgilio nell'Eneide (III, 530-536) descrive il primo approdo di Enea in Italia. Secondo fonti antiche, tale descrizione si riferisce all'insenatura che in italiano oggi ha il nome di Porto Badisco; Francesco Pepe su www.puglialand.com collima con noi: ”Il termine “badisco” deriva dal greco e significa profondo, infatti, si tratta del punto finale di una depressione compresa tra i centri di Poggiardo, Palmariggi e Otranto”. Λιμὴν Βαθίσκος, Portus Badiscus è davvero un’opera di badile operata dal mare nelle rocce della splendida costa salentina.

Vediamo ora se da un’analoga panoramica sull’uso della radice isognomonica latina, presente in profundus si ricava la stessa poliedricità riscontrata in quella greca. Innanzitutto a differenza del sostantivo greco βάθος così molteplicemente attestato, quello latino profunditas, si trova solamente in Macrobio, nel IV secolo d.C.. Molto più utilizzato è l’aggettivo corrispondente; nel lessico idrografico lo attesta Cicerone Pro Plancio, 15 in mare profundum con una similitudine riferita alle onde dei comizi che ribollono appunto come un mare profondo ed immenso; in senso orografico Livio Ab Urbe condita, XVIII, 23, parla di profundae altitudinis convalles; Virgilio ne predilige l’uso metaforico sia in chiave ctonia (Eneide IV, 26 nox profunda, la tenebra infernale, ovvero nel I libro delle Georgiche Manes profundi, le anime dell’Averno) che in chiave eterea (Ecloga IV, 51 caelum profundum); l’idea della densità connessa col mistero si evidenzia in Lucrezio che nel De Rerum Natura V, 42 parla di profundae silvae, le foreste dense e cariche di vegetazione (o come intendeva Johann Friedrich Reitz nel suo commento alle opere di Luciano, per esprimersi de dimensione horizontali) nonché in Apuleio che parlando di somnus profundus nelle Metamorfosi crea il calco del βαθὺς ὕπνος di Teocrito (interessante in tal senso sarebbe approfondire la ricerca di Mirko Deanovic che ha parlato diffusamente di queste sovrapposizioni semantiche tra le due lingue nel suo articolo “Sul carattere mediterraneo della parlata di Ragusa”); la figuratività ed i traslati riscontrati nell’uso poetico e filosofico del termine sono analogamente rinvenibili in latino: Cicerone Contra Pisonem, 20 parla di profundae libidines per indicare l’abisso delle passioni, così come Sallustio Bellum Jugurthinum LXXXI di profunda avaritia per indicare l’insaziabilità dei Romani secondo la visione infiammata di Giugurta, mentre Orazio Carmina IV, 2 vv.7-8 per descrivere lo spessore dell’impeto pindarico dice ruit profundo Pindarus ore, letteralmente “si slancia Pindaro con bocca profonda”, con riferimento alla capacità del poeta di confezionare parole composte e dunque complesse da pronunciare per gli organi fonatori.

L’aggettivo sostantivato profundum,i, neutro della seconda declinazione, ribadisce la valenza negativa delineata da Perniola ad inizio capitolo: “Quis enim ignorat, si plures ex alto emergere velint, propius fore eos quidem ad respirandum, qui ad summam iam aquam adpropinquent, sed nihilo magis respirare posse quam eos, qui sint in profundo?”; esse in profundo per Cicerone De Finibus 04, 21-25 significa “essere in fondo all’acqua, nell’abisso”, mentre nel Digesto XXXII, De Legatis la stessa espressione significa “essere ignoto": hae res testatoris legatae quae in profundo esse dicuntur, quandoque apparuerint, praestantur; Tacito, Agricola 25 dice: ac modo silvarum ac montium profunda, modo tempestatum ac fluctuum adversa, hinc terra et hostis, hinc victus Oceanus militari iactantia compararentur. “venivano raffrontati con spacconeria militaresca adesso i profondi recessi delle selve e dei monti, adesso le avversità delle tempeste e delle onde di qua la terra e il nemico, da là l’Oceano battuto”. Mentre la stessa valenza assoluta per il mare aperto riscontrata in tÕ b£qoj nel Nuovo Testamento ritroviamo in Virgilio, Eneide XII 263-264 Petet ille fugam penitusque profundo vela dabit,”egli fuggirà via e metterà le vele in mare aperto” Manilio Chiromantia, Astrologia V lo usa per indicare l’incommensurabilità del cielo (quarta profundum coeli, angulus terrae, domus parentum) ricalcando il βάθος αἰθέρος di Euripide in Medea 1279. Cicerone Academica Priora. 2, 10, 32: “Democritus (dixit) in profundo veritatem esse demersam,” vuol significare l’abisso interiore in cui si nasconde la verità, tenendola completamente celata. Valerio Massimo 2, 10, 6 in profundum ultimarum miseriarum abjectus vuol indicare il precipizio di un abisso di sventure.

Ricapitolando, ci troviamo davanti a due radicali, *baph e *fud, che travalicano il concetto dell’interramento, riservato nelle due lingue ad altre radici, precisamente quelle rintracciabili rispettivamente nei verbi θάπτω e sepelio, specificamente riservate allo scavo ctonio per la deposizione delle entità organiche.

E sembra cogliere nel segno Perniola individuando in profundus un valore misterico ed estremo che ne negativizza il sema nella misura in cui non ne vengono attestati usi al superlativo (questa tendenza è del resto confermata in italiano, laddove le attestazioni del superlativo sono circoscrivibili a rarissimi casi, uno dei quali quello pregnantissimo in funzione ossimorica dell’Infinito di Leopardi

Sempre caro mi fu quest'ermo colle

e questa siepe, che da tanta parte

dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quïete

io nel pensier mi fingo, ove per poco

il cor non si spaura.


L’incommensurabilità dell’abbandono determinato da quell’annullamento nell’eterno è scaturigine di turbamento per il poeta! Come precipitarsi in una voragine il cui termine pare non arrivare mai!

Altrettanto interessante è rilevare la valenza misterica data all’immergibilità nei due lemmi, poiché si è avuto modo di notare che sia in greco che in latino entrambi sono attestati per indicare in maniera assoluta gli abissi marini.

Ma gli esempi riportati in greco per βάθος e βαθύς dissimilano la radice greca dalla statica negatività di quella latina, così ben delineata da Perniola e perfettamente intuita da Guglielmo Campione a pag. 41 della prima edizione del suo libercolo “Immergersi nella mente, immergersi nel mare - L’immersione come metafora psichica”, (Ed. Mediaterraneum, 2015: “Questa ambivalenza di sentimenti negativi e positivi si trova nella semantica antica: l’idea di profondità implicita nel pensiero greco arcaico che utilizza la parola bathýs sta ad indicare un che di positivo, sinonimo di folto, fitto, ricco, spesso del tutto diverso dal significato negativo che i latini attribuivano alla parola profundus, intesa invece come mancanza di misura, smodato, fondo, come spazio vuoto smisurato in grado di inghiottire e divorare uomini e navi”.

Sintomaticamente l’uso nel lessico geometrico e le attestazioni dei comparativi e dei superlativi connettono la radice greca proprio al concetto di misura, quella che la latina aprioristicamente esclude!

Ed è forse proprio la nozione misteriosa turbativa il motivo per cui le due radici non vengono attestate nell’indicare coloro i quali erano immersori subacquei professionali. La prima attestazione in tal senso parrebbe rintracciabile in Omero, Iliade, XVI nel passo della morte di Cebrione, auriga di Ettore, per mano di Patroclo (vv.726 -750):

Ὣς εἰπὼν ὃ μὲν αὖτις ἔβη θεὸς ἂμ πόνον ἀνδρῶν,
Κεβριόνῃ δ' ἐκέλευσε δαΐφρονι φαίδιμος Ἕκτωρ
ἵππους ἐς πόλεμον πεπληγέμεν. αὐτὰρ Ἀπόλλων
δύσεθ' ὅμιλον ἰών, ἐν δὲ κλόνον Ἀργείοισιν
ἧκε κακόν, Τρωσὶν δὲ καὶ Ἕκτορι κῦδος ὄπαζεν.
Ἕκτωρ δ' ἄλλους μὲν Δαναοὺς ἔα οὐδ' ἐνάριζεν·
αὐτὰρ ὃ Πατρόκλῳ ἔφεπε κρατερώνυχας ἵππους.
Πάτροκλος δ' ἑτέρωθεν ἀφ' ἵππων ἆλτο χαμᾶζε
σκαιῇ ἔγχος ἔχων· ἑτέρηφι δὲ λάζετο πέτρον
μάρμαρον ὀκριόεντα τόν οἱ περὶ χεὶρ ἐκάλυψεν,
ἧκε δ' ἐρεισάμενος, οὐδὲ δὴν χάζετο φωτός,
οὐδ' ἁλίωσε βέλος, βάλε δ' Ἕκτορος ἡνιοχῆα
Κεβριόνην νόθον υἱὸν ἀγακλῆος Πριάμοιο
ἵππων ἡνί' ἔχοντα μετώπιον ὀξέϊ λᾶϊ.
ἀμφοτέρας δ' ὀφρῦς σύνελεν λίθος, οὐδέ οἱ ἔσχεν


ὀστέον, ὀφθαλμοὶ δὲ χαμαὶ πέσον ἐν κονίῃσιν
αὐτοῦ πρόσθε ποδῶν· ὃ δ' ἄρ' ἀρνευτῆρι ἐοικὼς
κάππεσ' ἀπ' εὐεργέος δίφρου, λίπε δ' ὀστέα θυμός.
τὸν δ' ἐπικερτομέων προσέφης Πατρόκλεες ἱππεῦ·
ὢ πόποι ἦ μάλ' ἐλαφρὸς ἀνήρ, ὡς ῥεῖα κυβιστᾷ.
εἰ δή που καὶ πόντῳ ἐν ἰχθυόεντι γένοιτο,
πολλοὺς ἂν κορέσειεν ἀνὴρ ὅδε τήθεα διφῶν
νηὸς ἀποθρῴσκων, εἰ καὶ δυσπέμφελος εἴη,
ὡς νῦν ἐν πεδίῳ ἐξ ἵππων ῥεῖα κυβιστᾷ.
ἦ ῥα καὶ ἐν Τρώεσσι κυβιστητῆρες ἔασιν.


Disse; e di nuovo il Dio nel travaglioso
conflitto si confuse. In sé riscosso
Ettore al franco Cebrïon fe' cenno
di sferzargli i destrieri alla battaglia:
ed Apollo per mezzo ai combattenti
scorrendo occulto seminava intanto
tra gli Achei lo scompiglio e la paura,
e fea vincenti col lor duce i Teucri.
Sdegnoso Ettorre di ferir sul volgo
de' nemici, spingea solo in Patròclo
i gagliardi cavalli, e ad incontrarlo
diè il Tessalo dal cocchio un salto in terra
coll'asta nella manca, e colla dritta
un macigno afferrò aspro che tutto
empiagli il pugno, e lo scagliò di forza.
Fallì la mira il colpo, ma d'un pelo;
né però vano uscì, ché nella fronte
l'ettòreo auriga Cebrïon percosse,
tutto al governo delle briglie intento,
Cebrïon che nascea del re troiano
valoroso bastardo. Il sasso acuto
l'un ciglio e l'altro sgretolò, né l'osso
sostenerlo poteo. Divelti al piede
gli schizzâr gli occhi nella sabbia, ed esso,
qual suole il notator, fece cadendo
dal carro un tòmo, e l'agghiacciò la morte.
E tu, Patròclo, con amari accenti
lo schernisti così: Davvero è snello
questo Troiano: ve' ve' come ei tombola
con leggiadria! Se in pelago pescoso
capitasse costui, certo saprebbe
saltando in mar, foss'anche in gran fortuna,
dallo scoglio spiccar conchiglie e ricci
da saziarne molte epe: sì lesto
saltò pur or dal carro a capo in giuso.
Oh gli eccellenti notator che ha Troia!

Partendo dalla citazione del passo dell'Iliade, parrebbe che né Greci né Latini usassero i radicali *baph e *fud, quelli cioè di baqÚj e profundus per indicare i primi immersori subacquei, poiché i termini individuati sottolineano prima di tutto il motus sub undas, vale a dire i verbi ἀρνεύω e κυβιστάω e la derivazione latina urinator. ἀρνευτήρ diventa in latino urinator ; il verbo base è ἀρνεύω che significa saltello, balzo, salto, m’immergo, mi tuffo ed è attestato in Licofrone nel significato di saltare (Alessandra, 465 “Profferì una preghiera ben ascoltata facendo saltellare sulle sue braccia la piccioletta aquila”) e sprofondare (Alessandra ,1103 ma sprofonderà sotto il caldo coperchio del tino e col cervello spruzzerà la caldaia”). ἀρνευτήρ è attestato con l’accezione di saltimbanco nel Mimiambo VIII di Eronda al verso 42 e come sommozzatore sia in Omero che in Arato, nei Fenomeni al verso 656.

Κυβιστητῆρες deriva da κυβιστάω il verbo della cubista, di colei che salta e balla a capo fitto, facendo capitomboli e capriole; a indicare la posizione di chi s’incurva per slanciarsi; la radice è appunto quella che si trova nell’aggettivo κυφός che in latino diventa gibbus e in italiano gobbo. In sanscrito kubhanyuh vuol dire appunto “danzante”; Omero usa il verbo più volte per indicare il movimento del salto, con riferimento ai pesci: ἰχθύες κατὰ καλὰ ῥέεθρα κυβίστων, “i pesci saltavano nelle belle correnti” si legge in Iliade XXI, 354; Platone, Convivio, 190 riporta οἱ κυβιστῶντες εἰς ὀρθὸν τὰ σκέλη περιφερόμενοι κυβιστῶσι κύκλω “i saltimbanchi a gambe levate danzano in cerchio”.

Vi è un altro verbo che frequentemente indica in greco antico l’immergersi, ed è δύω, attestato in Omero, Iliade, XVIII 140: Teti sollecita le sorelle marine con queste parole: ὑμεῖς μὲν νῦν δῦτε θαλάσσης εὐρέα κόλπον, “voi immergetevi nel largo seno del mare”. La radice indica comunque omnicomprensivamente l’idea del finire sotto e rendersi invisibili agli occhi altrui, usata com’è anche per il tramonto del sole e per l’idea di morte; questo concetto della sparizione alla vista altrui corrobora nell’idea dell’esperienza subacquea di Scillia, il quale dovette sparire per lungo tempo alla vista dei Persiani immergendosi in acqua, come narra Erodoto nelle Storie al libro VIII capitolo 8, indicandolo come δύτης: “Durante tale operazione Scillia di Scione (era il miglior palombaro di allora), arruolato fra le loro truppe e nel naufragio del Pelio aveva salvato ai Persiani molte ricchezze e di molte si era personalmente appropriato) aveva intenzione, già da tempo, di passare ai Greci, ma non ne aveva avuto mai occasione fino a quel momento. In che modo sia poi giunto fra i Greci non sono in grado di dirlo con certezza; ma sarebbe stupefacente se fosse vero ciò che si racconta e cioè che si sia tuffato in mare ad Afete, per riemergere solo all'Artemisio, dopo aver attraversato sott'acqua qualcosa come ottanta stadi! Su quest'uomo circolano anche vari aneddoti che hanno l'aria di essere falsi e qualche altro che è vero; nel nostro caso mi si consenta l'opinione che sia giunto all'Artemisio su di una barca. Appena arrivato, subito riferì agli strateghi notizie sul naufragio e sul periplo delle navi intorno all'Eubea.”


Altra radice immersiva ritroviamo in Tucidide, 4, 26 laddove si parla di κολυμβηταί, sommozzatori che avrebbero portato aiuto agli Spartani durante l’assedio di Pilo trascinando con sé degli otri sotto la superficie dell’acqua: ”Vi entravano ancora dei palombari in direzione del porto, tirando con una corda degli otri contenenti papavero melato e linseme gramolato; cosa che all’inizio restò nascosta, ma poi furono messe le guardie: insomma s'ingegnavano dopo tutto gli uni di portar viveri, gli altri di scoprirlo.” Il termine si ritrova anche in Platone Protagora 350: "Sai chi sono quelli che con audacia si gettano nei pozzi (εἰς τὰ φρέατα κολυμβῶσιν)?" "Sì, i palombari (οἱ κολυμβηταί) "."Lo fanno poiché sono capaci o per qualche altro motivo?" "Perché sono capaci". Mentre Eschilo, Supplici, 408 usa il termine κολυμβητήρ: “Il pensare profondo che è salvezza, l’occhio terso (che il vino non offusca) del palombaro quando s’inabissa (κολυμβητῆρος ἐς βυθὸν μολεῖν) ”. Proprio quest’ultimo termine reperibile in Eschilo, βυθός. l’abisso, ci fornisce un’affinità radicale con l’oggetto primario della nostra ricerca (τὸ βάθος) riferito com’è comunque sempre ad un’idea di fondo presente e omnicomprensivamente misurabile, poiché i tragici lo usano in maniera assoluta per indicare il fondo del mare (στένει βυθός, “geme l’abisso marino” dice Eschilo nel Prometeo, 432).

Ad ogni buon conto tra tutte queste radici, l’unica che pare documentatamente indicare l’idea dell’immersione nel senso dello sparire alla vista è quella del verbo δύω, significativamente usata anche per il tramonto degli astri e della vita umana. Le altre, κυβιστάω, ἀρνεύω, κολυμβάω, paiono radicali che indugiano più sulla cinesi, sul movimento dell’immersore ovvero del tuffatore tout court.

Come già accennato il termine ἀρνευτήρ diventa in latino urinator con l’epentesi della i tra la liquida-vibrante e la nasale. Dell’etimologia del vocabolo parla Varrone (De Lingua latina, V, 7, 126): urinari est mergi in aquam, Varrone spiega che anche le urnae, le brocche per l’acqua, rimontano etimologicamente ad urinari perché vengono riempite immergendole nell’acqua (De Lingua Latina V, 126). Secondo la vulgata infatti acqua era originariamente reso in latino con il termine urina. Secondo un’altra ipotesi invece il nome di urinatores deriverebbe dall’aumento notevole della diuresi da parte dei sommozzatori a seguito dell’esposizione costante allo stress fisiologico dovuto all’apnea, come scientificamente provato dalla scienza medica.


Plinio (Naturalis Historia, II, 234) dice che i sommozzatori usavano dell’olio per migliorare la visibilità: s’immergevano tenendo in bocca una quantità d’olio che poi emettevano, una volta in apnea, per agevolare la visione sott’acqua (omne oleo tranquillari et ob id urinatores ore spargere quoniam mitiget naturam asperam lucemque deportet). A proposito degli animali acquatici più pericolosi per l’uomo sempre nella Naturalis Historia IX, 91 così si esprime a proposito dei polpi: Praeterea negat ullum atrocius esse animal ad conficiendum hominem in aqua. Luctatur enim conplexu et sorbet acetabulis ac numeroso suctu diu trahit, cum in naufragos urinantesve impetum cepit. “Inoltre nega ci sia animale più tremendo per uccidere un uomo in acqua. Infatti, quando ha assalito dei naufraghi o dei subacquei lotta stringendoli e con le sue ventose li succhia e a lungo li aspira con numerosi succhiamenti” Il verbo urino ovvero urinor è attestato sia nella forma attiva che in quella deponente in Varrone, Cicerone e Plinio.


Anche Livio Ab urbe condita XLIV, 10 usa il termine urinatores nel riferire un episodio della guerra contro Perseo di Macedonia nel 168 a.C.; il re, terrorizzato dall’arrivo dei Romani, dette ordine di gettare in mare tutti i tesori reali di Pella, ma poi, essendosi pentito, ne dispose il ripescaggio, ingaggiando dei sommozzatori che poi fece uccidere per eliminare ogni testimone superstite di quel suo ordine così insensato: “Perseus tandem pavore eo, quo attonitus fuerat, recepto animo malle imperiis suis non obtemperatum esse, cum trepidans gazam in mare deici Pellae, Thessalonicae navalia iusserat incendi. Andronicus Thessalonicam missus traxerat tempus, id ipsum, quod accidit, paenitentiae relinquens locum. Incautior Nicias Pellae proiciendo pecuniae partem, quae fuerat Phacum; sed in re emendabili visus lapsus esse, quod per urinatores omnis ferme extracta est. Tantusque pudor regi pavoris eius fuit, ut urinatores clam interfici iusserit deinde Andronicum quoque et Nician, ne quis tam dementis imperii conscius existeret”, “Perseo, ripresosi una buona volta dal terrore che ne aveva paralizzato l'azione, avrebbe voluto che non si fosse data esecuzione all'ordine, impartito in un momento di debolezza, di gettare in mare il suo tesoro a Pella, e a Tessalonica di incendiar l'arsenale. Andronico, inviato a Tessalonica, aveva cercato di guadagnar tempo, proprio con l'intenzione di lasciare al re la possibilità di ripensarci, come di fatto avvenne. Più precipitoso fu Nicia a Pella nel far getto di una parte del denaro che era custodito nei pressi di Faco; ma sembrò incorso in colpa facilmente rimediabile, perché quasi tutto fu ripescato ad opera di sommozzatori. E il re provò tanta vergogna di quel suo panico, da far uccidere nascostamente i sommozzatori e poi anche Andronico e Nicia, perché non sopravvivesse più alcuno che fosse a parte di quel suo ordine pazzesco.”

Altra terminologia per indicare la professione di chi s’immerge in acqua non è riscontrabile in latino, poiché vocaboli come natator o nantes debbono intendersi riferiti alla semplice attitudine al nuoto e non alla subacquea.

Il latino quindi circoscrive quell’attitudine esclusivamente al termine urinator, laddove il greco presenta un’apparente poliedricità lessicale, anche se, per quanto si è avuto modo di esaminare, soltanto il termine usato da Erodoto, dÚthj, configura nella situazione di Scillia l’abilità immersiva del natante.

Come accennato in apertura della sezione dedicata al mestiere del subacqueo nell’antichità, ad ogni buon conto, né l’una né l’altra lingua adottano le radici di βαθύς e profundus per indicare il mestiere dell’immersore professionista; la valenza fascinosa e misterica di entrambe ne sconsigliava l’utilizzo per un approccio all’elemento idrico che presupponesse dimestichezza e routinarietà.

Bibliografia

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Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee

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Trebellio Pollione,’Historia Augusta

Virgilio ,Eneide
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