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Il setting nel processo analitico di Stella Morgese. Seconda parte

                                                              Seconda parte.

           Il setting nel processo della relazione analitica




Il setting scivola nel processo coinvolgendo nello strumento terapeutico la coppia analista-analizzando.

 Entra in scena la relazione analitica.

Già nel 1938 Glover avvia una famosa inchiesta volta a verificare cosa facciano effettivamente gli psicoanalisti nel setting. Il risultato di quella indagine rivela che nonostante le dichiarazioni in favore dell’atteggiamento analitico neutrale, dell’astensione, del silenzio e delle restanti prescrizioni intrinseche ed estrinseche(Gill,1984), in realtà vengono applicate nel setting una serie di deroghe, come contatti telefonici ed epistolari coi pazienti, la introduzione della dimensione giocosa e così via(sia pure con riluttanza e non nella accezione del parametro della tecnica).

Eissler(1953) introduce per primo questo concetto per cercare di disciplinare in qualche modo le costanti variazioni della tecnica classica, definita dall’autore come modello di tecnica di base(basic model technique).

Essa risulta efficace per un Io che tollera la frustrazione della pura interpretazione, quale quello dei pazienti nevrotici, ma si manifesta inidonea nel momento in cui si lavora con pazienti difficili che hanno una struttura deficitaria e sono bisognosi di rassicurazioni, consigli, modificazioni della posizione, che non trovano spazio in una applicazione rigida ed esclusiva della interpretazione.

Da ciò scaturisce la questione della differenziazione tra psicoanalisi e psicoterapia: per ottenere un reale cambiamento dell’Io, sostiene Eissler, non bisogna incorrere nel rischio del sequestro di materiale non analizzato proprio a causa della variazione del setting col parametro, senza un adeguato approfondimento dell’insight. Il parametro secondo Eissler, si rende strumento temporaneo al superamento di una impasse, per cui rimosso l’ostacolo, il parametro diventa esso stesso oggetto di esame interpretativo.

Secondo Eissler si definisce psicoterapia quella attività terapeutica con introduzione di parametri non eliminati, e dunque elementi stabili del setting, non analizzati.

La rassicurazione o il suggerimento comportamentale, dona al paziente un intuitivo ed evidente effetto benefico, ma ha lo svantaggio di non raggiungere un obbiettivo più potente e duraturo desiderato, attraverso l’introiezione del benessere ottenuto. La psicoterapia, così intesa, non raggiunge per l’autore lo scopo della psicoanalisi: ossia, le modificazioni strutturali dell’Io .

In realtà, il setting andava adeguandosi alle esigenze del benessere di un paziente di più ampio respiro, sempre più complesso, meno elitario, nella sua ambivalente funzione di scena psicoanalitica e/o psicoterapeutica.

Autori come Gill mettono in discussione il modello della tecnica di base di Eissler fondato sulla analisi classica. Gill sottolinea che la pretenziosità di un unico tipo di setting utile alla rivelazione di un tranfert più puro di altri nell’ambito del processo psicoanalitico, si scontra con la stessa evidenza che il transfert risulta specifico di ogni paziente che a sua volta caratterizza il setting stesso. Pertanto, le posizioni successive di Gill (1984), ben si inserirono all’interno della tradizione interpersonale o relazionale in psicoanalisi.

A Gill (1984) va il merito di aver sistematizzato le regole del setting, definendo i criteri intrinseci e quelli estrinseci della psicoanalisi, corrispondenti a quelli che Leo Stone, chiamò rispettivamente funzionali e formali(1954), includendo nei criteri intrinseci i riferimenti teorici della tecnica, e nei criteri estrinseci gli aspetti descrittivi della tecnica stessa come strumenti di lavoro.

A proposito dei criteri intrinseci della psicoanalisi, si può riassumere la sistematizzazione di Gill(1954)nella centralità dell’analisi del transfert, nella neutralità dell’analista, utilità della induzione di una nevrosi di transfert regressiva e quindi nella interpretazione come strumento risolutivo la nevrosi transferale regressiva. Nei criteri estrinseci Gill includeva la trattazione di temi come la frequenza delle sedute, di cui a tutt’oggi non vi sono dimostrazioni scientifiche sul numero ottimale correlato al risultato, ma la cui silente continuità è di per se strumento del concetto di setting di valore epistemologico; inoltre, l’uso del lettino, che raggiunge lo strumentario del setting attuale: leggendario è l’uso che Freud fece del lettino in senso controtransferale, di difesa personale dagli sguardi dei suoi pazienti per otto ore al giorno e non ne fece mistero, sebbene non applicò regolarmente il criterio con tutti i suoi pazienti (l’Uomo dei lupi). In realtà, Gill pur restando fedele alla analisi classica lascia aperta e flessibile la questione dei criteri estrinseci.

Questi stessi criteri subirono più tardi ulteriore revisione a seguito della inclusione di setting in strutture pubbliche e con terapie brevi su pazienti con sindromi complesse(Bolko, Merini 1988). La necessità del rimaneggiamento dei concetti che Gill pubblica nel 1984, segue alla revisione teorica della analisi del transfert in una prospettiva relazionale del setting come l’evoluzione dei tempi indica, con inclusione di trattamenti in strutture pubbliche e con più ampio bacino di patologia.

Dunque, anche sulla interpretazione come fattore curativo nel setting e sul suo concetto si sono ugualmente avvicendate sorti alterne. L’interpretazione esce dalla Conferenza di Edimburgo, di cui si è fatta menzione, come concetto forte nel senso di verità della interpretazione.

A parere di Migone, oggi si rischia una tendenza inversa alle posizioni rigide prese ad Edimburgo, in favore di un setting empatico e felice dove il rapporto ed il calore umano diventa unico fattore di cura (Migone,2002).

La direzione impressa da Ida Macalpine fin dal 1950, infatti, nonostante la Conferenza di Edimburgo, lascia la sua impronta sulla psicoanalisi che […]pone e mantiene l’analizzando in un setting infantile, sia ambientale che emotivo e l’analizzando si adatta gradualmente a esso regredendo e sviluppando una nevrosi di tranfert(Del Corno, 1989).

Si precorrono concetti di regolazione reciproca (si veda l’Infant research degli anni Settanta) della relazione madre-bambino applicata al setting: ci sarebbero comportamenti strategici consci e inconsci ( volti a provocare, inibire, modulare o rafforzare esperienze emotive) che rimangono costanti per il resto della vita la cui conoscenza può essere utilmente applicabile nella azione analitica(Gazzillo, Lingiardi,2014).

Da allora in poi cambia la riflessione sul valore ed il ruolo del setting : Paula Heimann negli anni Cinquanta, col suo articolo Sul controtransfert(1950) viene considerata analista che aggiunge un ulteriore tassello di conoscenza del processo analitico. Persino le risposte dell’analista che rompe il silenzio ed interviene emotivamente sul set, perde il significato dominante di violazione da conflitto irrisolto dell’analista stesso, per trasformarsi in elemento di conoscenza del processo. L’analista non è più uno specchio appeso sulla parete di fronte al paziente su cui riflettere la archeologia mnemonica o riverberare luce nelle catacombe delle resistenze, ma interprete emotivamente ed attivamente coinvolto nel processo.

Ritrovano spazio nel setting, come detto, concetti di holding e di area transizionale di Winnicott, e di contenitore e contenuto di Bion.

Winnicott si esprime con queste parole nel 1971:
"La psicoterapia si fa nella sovrapposizione di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. Se il terapeuta non sa giocare, allora non è adatto a questo lavoro. Se il paziente non sa giocare bisogna fare qualcosa per metterlo in condizione di poter giocare, dopo di che la psicoterapia può cominciare".

Nel giuoco delle parti, il fluttuare si fa dell’atteggiamento analitico che oscilla insieme al processo tra transfert e controtransfert nel tempo del processo.

Il progresso nella conoscenza del vissuto del paziente passa proprio attraverso l’attenzione alla individuazione di queste trasformazioni. Il setting materiale, garante stabile che non ha possibilità di interferire, permette un distillato della relazione nella osservazione delle oscillazioni tranfert-controtranfert. In ciò l’ipotesi nella visione di Codignola(1977).

Il setting esterno, la cornice di lavoro, diventa punto di riferimento del setting interno, esperienza e conoscenze teoriche, dell’analista(Del Corno).

In tempi più recenti, la fissità della cornice trova in Semi (1997) una riproposizione, per cui per l’autore il setting costituisce quell’assetto relazionale analitico che l’analista deve assumere e conservare per tutta la durata del trattamento: è la condizione fondamentale e insostituibile perché si possa fare psicoanalisi.
La condizione suddetta[…]serve a consentire al paziente di realizzare esperienze che abbiano relazione con il proprio inconscio, con la propria infanzia, con i propri conflitti (Di Chiara ,1971).

Lo stesso Di Chiara(1977) riflette poi sul rapporto tra paziente e setting. Secondo l’autore il paziente mette in atto difese specifiche attraverso un vero e proprio esercizio di pressione sull’analista atto a modificare il setting stesso perché esso meglio si accomodi al soddisfacimento delle proprie fantasie. Inizialmente il setting è vissuto dal paziente come una situazione esterna, si potrebbe dire stravagante, e quindi la fissità del cerimoniale aiuta a cogliere le oscillazioni come anche in tutte quelle condizioni di conflitto della coppia terapeutica. La riconosciuta bi-direzionalità tranfert-controtranfert ridisegna complessivamente il significato del setting negli ultimi decenni: esso opera attraverso il potere trasformante delle emozioni inconsce di entrambi, analista ed analizzando, ponendo sempre più in primo piano l’interesse per l’azione terapeutica della relazione piuttosto che dei movimenti esclusivi del paziente. L’inconscio dell’analista carico delle sue stesse istanze biografiche di personalità eccede il processo analitico stesso invece di essere ad esso subordinato.

Schafer(1983) fa notare che negli analisti può farsi largo un bisogno narcisistico di star bene con l’altro a seguito di vissuti di deprivazione e solitudine, depressione ed allo stesso tempo di grandiosità nelle cure analitiche. L’analista per Schafer corre il rischio di interpretare una figura benevola, non istintuale, riparatrice. L’autore sentenzia che(Del Corno,1989)[…] Per tutti questi motivi e per altri ancora, può accadere che per l’analista diventi troppo importante mantenere la pace resistendo all’analisi della resistenza. La scena analitica, di conseguenza, può essere tranquilla ma molto confusa. E’ un caso di collusione. Bisogna essere in due per confondere le acque.

La criticità del setting passa, dunque, attraverso la complessità delle emozioni relazionali bidirezionali e la sua area spazio-temporale deve potersi prestare a renderle pensabili. La psicoanalisi si orienta progressivamente dalla focalizzazione sul setting alla centralità della relazione, dall’individuo alla coppia che interagisce, nella logica della modalità affettiva per condurre l’individuo-soggetto-persona fino alla creatività primaria di Winnicott.

La Infant Research, è innegabile, dà una spinta significativa all’atteggiamento nel setting, che caratterizza come un’onda sotterranea trasversale le diverse correnti psicoanalitiche fino ad oggi, a partire dallo stesso Ferenczi, passando attraverso la analisi interpersonale di Sullivan fino alla psicologia del Sé di Kohut, dissidente storico della ortodossia americana, ed allo stesso tempo protagonista del successo della empatia come metodo di cura nel setting della ferita narcisistica cronica, iatrogena ortodossa, si potrebbe aggiungere, inferta dagli psicoanalisti americani fedeli alla interpretazione tout court.

Una sorta di ricorso storico è quello del dibattito Kohut-Kernberg sul ruolo curativo relazionale empatico delle personalità narcisistiche, sovrapponibile a quello di Gitelson nella citata Conferenza.

Ricerche fatte da Leff(1988) ed Hooney(1985) sulla schizofrenia, mettono in luce il valore terapeutico di concetti di attaccamento e della identificazione col terapeuta piuttosto che il lavoro di insight.

L’isolamento di una tecnica pura depurata del fattore umano è puramente teorica secondo Gunderson (1988). La pretesa separazione teorica della diade” attaccamento-comprensione”, è impraticabile nella evidenza clinica e dunque sulla scena del setting dove invece i due termini appaiono strettamente congiunti .

Nella più recente ricerca scientifica, sia attinente il processo nel setting che l’esito terapeutico(Luborsky,1984), vi è che l’alleanza terapeutica correla col risultato positivo per il raggiungimento dello scopo.(Migone,1989)

L’alleanza è una componente fondamentale del setting, presupposto di esperienze di transfert e di identificazioni col terapeuta che possono mutare l’esperienza del vissuto patogenico del paziente. L’alleanza terapeutica, dunque, fatta della fiducia della coppia terapeutica verso uno scopo correla positivamente col risultato. Meissner identifica le componenti principali della alleanza terapeutica nella empatia, responsabilità, autorità, libertà, fiducia, autonomia, iniziativa ed etica.

Far conscio l’inconscio, coi limiti del significato, era stata l’indicazione di Freud(Freud, L’inconscio) e resta ancora oggi una indiscussa eredità compresa tra i fattori curativi della psicoanalisi, i cui meccanismi di azione nel processo del setting, alla stregua di un farmaco etiologico, sono stati e sono oggetto di una messe prolifica di concettualizzazioni, mostrando di volta in volta nuove proprietà o effetti collaterali. L’aforisma, che riassume il fare esperienza di transfert nel setting, chiarito attraverso l’interpretazione, conserva cionondimeno la promessa di liberazione dalla dimensione maledetta della ripetizione traumatica, radicalizzandola a proprio vantaggio od addirittura trasformandola insieme all’analista, che si lascia usare emotivamente nella sua soggettività sul set della relazionalità, nella visione contemporanea.

IL SETTING NEL PROCESSO PSICOANALITICO di Stella Morgese :, prima parte




INDICE


PRIMA PARTE 
Introduzione
Il setting e la teoria della tecnica nella storia.

SECONDA PARTE
Il setting nel processo della relazione analitica

TERZA PARTE
Il setting in azione.

Bibliografia



                           

                                                        PRIMA 
PARTE

Introduzione

L’analisi, come esperienza relazionale unica ed irripetibile sul palcoscenico del dramma personale, prende corpo nel tempo del racconto, tra memorie e transfert, sogni ed interpretazioni, all’interno della architettura organizzativa del setting che incornicia la coppia analista-analizzando, impegnata ad interpretare la trasformazione.
Argomento complesso quello del setting, non può trasformarsi in un mero elenco alfabetico di strumenti e del loro manuale d’uso progressivamente aggiornato nella sua controversa evoluzione storica. 
Cuore pulsante del setting è la mente emozionale nella relazione, tra paziente richiedente ben-essere e terapeuta disposto a liberarlo dal mal-essere nel percorso psicoanalitico. 
Il setting è il contesto spazio-temporale della azione analitica dove le emozioni esplorano la parola, teatro psichico(Mc Dougall,1989), su cui si consuma la metafora della scena, del set, luogo stabile di sfondo che osserva la mutevole interazione emotiva ambiente-paziente nel tempo sferico del ricordare, rivivere ed interpretare. 



Il setting e la teoria della tecnica nella storia.





Freud non usò mai la parola setting ed a posteriori si potrebbe persino dire che affrontò la questione della ritualizzazione dei suoi incontri con i pazienti con disinvolto pragmatismo.

E’ noto, e si riporta ad esempio, che Freud dedicando trenta ore settimanali alla sua attività clinica a cinque pazienti per sei giorni alla settimana, a fronte della pressante richiesta, sottrasse ad ognuno di loro un’ora alla settimana, facendo spazio al sesto paziente con un bilancio matematico, semplicemente. Alla luce della evoluzione della psicoanalisi, questa scelta potrebbe apparire un agito dello stesso illustre capostipite, apparentemente incurante della sua violazione( Gabbard e Lester,1995) dei confini del contratto nel setting. In realtà, se si tiene conto che il paziente freudiano era essenzialmente ad organizzazione nevrotica, si comprende come la scena in se potesse restare in secondo piano tanto per l’analista quanto per l’analizzato, giustificando la brevità dei suoi approfondimenti in merito alla questione. Eppure, secondo diversi autori( Modell, 1990), rimane il convincimento che il contributo di Freud al setting sia sostanziale, pur non avendo mai pubblicato uno scritto dedicato, ma Consigli sulle procedure della tecnica analitica, raggruppabili in sei scritti tecnici, sebbene il progetto iniziale fosse un’opera organica intitolata Tecnica generale della psicoanalisi. 



Genovese (1988) scrive che " Freud suggerì tuttavia alcuni accorgimenti pratici (regolarità dei colloqui, regola dell’astinenza, neutralità dell’analista, ecc…) il cui fine era quello di sviluppare una situazione interpersonale del tutto particolare caratterizzata da:


1. Isolamento, al fine di proteggere la relazione dalla realtà esterna;

2. Sospensione dell’azione, affinchè potesse emergere in modo più evidente la produzione         emozionale e psichica del paziente;

3. Maggiore controllo delle eventuali “irruzioni” della realtà interna tanto del paziente 
     quanto del terapeuta; 



4. Una agevolazione delle manifestazioni del tranfert ."



Freud definì molti dei suoi accorgimenti come opzionali, ossia come possibilità tecniche ritagliate sulla sua personalità e quindi applicabili o no da altri terapeuti. E via via che la teoria sul transfert evolveva, ineluttabilmente si modificava la teoria della tecnica clinica, portandosi dalla bella epoque de L’uomo dei topi(1909), cui Freud offriva tè ed aringhe, alla concettualizzazione dell’analista come specchio riflettente le manifestazioni comportamentali del paziente(Etchegoyen,1986). 

Gli scritti tecnici offrono pertanto una gamma articolata di temi tanto pratici(orari, incontri, divano, contatti con i familiari), quanto dottrinali. Su questi ultimi Freud mantenne criteri esigenti e rigorosi :essi riguardavano l’atteggiamento del terapeuta (attenzione fluttuante, assenza di ambizione curativa, astinenza e neutralità stabilmente presenti), ed i contenuti (transfert, sogni, interpretazioni) che costituiscono il vero processo del percorso terapeutico. Sotto la spinta della proposta di Ferenczi, allievo di Jung, all’utilizzo di tecniche attive( consigli, divieti, rilassamento del corpo…) per vivificare la stagnazione del processo psicoanalitico, Freud fu indotto nel 1918 a revisione del contesto temporale e spaziale del trattamento, per evitare che elementi seduttivi e manipolatori potessero insidiare la relazione terapeutica. Il setting doveva restare un lavoro di simbolizzazione in cui svelare, riconoscere ed analizzare il transfert, attività correlata tanto alle competenze ed abilità del paziente di disseppellire antichi rimossi, tanto dell’analista di ricollocarli in un passato dal senso svanito. 

In buona sostanza, il setting non soddisfa solo il suo funzionamento organizzativo della scenografia(orologio si-orologio no, lettino si-lettino no), ma deve necessariamente essere inteso nel suo intricato sistema di condizioni materiali e procedurali volto a promuovere il processo analitico che funziona nel suo insieme, e ciò accadeva fin dagli esordi. Sicchè, quando Freud raccomandava un ambiente protetto si riferiva alla atmosfera di sicurezza emotiva. Di più, quando Freud parlava dell’inconscio dell’analista come fosse una cornetta del telefono in ascolto dell’inconscio del paziente colto nella produzione di dati anamnestici emotivi e non, da tenere a mente piuttosto che in un taccuino di appunti, indicava un dato tecnico inscindibile dalla teoria della mente nel funzionamento relazionale. 

Una trama complessa, insomma, se ci si interroga su tutte le variabili del processo e della loro reciproca e plastica rilevanza. Il setting diventa un sistema complesso biologicamente inteso, un microambiente autonomo interattivo che si riempie di oggetti in uno spazio ricco di significati nel tempo, il cui battito è la relazione(Vegetti Finzi,2014). 

La consapevolezza di questa complessità si esprime nel suo spessore intorno agli anni Cinquanta- Sessanta con Winnicott(1955), Spitz( 1956) e Bleger(1967). La difformità d’opinioni sulla rilevanza degli elementi del setting si rese manifesta nella modalità di approccio al tema : si poteva trasmettere un eredità verbale (“tradizione orale” Bolko e Merini, 1988) attraverso comunicazioni maestro allievo sull’assetto materiale del setting mentre si rendeva necessario un sapere accademico della teoria nelle pubblicazioni scientifiche degli aspetti procedurali e teoretici. I consigli di Freud, che pur in origine aveva concesso flessibilità, finirono per diventare vessillo di una ortodossia ideologica irrigidita sulle dispute interne al movimento psicoanalitico(Thoma, Kakele, 1985). 
Winnicott definisce in modo sintetico ed efficace il setting come la somma di tutti i particolari della tecnica e rende originale e suggestiva la sua immagine del setting di Freud con queste parole .



1.Ad un’ora fissata, ogni giorno, cinque o sei volte alla settimana, Sigmund Freud si
   mette al servizio del paziente.
   L’orario è deciso in modo conveniente sia per l’analista sia per il paziente.

2. All’ora stabilita l’analista è lì, si può contare su di lui. E’ vivo, respira.

3. Per il periodo di tempo limitato e prestabilito (circa un’ora) l’analista
    si terrà sveglio e si preoccuperà del paziente.

4. L’analista esprime amore con il suo interesse positivo e odio con la sua rigidità
    riguardo all’inizio e alla conclusione della seduta, come pure in materia d’onorario.
    Odio e amore sono onestamente espressi, non negati cioè dall’analista.

5. Lo scopo dell’analisi è di entrare in contatto con il processo del paziente, di capire
    il materiale presentato, di comunicare questa comprensione verbale. La resistenza
    indica una sofferenza che può essere alleviata dall’interpretazione.

6. Il metodo dell’analista è quello dell’osservazione oggettiva.

7. Questo lavoro deve essere svolto in una stanza non di passaggio; una stanza
    tranquilla, al riparo da rumori improvvisi e imprevedibili, senza, tuttavia, che vi sia un
    silenzio di tomba e che vengano esclusi i rumori abituali di una casa. La stanza
    deve essere adeguatamente illuminata, ma non da una luce diretta sugli occhi o
    variabile. La stanza non è certamente buia, e deve essere calda e confortevole. Il
    paziente si sdraia su di un divano in modo da essere comodo, se comodo riesce a
    stare. Può eventualmente disporre si una coperta e di acqua da bere.


8. L’analista (com’è ben noto) esclude il giudizio morale dal suo rapporto con il paziente,
    non prova alcun desiderio d’interferire con particolari della sua vita personale
    né con le sue idee; non desidera neppure prendere le parti di nessuno nei sistemi
    persecutori, nemmeno quando questi assumono la forma di situazioni reali locali,
    politiche ecc., condivise.Naturalmente, se vi è una guerra o un terremoto, o se
    il re muore, l’analista non può saperlo.

9. Nella situazione analitica, l’analista è una persona di cui ci si può fidare molto di
    più che delle persone della vita quotidiana.Nel complesso, è puntuale, non fa capricci,
    non s’innamora in modo coatto ecc.

10. Vi è una distinzione molto netta, nell’analisi, tra realtà e fantasia, per cui l’analista
      non si offende per un sogno aggressivo nei suoi confronti.

11. La legge del taglione non esiste, se ne può esser certi.

12. L’analista sopravvive (Winnicott, 1955)"

Uno storico articolo dello stesso autore del 1941, che pose le fondamenta della metodologia osservazionale sui comportamenti dei neonati, vede anche la comparsa per la prima volta della parola sostantivata setting dal verbo inglese to set nel suo significato di disporre, mettere a punto. Tra verbo e sostantivo corre la stessa differenza che c’è tra gli elementi fissi del set, come scenario cinematografico, e gli elementi dinamici della scena che vi si anima, via via che transfert, sogni e contenuti interpretativi dialogano tra loro su un canovaccio avvincente. 


Winnicott conferisce al setting una funzione di holding environment, nel significato di cura e contenimento della relazione affettiva, per cui l’analista si fa madre-ambiente sufficientemente buono nell’adattarsi ai bisogni affettivi del paziente come opportunità di sviluppo del suo vero sé. L’autore è indicato come una delle voci più autorevoli nel significativo contributo alla riformulazione del setting sui temi del contenimento, della spontaneità, della relazione analitica e del reciproco riconoscimento tra analizzando ed analista, posto comunque in atteggiamento critico attraverso i criteri di neutralità, astinenza, ed anonimato(Gazzillo, Lingiardi, 2014).

La ricerca di Winnicott apre possibilità terapeutiche a pazienti con sindromi complesse, dal momento che l’affinamento della teoria procedurale permette un lavoro non esclusivo e diretto solo verso pazienti con capacità di rappresentazione simbolica, ma anche con pazienti a cui una relazione primaria insufficiente, non ha permesso lo svilupparsi di un Io sufficientemente strutturato per mantenere le difese nei confronti dell'angoscia. In questo ultimo caso, il setting contenitivo diventa più importante dell'interpretazione. Scrive Winnicott . 


" Il setting diventa il contenitore che permette al passato del paziente di essere il presente nello studio dell'analista. ... C'è per la prima volta nella vita del paziente l'occasione che si sviluppi un Io, che esso si integri a partire dai propri nuclei, che si instauri come Io corporeo, e anche che, iniziando a relazionarsi con gli oggetti, si opponga ad un ambiente esterno. ... Questo lavoro ci coglierà in fallo se la nostra comprensione dei bisogni dei pazienti riguarderà la mente piuttosto che lo psichesoma".



Il setting di Winnicott, diviene incubatrice del processo di strutturazione dell'Io attraverso l'organizzazione dell'Io corporeo. Per cui nel setting entra anche il corpo del paziente a buon diritto come primo organizzatore dell'Io. 

Si giunge, così, a valorizzare l’apparente silenzio scenico del set per dar voce al silenzio relazionale interno del paziente nel trattamento di quelli che Winnicott chiama i disturbi dello sviluppo emozionale primario.

Gli anni Cinquanta, quindi, segnano l’incipit del dibattito che lega indissolubilmente gli approfondimenti scientifici sul setting alle osservazioni sui processi transferali e controtransferali che vi si attivano. 

La Klein presenta nel 1953 alla Royal Medical-Psychological Association un suo lavoro sull'uso della tecnica psicoanalitica del gioco nella terapia dei bambini.

L’introduzione del gioco, come mezzo della espressione del mondo inconscio nella infanzia, getta ulteriore scompiglio in quasi tutte le condizioni del setting freudiano: l'interdizione della motricità e del contatto visivo non è praticabile nel lavoro con i bambini; la comunicazione non è solamente verbale, ma passa attraverso tutti i canali espressivi sensoriali, tatto compreso, contravvenendo ai dettami della ortodossia.

Spitz(1956), ed anche Macalpine(1950), Greenacre(1954), Lewin(1955) e Stone(1961), si occupano contestualmente della importanza del setting nella evoluzione delle diverse reazioni di transfert, analizzando per esempio gli elementi che facilitano l’alleanza o quelli che favoriscono una nevrosi di transfert, sollevando rispettivamente un funzionamento più adulto o una regressione con dipendenza infantile. Ancora, si interessano alla disamina del valore della posizione sdraiata con limitazione alla mobilità che rimanda al sonno, la deprivazione sensoriale visiva verso un interlocutore anonimo e silenzioso, che riassumono nel loro contributo scientifico, il peso degli elementi cosiddetti esterni del setting, mentre le libere associazioni completano la dimensione onirica della posizione di riposo tenuta dal paziente nel setting, nella sua componente teorico-procedurale della parte interna al processo.

Per Ida Macalpine l’intero cerimoniale analitico del setting con la riduzione degli stimoli oggettuali esterni, amplificato dallo stile neutrale dell’analista senza consigli e senza risposte, cui il paziente è costretto ad adattarsi, è elemento rilevante per il mantenimento della regressione infantile desiderata e la emersione della nevrosi da transfert sviluppata nei confronti del terapeuta, utile allo scioglimento dei suoi nodi nevrotici fino alla elaborazione ed al dissolvimento dei conflitti inconsci.

Balint, sempre nello stesso periodo storico, si muove nella medesima direzione teorica sulle orme di Winnicott, elevando a massimo agente terapeutico il setting a discapito della interpretazione. La ragione di questo viraggio risiede nella progressiva inclusione nel trattamento analitico di pazienti con patologie psichiatriche definite gravi, il cui vissuto, strutturatosi in difese arcaiche, rischiava di essere ulteriormente scompaginato proprio dalla interpretazione, potenzialmente percepita come pericolosamente persecutoria. Si solidificava progressivamente il concetto di setting come contenimento della condizione psicotica attraverso un meccanismo di interiorizzazione del setting stesso come oggetto buono capace di guardare la propria sofferenza(Bolko M., Merini A. ,1988). 

Bleger nel 1967 pubblica un articolo: “Psicoanalisi dell'inquadramento psicoanalitico”, in cui indagò il significato del setting psicoanalitico proprio nella terapia di pazienti borderline e psicotici.
Gli autori suddetti hanno il merito di aver dato un contributo sostanziale a tutti questi approfondimenti.
Per la prima volta nel 1957 nell'ambito del XX Congresso dell'International Psycho-Analytical Association si istituisce una sezione di lavoro dedicata al setting. 
Il termine situazione psicoanalitica viene introdotto in letteratura da Leo Stone(1961). Con questa definizione egli intese accorpare l’interezza degli aspetti del setting fissi e dinamici, interni ed esterni, come intesi fino ad allora. 
Bleger precisa, in una pubblicazione del 1966, che il setting è un insieme di sfondo e scena, fisso e dinamico nello stesso tempo, nel quale si storicizza la relazione affettiva della coppia terapeutica, al pari della coppia simbiotica madre-bambino fino alla discriminazione di se stesso del paziente . Sfondo e scena, dunque, in cui l’uno non può prescindere dall’altra, configurando quello che egli stesso chiama processo, rinominando gli elementi fissi col termine encuadre. Bleger afferma la centralità identitaria del setting nel movimento psicoanalitico, ma l’interpretazione rimane per l’autore strumento fondante del processo analitico, imprescindibile per il lavoro dell’analista(Migone,1989).
Fu Bion nel 1967 a codificare il termine contenitore-contenuto, in senso materiale e figurativo dello spazio in cui l’analista(contenitore) contiene le angosce(contenuto) del passato del paziente e fino a quando il paziente abbia conquistato strumenti autonomi di gestione delle stesse.
Ma fin dal 1950 La Macalpine avvia, insieme agli autori già citati, un nuovo campo di indagine sul significato del setting che sembra prendere, dunque, due diverse direzioni: la prima, quella in cui la stanza dell’analisi è un posto confortevole, ma inattivo, per farla breve; la seconda, quella in cui il setting si guadagna un ruolo nella epistemologia analitica come agente terapeutico attivo, inseparabile dalla regola fondamentale e dalla interpretazione.
Guardando retrospettivamente la letteratura psicoanalitica fino agli anni Sessanta, il setting, nella attuale accezione, viene discusso frammentariamente. Nei testi classici come il Dizionario critico di Psicoanalisi di Rycroft(1968) e nella Enciclopedia della Psicoanalisi di Laplanche e Pontalis(1967) si trovano voci come astinenza e regola fondamentale, ma non vengono affrontati in maniera organica come aspetti concernenti il processo(Bolko M., Merini A. ,1988). 
E’ inevitabile, a questo punto, la menzione di un evento topico del movimento psicoanalitico, la Conferenza di Edimburgo del 1961, che con un deciso passo indietro, congela a lungo nella interpretazione l’elemento curativo distintivo e fondante della psicoanalisi nel processo del setting, attribuzione condivisa dalla maggioranza degli analisti che vi prese parte, salvo voci isolate come Gitelson(1962) che indicavano la strada intrapresa da Strachey(1934) come evolutivamente percorribile. All’epoca sembrò, dunque, che l’evoluzione della psicoanalisi si riorientasse verso un concetto iper-freudiano della analisi nel setting, incurante delle stesse intuizioni di Freud e di Stachey sulla importanza del legame affettivo nella terapia, quasi a disvelare nel bisogno di un concetto forte il timore di perdere l’identità del movimento.
Ma a distanza di circa venticinque anni da allora, Migone scrive(1989):

"[…]pare vi sia una linea di tendenza inversa: il concetto di “verità della interpretazione” ha perso il ruolo centrale[…], riscoprendo altri aspetti della tecnica, come il contenitore, il rapporto emotivo, l’empatia, la relazione felice, ecc. Il rischio è che si ripeta un errore uguale e contrario, svalutando del tutto l’interpretazione e attribuendo al rapporto umano il ruolo di unico fattore curativo. Una tendenza forse maggioritaria è rappresentata da coloro che credono di aver ritrovato questo nuovo nucleo della psicoanalisi nel concetto di setting(Galli, 1988), in alcuni casi innalzandolo a vero e proprio fattore curativo accanto a quello della interpretazione, mostrando così di ripercorrere dei passi fatti dalla psicologia già vari decenni fa."

Dagli anni Settanta ad oggi il dibattito ondivago sul setting non trova una pacifica collocazione e diventa uno dei campi di ricerca fondamentali della psicoanalisi. Nel post-Freud, in soli venti anni gran parte dei vincoli che Freud aveva posto come fondamentali per il lavoro psicoanalitico vengono profondamente modificati e trasformati. 
Nella corrente di pensiero della relazionalità come reale elemento di cura del setting, si inserisce nel suo massimo contributo la attuale ricerca sul rapporto paziente-analista, dove la figura asimmetrica dell’analista, depositario di conoscenza autorevole, perde la sua indiscussa oggettività interpretativa(di tradizione epistemologica positivista classica e di indirizzo interpersonale) per far posto ad una autentica reciprocità col paziente. Le conoscenze dell’analista, come teoria di riferimento, cambiano il loro modo d’uso.
Mitchell così si esprime(1993)(Gazzillo, Lingiardi,2014):

"Arriviamo a conoscere la realtà esterna soltanto attraverso la nostra esperienza di essa, che è, inevitabilmente, organizzata in base alle nostre idee, ai nostri presupposti, ai nostri desideri.[…]Capire qualcosa significa organizzarlo. Poiché l’organizzazione non sta unicamente nell’esperienza da comprendere, ma anche nella attività del comprendere, sono possibili organizzazioni diverse, spiegazioni diverse. Dire che l’esperienza è fondamentalmente ambigua, significa dire che il suo significato non è intrinseco o evidente, ma si presta a comprensioni e interpretazioni multiple".

In conclusione di questa breve rassegna storica, il setting è comunque uscito a testa alta(Lingiardi, de Bei,2008) dalle baruffe ideologiche e si è conservato come status symbol della psicoanalisi tra le diverse psicoterapie, nel suo indiscutibile valore materiale e procedurale. 

(fine prima parte. Continua)